Nichilismo, individuo, universalismo reale

dic 17th, 2013 | Di | Categoria: Teoria e critica

Un percorso originale ed inedito di ricostruzione della filosofia marxista


di Costanzo Preve

1. La situazione generale del dibattito filosofico che intende trarre ispirazione dal marxismo teorico e dal comunismo politico è oggi semplicemente vergognosa. Si leggono e si continuano a leggere analisi convincenti, o quanto meno pertinenti, di tipo sociale, economico, politico, geopolitico, culturale. Ma in filosofia niente. O quanto meno in filosofia prevalgono i testi ispirati a commenti interminabili a citazioni tratte dai classici, da Marx a Lenin, da Gramsci ad Engels. Ma dalle citazioni non viene fuori altro che la citatologia, questa parente povera della filosofia. La citatologia è inoltre autoreferenziale, e non rimanda altro che a sé stessa. La citatologia deriva da una concezione teologica della perfezione insuperabile dei classici, come se i classici fossero dei fondatori di religioni come Mosè, Gesù di Nazareth o Maometto. Il citatologo non è soltanto disperatamente sterile. È anche inevitabilmente aggressivo verso chi rifiuta la via rassicurante della citatologia stessa. Sospetta sistematicamente complotti revisionisti, eclettismi piccolo-borghesi, contaminazioni impure, eccetera. Prima del 1991 e della caduta del comunismo storico novecentesco il citatologo aveva almeno un punto di riferimento ortodosso (il filosovietismo, lo stalinismo, il togliattismo) o eretico (il bordighismo, il trotzkismo, il maoismo). Ma dopo il 1991 il citatologo incarna in modo pittoresco e tragicomico l’autoreferenzialità pura. Si tratta di una figura antropologica della attuale crisi del marxismo. Ma se nel campo dell’economia, della politica e della storia la citatologia ha poco spazio, perché bisogna pur sempre fornire dati, prognosi, ipotesi, nel campo della filosofia la citatologia continua ad avere un suo spazio soffocante. Vi sono per questo molte ragioni, che inizieremo ad indicare nel prossimo paragrafo.

2. In primo luogo, il citatologo è quasi sempre un docente universitario di filosofia. Per ragioni complesse dovute ai meccanismi della carriera accademica e alle regole della stesura dei testi che possono essere presi in considerazione per superare un concorso universitario, l’originalità è bandita ed è considerata segno di presunzione, immaturità, dilettantismo e stravaganza, mentre è considerato decisivo un ricchissimo apparato di note, cioè di citazione. Mi rendo conto che tutto questo è in larga misura inevitabile, per scoraggiare la superficialità e l’incapacità di leggere e di commentare testi, sia di maggiori che di minori. Ma il risultato finale è l’educazione alla citatologia, non alla filosofia. E siccome la citatologia, necessaria per superare un concorso, alla lunga annoia e disgusta, il risultato finale è quel clima psicologico di cinismo e di disincanto, di relativismo e di irrilevanza che regna in particolare fra i professori universitari di filosofia. Almeno per i professori di medicina ed i grandi clinici il relativismo ed il cinismo sorgono dalle barcate di soldi che guadagnano. Ma per i professori di filosofia il relativismo ed il cinismo sorgono proprio dal modo esasperatamente citatologo con cui fanno il loro mestiere.

E questo ci porta ad una seconda ragione. Per fare filosofia bisogna, innanzitutto, credere nella filosofia e nell’esistenza di un suo oggetto e di un suo metodo specifici, distinti da quelli delle scienze naturali e sociali, della letteratura, dell’ideologia, della religione e dell’arte. La maggioranza dei professori universitari di filosofia, esperti di citatologia, non vi crede affatto, e questo dà luogo ad una situazione irresistibilmente tragica o comica, a seconda dell’umore con cui la consideriamo. La maggioranza dei filosofi detti impropriamente “marxisti” condivide questa impostazione con i propri colleghi detti “borghesi”, e lo fa con un grado maggiore o minore (ma generalmente inesistente e borioso) di consapevolezza autocritica. La situazione, come si vede, è completamente bloccata.

3. La considerazioni fatte nei due precedenti paragrafi mi permettono di collocare in modo storicamente più credibile quanto ora cercherò di dire. Circa dieci anni fa, presso l’editore Vangelista di Milano, pubblicai una trilogia filosofica di tipo non citatologico ma relativamente originale di ricostruzione della filosofia marxista (Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, 1991, (Il pianeta rosso. Saggio su marxismo e universalismo, 1992, ed infine (L’assalto al cielo. Saggio su marxismo ed individualismo, 1992). Si tratta di un percorso filosofico che ritengo ancora attualissimo, e che in questo breve saggio intendo riproporre, ovviamente con le modificazioni dovute alle riflessioni di questo ultimo decennio.

Dieci anni fa, alla pubblicazione di questa trilogia seguì un imbarazzante ed assordante silenzio stampa. Nessuna segnalazione, nessuna recensione, nessuna discussione. Non zero virgola qualcosa, zero assoluto. Una spiegazione di questo silenzio potrebbe essere la modestia della scrittura filosofica e la povertà della proposta teorica, e cioè una meritata punizione. Un’altra spiegazione, da sconsigliare per i suoi evidenti risvolti paranoici, potrebbe essere la volontaria congiura del silenzio appunto per “silenziare” un interlocutore potenzialmente imbarazzante e destabilizzante. Ma a distanza di dieci anni propendo per un terzo tipo di spiegazione. Ritengo che la problematica generale da me sollevata in questa trilogia fosse talmente aliena ed incomprensibile per la sinistra colta politicamente corretta, che gestisce il potere giornalistico ed editoriale delle segnalazioni ed organizza la manipolazione delle discussioni consentite, da risultare in un certo modo invisibile.

Sono passati dieci anni da allora, e ritengo che cose allora inconcepibili ed invisibili stiano lentamente diventando concepibili e visibili. Per questo ripropongo qui le tesi fondamentali di allora, con una sola radicale modificazione. Mostrerò prima come l’adozione da parte del marxismo di uno statuto filosofico nichilistico sia stata l’origine della crisi. Passerò poi ad una trattazione della natura dell’individuo sociale moderno come solo possibile titolare della possibilità del comunismo. Concluderò infine sul problema del nuovo universalismo che ci sta di fronte.

4. In principio ci fu il tempo, e la freccia del tempo è irreversibile. Lo spazio simbolico in cui scorre il tempo (immagine visivamente deformata dell’unità materiale fra spazio e tempo genialmente concepita da Einstein) è uno spazio della perdita, dell’implosione e dell’entropia, lo spazio cioè del nulla. Il tempo corrode il corpo umano, nostro principale luogo di identità, portandolo inesorabilmente dall’adolescenza alla vecchiaia. Il tempo corrode ed annulla la memoria delle generazioni, vincolandola a supporti materiali fragili come il papiro, la pergamena, la carta, i dischetti. Il tempo vanifica infine tutti i valori costitutivi delle comunità umane di tipo individuale e collettivo, morale e sociale. Il nesso terribile fra tempo e nulla, temporalità e nichilismo, ha costretto quell’animale simbolico che è l’uomo a cercare nell’Origine del Tempo sottratta al Tempo stesso la sola base stabile della sensatezza della propria esistenza segnata dalla consapevolezza anticipata e conosciuta della propria morte. Lo spazio simbolico dell’Origine del Tempo deve dunque essere sottratto alla temporalità stessa intesa come distruzione nichilistica permanente di ogni stabilità. A mio avviso, se non si parte da questo punto, e si parte invece da una fantomatica “materia” originaria come matrice del mondo (dall’acqua di Talete al (big bang dei fisici moderni), si parte con il piede sbagliato, ed è allora del tutto inutile parlare di filosofia, marxismo, comunismo ed altre parole vuote di questo tipo.

5. L’origine della Religione, o più esattamente delle religioni, sta dunque nella razionale esigenza di sottrarre allo scorrimento annichilatore del tempo un’Origine che possa funzionare da garante di tutti i valori fondativi di una comunità. L’origine della religione è dunque assolutamente razionale, e questo non è capito da tutti coloro che si perdono nel totemismo della magia, nel culto dei morti e nell’inganno dei sacerdoti, nell’ignoranza delle masse e nella legittimazione religiosa del potere di classe. Tutte cose giustissime, ovviamente, ma che non sono originarie e costituenti, ma derivate e coadiuvanti. Se lo Spazio del Cosmo è sacralizzato dalle religioni (a cominciare ovviamente dalle stelle e dal cielo, per passare poi per contrasto alle profondità della terra), ciò avviene perché senza questa sacralizzazione dello spazio del cosmo non potremmo neppure avere la garanzia metafisica della sottrazione dell’origine del Tempo al destino nichilistico ed annientatore dello scorrimento del tempo stesso. Chi vuole dunque l’ateismo deve essere consapevole che il suo vero avversario, quello cui deve prima di tutto saper rispondere, non è certamente la religione (o meglio i miti ed i dogmi del tutto prescientifici ed indimostrabili di cui le religioni si nutrono), ma è il nichilismo, cioè la totale insensatezza integrale del mondo naturale e sociale, quel nichilismo contro cui a suo tempo tutte le religioni sono nate, sono cresciute e si sono mantenute nonostante i numerosissimi “smascheramenti” di tipo sociologico e scientifico. Ma la totale e provocatoria inconsapevolezza del tema del nichilismo è la malattia mortale ed incurabile di più di un secolo di filosofia marxista e comunista. Mentre i “pezzi” dell’analisi economica, sociologica e storica del marxismo possono essere forse riparati, il “pezzo” del suo fondamento filosofico non può essere riparato, ma deve essere integralmente sostituito. C’è però un impedimento: come possono i nichilisti prendere coscienza del nichilismo?

6., La filosofia propriamente detta, al di là del significato puramente greco del termine, nasce proprio quando il problema dell’Origine (inteso come assicurazione della verità dei valori fondanti della comunità umana costituita da enti che lavorano, parlano e sanno di dover morire) viene per così dire razionalizzato, cioè depersonificato e trasformato in una struttura veritativa di tipo logico-ontologico. Questo avviene simultaneamente in diverse parti del mondo, come Karl Jaspers ha correttamente intuito con la sua teoria del “periodo assiale”. Si usa limitare la concezione della verità e della realtà identificata con una struttura permanente logico-ontologica ai grandi idealisti occidentali, come Platone ed Hegel. Ma questo non è del tutto esatto. Parmenide, ad esempio, che a mio avviso è ancora un sapiente prefilosofico (e seguo qui l’interpretazione di Giorgio Colli e non quella di Emanuele Severino), ha questa concezione logico-ontologica della verità. Spinoza, che non è certo un idealista, ha questa concezione logico-ontologica della realtà in modo integrale, ed è anzi colui che più chiaramente l’ha separata da una concezione personalistica, finalistica ed antropomorfizzante della divinità stessa. Heidegger, che addirittura inserisce la temporalità nella sua concezione della struttura logico-ontologica della verità (sia pure nella forma della differenza ontologica fra l’Essere e gli enti storici), ha una concezione analoga. La sfida al nichilismo attraverso l’elaborazione umana e razionale di una struttura permanente logico-ontologica della realtà (che è peraltro originariamente solo la duplicazione filosofica della tavola pitagorica aritmetica e dei teoremi geometrici, enti che sembrano anch’essi sottrarsi alla distruzione effettuata dalla temporalità annientatrice) non è dunque tipica dei soli “idealisti” (Platone ed Hegel), ma anche di molti altri non idealisti, da Aristotele a Spinoza. Ma come vedremo, si tratterà di una soluzione rifiutata da Marx, che così consegnerà ai suoi seguaci una soluzione nichilista. Una vera bomba a tempo, ormai scoppiata, di cui la stragrande maggioranza dei marxisti appare inconsapevole.

7. Apro qui una parentesi, in cui segnalo semplicemente la proposta filosofica della francese Barbara Cassin (cfr. L’effetto sofistico, Jaca Book, Milano 2002). Secondo la Cassin la soluzione ontologica, per cui al salvataggio religioso delle Origini sottratte allo scorrimento dissolvitore del tempo si sostituisce una struttura veritativa logico-ontologica della realtà razionalmente ricostruibile, non è la sola disponibile al pensiero filosofico, e non è neppure la migliore. Alla soluzione ontologica si può opporre una soluzione logologica, alla ontologia una logologia, per cui l’Essere non preesiste e dunque non esiste, ma il linguaggio ne costruisce simbolicamente i confini e le condizioni di esistenza dialogica. Secondo la Cassin, si tratta della tradizione che partendo dai sofisti greci Protagora e Gorgia arriva fino alla psicoanalisi, a Freud, a Lacan, al cosiddetto “pensiero debole”, a Wittgenstein, a Rorty ed all’odierna filosofia analitica. La Cassin oppone la logologia alla ontologia, ed utilizzando liberamente la sua dicotomia potremmo dire che il marxismo segue una tradizione logologica. Logologia non significa infatti relativismo, scetticismo e convenzionalismo (se così fosse, il marxismo non lo sarebbe certamente), ma semplicemente rifiuto alternativo di ogni ontologia, cioè di ogni presupposto di verità permanente di tipo logico-ontologico (che il marxismo leniniano definirebbe di tipo idealistico e metafisico, e non materialistico e dialettico).

Una semplice osservazione. La dicotomia proposta dalla Cassin è certamente stimolante ed affascinante, ma a mio avviso non funziona. Ogni logologia, infatti, comunica dialogicamente sulla base di un presupposto veritativo che tutti gli interlocutori assumono come possibile. Lo stesso ripiegamento sul “verosimile”, sul “probabile” e sul “conveniente” (tipico del dibattito sofistico e di quello ellenistico-romano) si fonda sulla asserita inconoscibilità del presupposto veritativo, non sulla sua esclusione aprioristica (come fa l’odierno pensatore debole). A mio avviso, ontologia e logologia sono invece complementari. Solo attraverso la comunicazione dialogica razionale argomentata, e non attraverso la rivelazione sacerdotale, è possibile trasformare dialetticamente la sacralità incorrotta delle Origini sottratte al tempo dissolvitore in struttura logico-ontologica della realtà, che fu un tempo pensata in forma matematico-pitagorica (Platone) e poi nella modernità fu pensata anche in forma storica (Hegel). Storica, ma non storicistica, perché Hegel mantiene integralmente la struttura logico-ontologica della realtà e della verità, passando però dalla forma antica della dimostrazione geometrica delle verità atemporali (Platone) alla forma moderna dell’autocoscienza progressiva dei soggetti divenuti consapevoli delle proprie azioni e dei propri valori.

8. Marx rifiutò integralmente non solo la religione, ma anche ogni ontologia, cioè ogni riconoscimento della struttura veritativa logico-ontologica della realtà. Rifiutò così non solo Platone ed Hegel, ma anche Aristotele e Spinoza. Rifiutò la filosofia in blocco, e la sua mirabile scienza dei modi di produzione, il cosiddetto materialismo storico, fu fondato su basi filosofiche nichilistiche. È possibile ovviamente ricostruire il contesto storico di questa scelta nichilistica (il ventennio 1835-1855), caratterizzato dalla sinergia fra il nascente positivismo europeo e l’anarchismo sociologico della cosiddetta “sinistra hegeliana”. Ma questo è interessante solo storiograficamente, non teoricamente. Marx scelse una non-filosofia, e la non-filosofia si chiama nichilismo. Il nichilismo, ovviamente, inteso come rinuncia ai fondamenti logico-ontologici della verità, assume in Marx la forma di una triade, in cui l’addizione di Umanesimo, Storicismo ed Economicismo viene chiamata Materialismo. Si tratta di una vera e propria catastrofe.

9. Apro qui una seconda parentesi, dopo quella dedicata a Barbara Cassin. È noto che il filosofo marxista francese Louis Althusser ha negato con forza che in Marx vi sia Umanesimo, Storicismo ed Economicismo, e che questo riguardi semmai solo il marxismo successivo. Althusser ha ragione solo se intende riferirsi alla metodologia ed alla epistemologia di Marx. Da un punto di vista metodologico ed epistemologico, infatti, Marx non è umanista, storicista ed economicista. Ma Althusser identifica lo spazio filosofico con quello epistemologico, ed in questo modo non capisce (e contribuisce potentemente a non far capire) che se si sceglie la via nichilistica della negazione di una struttura veritativa della realtà di tipo logico-ontologico si finisce necessariamente con l’essere umanisti, storicisti ed economicisti. È bene chiarire questi tre punti, perché altrimenti non si può procedere nella nostra analisi.

A proposito dell’Umanesimo, il marxismo non è chiaramente un umanesimo, perché non si fonda su di un concetto astorico e generico di Uomo, titolare di una sorta di grande narrazione progressista (ed interclassista, o meglio di un universalismo fittizio solo borghese), ma si basa su un insieme di concetti scientifici specifici (modo di produzione, formazione economico-sociale, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologia), nessuno dei quali è “umanistico” in senso metodologico, in quanto non si basano su di una sorta di “espansione” di un’essenza umana presupposta. Ma ciò che è vero in epistemologia non è più vero in filosofia. Marx in filosofia è necessariamente un “umanista”, perché rifiutando la struttura veritativa della realtà come logica ed ontologica deve inevitabilmente ricorrere ad un concetto di Uomo autosufficiente come creatore non solo di manufatti materiali ma anche di valori morali convenzionali. Non a caso Marx era un ammiratore di Prometeo, mitico rappresentante dell’autosufficienza umana spinta fino alla ribellione verso la divinità. Ma il prometeismo di Marx (filologicamente innegabile, perché apertamente dichiarato) è sempre una forma di umanesimo, più esattamente dell’homo faber, una figura storica destinata a non sfuggire alla logica impersonale ed integrativa della Tecnica descritta dal filosofo tedesco Heidegger e dal suo allievo italiano Galimberti.

A proposito dello Storicismo, il marxismo non è certamente uno storicismo, perché non intende il continuum temporale della storia come lineare, omogeneo, predeterminato (come lo accuserà superficialmente Popper) e teleologico, ma intende invece la storia come un succedersi discontinuo (e pertanto a diversi livelli non omogenei di temporalità, come correttamente intese Ernst Bloch) di modi di produzione diversi, ognuno dotato di una temporalità differente (anche se ovviamente dello stesso tempo spazializzato dell’orologio, eguale per lo schiavismo, per il feudalesimo e per il capitalismo). Ma ciò che è vero in epistemologia non è più vero in filosofia. Marx in filosofia è necessariamente uno “storicista”, perché rifiutando la struttura veritativa della realtà come logica e come ontologia deve necessariamente aderire ad uno storicismo assoluto, sostituendo la Storia all’Origine ed il Divenire all’Essere. Un simile eraclitismo, che consegna allo scorrimento del tempo l’enigma del destino dell’uomo, va ben oltre al semplice fatto, nato a metà del Settecento in concomitanza con l’affermarsi della modernità borghese e capitalistica, per cui la storia diventa un “concetto trascendentale riflessivo” (Koselleck), con cui il pensiero illuministico e poi romantico si congeda dal mito dell’Origine. Lo scorrimento temporale diventa produttore di senso, in assenza (come era invece ancora in Spinoza ed in Hegel) di una struttura logico-ontologica della realtà. Ma il tempo produce solo non-senso, non certamente senso.

A proposito dell’Economicismo, il marxismo non è certamente un economicismo, perché non si basa né sullo sviluppo neutrale delle forze produttive né sulla centralità della teoria del valore-lavoro (su entrambi questi punti il maoista occidentale Gianfranco La Grassa ha scritto cose molto convincenti), ma sulla centralità dei rapporti sociali di produzione dentro il modo di produzione. Ma ciò che è vero in epistemologia non è più vero in filosofia. Marx in filosofia è necessariamente un “economicista”, perché ciò che viene fuori dalla lotta di classe e dai rapporti sociali di produzione (pur non ridotti a tecnologia produttiva, secondo l’impostazione dell’operaismo e di Toni Negri) è pur sempre e soltanto economia, e nient’altro che economia. Gli agenti storici che agiscono dentro i rapporti sociali di produzione, infatti, siano essi sfruttatori o sfruttati, agiscono in base ad ideologie, o più esattamente a formazioni ideologiche che rimandano comunque al primato dell’economia, indipendentemente dalla centralità o meno delle forze produttive o del valore-lavoro. L’illusione ideologica è così sempre e necessariamente autoreferenziale. Il primato delle forze produttive (Stalin) ed il primato della lotta di classe nei rapporti sociali (Mao Tsetung) sono entrambi forme di economicismo, perché in entrambi i casi domina una forma di ideologismo non filosofico, e dunque necessariamente nichilistico.

10. Come si vede, Althusser non ci può assolutamente aiutare, e ci porta anche fuori strada, perché confonde lo spazio epistemologico e lo spazio ideologico con lo spazio filosofico veritativo. Il nichilismo filosofico di Marx, dentro il quale egli pur sempre elaborò la sua mirabile teoria scientifica della storia ispirata al principio della liberazione e dell’emancipazione (come non mi sogno assolutamente di negare o di mettere in dubbio), è dunque una mescolanza di Umanesimo, di Storicismo e di Economicismo, una mescolanza denominata scorrettamente Materialismo. Nel contesto linguistico del secondo Ottocento europeo, materialismo voleva dire semplicemente ateismo e punto di vista delle scienze naturali (che hanno nella “materia”, e solo nella materia, il solo oggetto conoscibile suscettibile di sperimentazione, matematizzazione e protocolli osservativi, verificabili e/o falsificabili). Ma il punto di vista delle scienze naturali dà luogo a certezza e ad esattezza, non a verità, perché il termine verità non è riducibile semplicemente a certezza, esattezza o veridicità (anche se a mio avviso le comprende in ultima istanza), ma comprende anche la struttura logica ed ontologica della realtà umana complessiva (come avevano ben capito Platone ed Aristotele, Spinoza e Hegel). Il “materialismo” è dunque solo una scatola vuota, un indicatore di ateismo e di scientismo. È purtroppo solo una forma moderna e sofisticata di nichilismo.

11. La storia centenaria della filosofia marxista deve allora a mio avviso essere interpretata secondo un criterio opposto di 180° a quello abitualmente adoperato dai marxologi. In generale la si interpreta come una successiva caduta, positivistica, pragmatistica e via dicendo, una caduta rispetto alle alte vette filosofiche raggiunte, cui si attribuisce di solito un paradigma filosofico coerente (anche se poi ogni interprete lo ricostruisce arbitrariamente a modo suo), laddove è filologicamente chiaro che egli non lo coerentizzò mai, anche perché il nichilismo non è facilmente coerentizzabile. Ma la concezione della storia di una dottrina come decadenza rispetto alle alte vette della Origine del padre fondatore è solo la duplicazione secolarizzata del meccanismo istitutivo di ogni religione, come ho chiarito nei paragrafi precedenti. I marxologi sono in generale dei teo-marxologi, cioè dei marxologi che hanno divinizzato Marx, ed usano la citatologia al posto dell’argomentazione. Marx rifiutò la via che pure gli era mostrata con chiarezza da Platone, Aristotele, Spinoza ed Hegel, e prese la via dell’aperta ostilità ad una concezione veritativa logico-ontologica della realtà (che ripeto non è neppure a mio avviso incompatibile con una via logologica, che le è complementare). A questo punto, la storia filosofica del marxismo può essere ricostruita con il criterio della lotta fra forme successive di approfondimento del nichilismo, da un lato (materialismo dialettico, storicismo progressistico, eccetera) e tentativi incerti e contraddittori di uscita da questo nichilismo (socialismo neo-kantiano trascendentale, ontologia dell’essere sociale, eccetera). Devo rimandare ad altra sede questa ricostruzione, in quanto qui non c’è più lo spazio per i dettagli. Aggiungo solo che questa lotta è tutt’ora in pieno svolgimento, e che a breve termine le prospettive non sono affatto buone, per il dominio schiacciante delle posizioni nichilistiche in quel poco che resta tuttora del dibattito filosofico marxista. Ma è giunto ore il momento di passare al secondo punto cruciale di questa mia ricostruzione: il tema dell’individuo, o meglio dire dell’individualità storica concreta, in termini marxiani della “libera individualità”.

12. Il tema del nichilismo (che è un tema della rinuncia consapevole ai fondamenti assai più che un tema della perdita dei fondamenti) resta di per sé un tema astratto e vuoto, che si concretizza esclusivamente in una determinazione antropologica, quella dell’individuo senza fondamenti. Il termine medio fra l’ontologia e la logologia è sempre l’antropologia. Una dottrina nichilistica ispirerà sempre soggettività nichilistiche, o minacciate comunque dal nichilismo. Il processo di dissoluzione sociale e politica del comunismo storico novecentesco (1917-1991) è una vera messa in scena tragicomica (a volte tragica, a volte comica) di questa vicenda antropologica. Alla luce della comprensione del nichilismo anche le vicende antropologiche cui ora accenneremo diventano comprensibili. Il contrario però non è vero. Il lettore se ne accorgerà agevolmente leggendo i paragrafi successivi.

13. La parola “individuo” segnala etimologicamente (e quindi anche filosoficamente, perché spesso l’etimologia è la madre della filosofia) una divisione ed una resecazione. In-dividuo è ciò che non è ulteriormente divisibile, la versione latina del greco a-tomo. L’individuo moderno nasce da un doloroso processo di resecazione dalle precedenti comunità feudali, signorili, corporative, artigianali e contadine, e questo doloroso processo di resecazione ne fa immediatamente un’unità tragicamente desiderosa di rapporto, di comunicazione e di completamento. Coloro che immaginano una sorta di individuo originariamente solitario, autonomo, indipendente, vero e proprio Robinson Crusoe dell’origine della società, cadono appunto in quell’illusione ideologica denominata da Karl Marx “robinsonismo”. Per ricostruire le sue origini, e nello stesso tempo per mistificarle ideologicamente, il capitalismo ha dovuto travestire l’accumulazione originaria del capitale in un’operazione individualistica in cui il primo capitalista ha coltivato in suo primo campo, ne ha tratto il suo primo raccolto, ne ha effettuato la prima vendita, ne ha conseguito il suo primo risparmio, e con il primo risparmio ha assunto il suo primo lavoratore salariato. Nella realtà l’in-dividuo moderno nasce da una resecazione, che nei paesi “metropolitani” nasce da uno spezzettamento delle comunità contadine ed artigiane precedenti, e nei paesi colonizzati nasce dall’imposizione alle comunità indigene non solo del lavoro forzato ma anche e soprattutto della proprietà privata della terra con tutto ciò che ne consegue.

14. Questa origine tragica ed inquietante dell’in-dividuo borghese moderno, figlio di una resecazione sociale di tipo storico e niente affatto “naturalistico”, è il punto di partenza consapevole non solo della grande filosofia borghese moderna, ma anche e soprattutto del grande romanzo classico. A partire da Don Chisciotte di Cervantes, si tratta della scoperta della solitudine e dell’insensatezza, fino a quelle Illusioni Perdute di Balzac che anche nel titolo segnala quella particolare incapacità della società borghese-capitalistica di realizzare le promesse universalistiche che afferma a parole di voler garantire. Tutto ciò che qui scrivo è assolutamente noto a tutti i critici letterari ed in generale alle persone colte, ma occorre egualmente ripeterlo, perché una cattiva abitudine di semplificazione e di volgarizzazione propagandistica ha abituato molti marxisti a credere che l’individuo borghese sia solo egoismo, acquisizione, sete di denaro, insensibilità, eccetera. Ovviamente non è così. La figura filosofica fondamentale dell’autocoscienza borghese, la “coscienza infelice” studiata da Hegel, sta ben al di sopra delle degenerazioni del compagno divenuto burocrate e politicante di professione. L’in-dividuo borghese è dunque il luogo di una particolare inquietudine, che consiste in ultima istanza in una percezione diretta del nichilismo. Tra l’altro, è così e solo così che Marx ed Engels diventano comunisti. Non si tratta affatto, come troppo spesso si è detto in modo superficiale, di “tradimento della propria classe”. Trovo questa espressione non solo sgradevole, ma anche impropria. Marx ed Engels non “tradiscono” la piccola, media o grande borghesia tedesca ed inglese ottocentesca, ma semplicemente sviluppano liberamente (con la libertà che secondo il giovane Marx il filosofo greco Epicuro attribuisce alla “deviazione” degli atomi) la logica razionale e dialettica della coscienza infelice. Se l’in-dividuo è etimologicamente un a-tomo, e gli atomi sono caratterizzati dalla libera deviazione alla loro verticale (clinamen, parekklisis), allora non c’è nessun tradimento di classe, ma solo realizzazione incontenibile della propria autodeterminazione e della propria libertà.

15. Ho polemizzato nel precedente paragrafo contro la teoria del “tradimento di classe” perché mi pare che se la si adotta si parte con il piede sbagliato, e si cade sotto la critica di Nietzsche al rancore, al risentimento, eccetera. Chi tradisce, infatti, può tradire ancora. Nessuno dovrebbe fidarsi di un traditore. La scelta della critica al capitalismo, che comporta anche la prospettiva del comunismo (anche se solo una definizione universalistica di questo termine è veramente soddisfacente, mentre ogni altra versione sta al di sotto, e non al di sopra, del mondo borghese-capitalistico), è sempre prima di tutto non una scelta di eguaglianza, ma una scelta di libertà. L’uguaglianza è qualcosa che viene dopo e ne consegue. Chi la mette davanti alla libertà, finirà con l’avere sempre e soltanto o l’eguagliamento o il livellamento, queste due caricature dell’eguaglianza. Tutti coloro che (a partire da Norberto Bobbio) hanno pensato che il liberalismo mette al primo posto la libertà, ed il comunismo l’eguaglianza (ma si tratta purtroppo di una risposta che il 95% dei militanti comunisti darebbe), non hanno capito letteralmente nulla dell’antropologia filosofica originale di Marx. Ma su questo la stessa filologia marxiana può risolvere il dilem

16. Nei Grundrisse, in un passo molto noto (che qui non trascrivo solo per ragioni di spazio), Marx connota il comunismo come il luogo sociale della libera individualità, contrapponendolo ai modi di produzione precapitalistici come il luogo della diseguaglianza personale ed al modo di produzione borghese-capitalistico come luogo dell’eguaglianza personale. Si tratta di tre parolette di cui occorre comprendere molto bene il significato. La base economica dell’eguaglianza giuridica borghese sta nell’astrattezza della forma di merce, che deve essere omogeneizzata ed “eguagliata” a tutte le altre merci, trasformando il denaro nell’unico criterio legalmente consentito di diseguaglianza materiale. Le “persone” sono dunque eguali, ma le persone (etimologicamente “maschere”, prosopa) sono anche maschere di rapporti sociali diseguali. L’eguaglianza personale, che per Marx è indubbiamente un “progresso” rispetto alla precedente diseguaglianza personale asiatica, schiavistica e feudale, non può dunque essere la base di una libera comunità umana e sociale, e per questo (e solo per questo) Marx può essere definito comunista.

17. Vi è dunque nell’antropologia filosofica di Marx una feconda contraddizione. Da un lato, egli compie una scelta filosoficamente nichilistica rifiutando la via di Platone, di Spinoza e di Hegel, cioè la via della struttura veritativa logico-ontologica della realtà, ed in questo modo inevitabilmente finisce nelle secche dell’umanesimo, dello storicismo e dell’economicismo, surrettiziamente unificati nell’etichetta di materialismo. Dall’altro, la sua scelta antropologica in favore della libera individualità contro la semplice eguaglianza personale borghese è chiaramente anti-nichilistica, realistica, veritativa e di fatto anche logico-ontologica. Si tratta della più feconda contraddizione dentro Marx, la chiave assoluta del significato del suo pensiero. Basta questo per giustificare l’attributo a Marx di grande pensatore, purché si ammetta che egli ha lasciato ai suoi successori l’eredità non solo della sua dottrina, ma anche delle sue contraddizioni.

18. Nello stesso periodo storico in cui Marx giungeva alla proposta della libera individualità in opposizione alla semplice eguaglianza personale borghese Nietzsche effettuava una diagnosi del nichilismo nella cultura europea considerata da molti tuttora insuperata. Nietzsche critica contemporaneamente l’etica borghese del suo tempo, la religione cristiana ed il nascente socialismo, unificandoli tutti e tre sotto la comune categoria di “decadenza”, istituendo così una sorta di grande narrazione che parte da Socrate, passa da Paolo di Tarso ed attraverso Rousseau giunge fino alla nascente socialdemocrazia tedesca. Al di là del fatto che i nicciani di destra la interpretano come la profezia dell’avvento di un Superuomo dominatore delle plebi ed i nicciani di sinistra la interpretano come l’avvento di un Oltreuomo superatore delle credenze metafisiche di ogni tipo (ennesima prova della sostanziale intercambiabilità fra sinistra e destra, due categorie politiche filosoficamente del tutto mute ed improprie), la diagnosi nichilistica di Nietzsche non intende denunciare l’oblio della categoria di verità, ma intende anzi propiziare il suo definitivo abbandono. L’ontologia cessa di essere un riferimento veritativo, per diventare una produzione energetica di un soggetto desiderante. Il culmine del niccianesimo non sta nell’esteta D’Annunzio né nell’eurodeputato Vattimo, ma in quell’Antonio Negri che parla di produzione dell’Essere da parte di moltitudini desideranti in cui non è più possibile distinguere animali, uomini ed organismi cibernetici (cfr. Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 98 e p. 415). L’incubo del capitalismo metropolitano viene così trasfigurato in un progetto comunista di emancipazione di un nuovo proletariato. Nulla di più diverso dall’antropologia filosofica di Marx, figlia di Spinoza e di Hegel, e basata appunto sulla differenza ontologica di principio fra animali, uomini e macchine.

La ragione per cui Nietzsche piace tanto oggi sta proprio nel fatto che il profeta tedesco incarna al massimo grado la democrazia come eguagliamento dell’orizzonte capitalistico dell’eguaglianza personale. Abolita la verità come prospettiva di una visione filosofica logico-ontologica della realtà (secondo le prospettive classiche di Platone, Aristotele, Spinoza ed Hegel), e ridottane la natura a funzione energetica della volontà di potenza individuale, si ha così di fatto un’omologia perfetta con il mondo capitalistico delle merci, dei consumi e dell’impresa. L’uomo imprenditore si muove appunto in un integrale vuoto ontologico, ed il suo desiderio di consumi sempre più sofisticati (e tendenzialmente illimitati) è mosso esclusivamente dal differenziale energetico di volontà di potenza che egli riesce a mettere in atto. La volontà di potenza è appunto l’estrinsecazione della sua energia imprenditoriale, esaltata dalla flessibilità e dalla precarietà di ogni attività umana, flessibilità e precarietà che costituiscono appunto il moderno nichilismo attivo, quello positivo e creativo. Si tratta ovviamente di un Nietzsche addomesticato e civilizzato, reso compatibile con la società civile e con lo stato di diritto, un Nietzsche teorico massimo di un capitalismo integralmente post-borghese.

Ma se questo Nietzsche è per me privo di ogni vero interesse filosofico (ed è appunto per questo che invece piace tanto agli sciocchi ed ai superficiali di oggi), resta il Nietzsche geniale diagnostico della condizione antropologica derivata dalla caduta delle vecchie certezze metafisiche. È a mio avviso il solo Nietzsche interessante. Lo scenario del nichilismo, secondo questo Nietzsche, dà luogo alla doppia figura dell’Eremita, colui che vive talmente appartato da non essere neppure stato informato della morte degli dei, e dell’Ultimo Uomo, che è informato della morte degli dei, ed appunto per questo ne trae cinicamente la conclusione che tutto è ormai possibile. Mentre di superuomini-oltreuomini non se ne vedono, nessuno ne ha mai visti e non se ne vedranno mai, perché si tratta di semplici proiezioni velleitarie ed illusorie di soggettività nichilisticamente sbandate, di eremiti e di ultimi uomini sono piene le strade, i parlamenti, i governi, le sezioni dei partiti, gli studi pubblicitari, le case editrici, i giornali e le televisioni.

19. Max Weber ha saputo diagnosticare ancora meglio di Nietzsche la situazione nichilistica dell’uomo contemporaneo. Weber ha in comune con Marx il fatto che entrambi rifiutano il rimando ad una struttura veritativa logico-ontologica della realtà, e nello stesso tempo sono entrambi inquieti per questo loro rifiuto. Weber ha il grande merito di non evocare illusoriamente superuomini-oltreuomini del tutto inesistenti, appunto perché non parte da una grande narrazione della decadenza, come Nietzsche, ma dall’analisi dialettica delle conseguenze dei processi della razionalizzazione moderna. La modernizzazione ha infatti prodotto progresso, ma anche disincanto del mondo, ed il disincanto del mondo non sarebbe neppure poi così male se non comportasse anche e soprattutto la consunzione delle risorse simboliche dell’umanità. L’aspirazione al profitto e la cura dei beni esteriori avrebbero dovuto essere un “sottile mantello da poter gettar via in ogni momento”. Ed invece, associate con passioni puramente agonistiche e spinte all’estremo, fini a se stesse, hanno finito per trasformarsi in una “gabbia d’acciaio”. È notevole la capacità dialettica di Weber, che capisce come si inizia con l’illusione di un sottile mantello, e si finisce con la consistenza inesorabile di una gabbia d’acciaio. Altro che le stupidaggini sull’avvento di moltitudini desideranti di superuomini-oltreuomini dotati di capacità teurgiche!!! Weber si chiede: quali esseri cresceranno sotto la ferrea calotta della razionalizzazione? Quali saranno le fattezze di questi ultimi uomini? Ed egli risponde con pessimismo e lungimiranza che saranno “specialisti senza spirito ed edonisti senza cuore”, ovvero un “nulla che si immagina di essere salito ad un grado mai prima raggiunto di umanità”.

20. La diagnosi di Weber è stata fatta fra il 1910 ed il 1920. Ma la generalizzazione di massa del tipo umano che incarna veramente il nulla antropologico convinto di essere il coronamento della storia dovrà aspettare in Europa il cosiddetto Sessantotto. Lo spirito del Sessantotto consiste nella distruzione dei residui valori borghesi e religiosi fatta con l’illusione e la falsa coscienza necessaria (utilizzo qui un concetto marxiano al 100%) di stare facendo una rivoluzione anticapitalistica. L’errore teorico, ovviamente, sta nell’identificazione fra borghesia e capitalismo, con l’illusione di star lottando contro la riproduzione capitalistica proprio perché si lotta contro i residui già indeboliti dell’etica borghese e religiosa. Ma questa identificazione è del tutto falsa. La logica di sviluppo del capitalismo è infatti impersonalmente “tecnica” (nel senso di Heidegger), e non è affatto soggettivizzabile. Il capitalismo ha passato una sua prima fase storica protoborghese e protoproletaria (borghesia liberale e classe operaia), ma la sua logica di sviluppo è del tutto post-borghese e post-proletaria, in direzione di nuove ed inedite configurazioni classiste. Così come Spinoza seppe opporsi alla concezione personalistica e teleologica della divinità, così oggi il solo modo di essere spinoziani consiste nell’opporci ad una concezione personalistica e teleologica dell’essere sociale e del legame sociale. E questo interpella direttamente le forme di soggettività e di individualità di chi pensa di opporsi al capitalismo.

21. Negli ultimi cento anni coloro che si sono organizzati per opporsi al capitalismo si sono generalmente chiamati “compagni”. Il compagno è certamente un in-dividuo come gli altri, ma un in-dividuo che cerca di superare la sua solitudine ed il suo isolamento attraverso un progetto comune di tipo solidale. Il filosofo Jean-Paul Sartre ha dato nel 1960 una formulazione filosofica sostanzialmente insuperata a questa natura progettuale dell’essere compagni, attraverso la sua teoria del cosiddetto gruppo-in-fusione che persegue una finalità-progetto, a sua volta sempre minacciata dalla serializzazione e dalla inevitabile burocratizzazione, denominate da Sartre il pratico-inerte. In questo modo, secondo Sartre, si è compagni soprattutto se si ha un progetto comune da compiere insieme. È il progetto che costituisce antropologicamente i compagni. Senza progetto, nessun compagno.

Etimologicamente, tuttavia, le cose stanno diversamente. Il termine “compagno”, almeno nelle lingue di cui ho conoscenza, rimanda a tre modalità diverse dello stare insieme, il mangiare insieme, il dormire insieme, il camminare insieme. L’italiano “compagno” significa cum-pane, colui con cui si spezza insieme il pane (analogo peraltro al greco syntrofos, da syn e trofì, cibo comune). Nel francese camarade si allude allo stare insieme, all’abitare insieme, al dormire insieme. Nel turco yoldaş si fa riferimento allo yol, la strada comune che gli amici percorrono insieme. Mi sono soffermato volutamente sulle radici etimologiche del termine “compagno” per far notare ciò che spesso è talmente ovvio da non essere notato, il fatto cioè che il mangiare insieme, il dormire insieme, il camminare insieme, eccetera, dovrebbero essere un annuncio non solo di amicizia, ma anche di universalità, di universalismo reale.

Nei fatti così non è quasi mai. Al di là degli irripetibili momenti di solidarietà nella lotta, in cui però è il comune nemico ad unirci, e si scopre poi dopo con dolore e delusione che al di là di questo comune nemico da sconfiggere non si aveva nient’altro in comune, non esiste ambiente solitamente più litigioso di quello dei compagni, divisi sempre in modo paranoico fra veri compagni e falsi compagni, in preda alle peggiori invidie ed ai più traumatizzanti furori ideologici. Questo fatto è generalmente spiegato in modo frettoloso con i residui dell’egoismo e dell’individualismo borghese o piccolo-borghese, ma questa spiegazione è rassicurante e tautologica. Il vero problema filosofico di fondo sta nell’universalismo e nella possibile universalizzazione della figura del “compagno”. Se questa figura non è universalizzabile, e resta patologicamente particolare, allora ogni superamento del cosiddetto in-dividualismo capitalistico appare impossibile. Il compagno diventerebbe così una figura storica intermedia, sostanzialmente solo emergenziale, in direzione della libera individualità propugnata da Marx. In termini elementari potremmo porci la seguente domanda: il comunismo è una società di compagni, o una società di libere individualità? Detto altrimenti, il compagno e la libera individualità coincidono, per cui semplicemente il comunismo generalizza all’intero pianeta la figura militante del compagno, oppure si ha qui a che fare con una dialettica molto più delicata e complessa?

22. È evidente che qui si ha a che fare con una dialettica molto più delicata e complessa. Storicamente, il Novecento ha visto fallire tragicamente il tentativo di generalizzare e di universalizzare la figura del compagno, e questo non solo nei paesi capitalistici, ma persino nei paesi in cui ufficialmente i “compagni” sono stati al potere (1917-1991 in URSS, e dunque 74 anni, 1945-1990 in Germania Orientale, e dunque 45 anni, eccetera).

Tutti conoscono le rassicuranti spiegazioni consuete: emergenza, accerchiamento capitalistico,seduzione del modello dei consumi occidentale, burocratizzazione, penuria e scarsità, residui di abitudini individualistiche ed egoistiche di tipo capitalistico e precapitalistico, eccetera. Ma si tratta quasi sempre di parole vuote e tautologiche. L’unico modo radicale e veramente filosofico di affrontare la questione è quello di legare insieme ancora una volta i tre temi del nichilismo, dell’individuo e dell’universalismo, perché è evidente che se il “compagno” continua ad essere ispirato da una visione del mondo nichilistica (consapevolmente o inconsapevolmente), sia pure nutrita della migliori intenzioni soggettive, non si ha alcun superamento effettivo delle contraddizioni prima segnalate a proposito della soggettività borghese, e non si consegue dunque nessun universalismo reale.

23. La prima figura storica del compagno che può essere ricostruita con una certa precisione è quella del “militante”. Il termine “militante” ha una doppia origine militare ed ecclesiastica (il miles Christi, il soldato di Cristo martire e testimone). Duemila anni di storia mostrano in modo assolutamente inequivocabile che non si tratta di una figura sociale universalizzabile, eppure i marxisti rimuovono sistematicamente questo fatto evidente, come se la futura società comunista potesse essere una società di militanti comunisti.

La prima figura storica del militante è quella del militante socialdemocratico tedesco costituitasi fra il 1875 ed il 1895, un ventennio assolutamente cruciale per la genesi del marxismo, incomprensibilmente trascurato da tutti coloro che sembrano far cominciare il marxismo nel 1917 o nel 1945, e ne ignorano invece le origini. Questo militante, a mio avviso, mutua il suo profilo antropologico da protestantesimo luterano tedesco, e questa genesi non può essere dimenticata. In primo luogo, viene secolarizzata la negazione luterana del libero arbitrio del credente, ed il destino voluto da Dio diventa semplicemente il destino dell’inevitabile passaggio dal capitalismo al socialismo, con un semplice passaggio secolarizzante da Dio onnipotente alla storia onnipotente. In secondo luogo, viene secolarizzata l’approvazione luterana del libero esame, per cui la discussione sul marxismo non solo non viene scoraggiata (come avverrà fra i marxisti di origine ortodossa o cattolica, entrambi chiesastici), ma viene anzi incoraggiata e promossa pubblicamente. Il militante socialdemocratico luterano parla apertamente di Marx, e non ha nulla in comune con il militante ortodosso (in senso religioso) staliniano, che sacralizza lo stesso marxismo definendolo “ortodosso” (espressione assolutamente folle per un luterano), e soprattutto con il militante cattolico togliattiano, che vive di fideismo e di delega assoluta agli intellettuali-preti del partito. Vorrei insistere sulla differenza delle tre rispettive secolarizzazioni marxiste di origine protestante, cattolica ed ortodossa, anche se su questo punto vorrei tornare altrove con maggiore analisi, perché esse sono la chiave di tutto. La vera secolarizzazione fondante del militante marxista è quella luterana socialdemocratica, nel doppio aspetto di predestinazione assoluta (passaggio crollisticamente inevitabile dal capitalismo al socialismo) e di libero esame delle fonti (libera discussione delle fonti e della dottrina di Marx e di Engels).

24. Questa nobile figura del militante marxista socialdemocratico, a mio avviso molto superiore alle sue varianti ortodosse (Lenin) e cattoliche (Togliatti), non è però veramente universalizzabile. Lo impedisce il carattere chiesastico separato della sua identità. È vero, tuttavia, che essa porta con se il principio secolarizzato del “sacerdozio universale”, un principio superiore a quello apertamente sacerdotale e chiesastico delle secolarizzazioni ortodosse e cattoliche. Vale la pena esaminarle separatamente.

25. La secolarizzazione ortodossa (in senso religioso) del marxismo avviene ovviamente per la prima volta in Russia, e Lenin ne è indubbiamente protagonista. La divisione e l’enfatizzazione dicotomica fra marxismo ortodosso e marxismo revisionistico (cioè eretico) è assolutamente familiare a tutti coloro i quali (come chi scrive) conoscono la storia della teologia bizantina. Le fonti primarie vengono sacralizzate, e comunque sottratte a qualunque libero esame protestantico ed a qualunque ipocrita opportunismo gesuitico di origine cattolica. I riti diventano importantissimi, e la stessa ritualità ecclesiastica staliniana (con tutto il sistema di precedenze fra comunisti di prima, seconda e terza categoria) non fa che duplicare quella della chiesa ortodossa. Lo stesso materialismo dialettico è una specie di teologia generale, assolutamente incomprensibile per un marxista protestante secolarizzato, che infatti non a caso propende piuttosto per Kant e per Hegel. Secondo la tradizione cesaropapistica bizantina, che non distingue fra chiesa e stato ma fa dell’imperatore anche il massimo e supremo teologo e risolutore di dispute cristologiche, il capo comunista ortodosso secolarizzato (massimo esempio Stalin) risolve anche le dispute teoriche di tipo economico e filosofico, ed il suo giudizio è definitivo ed inappellabile. A Bisanzio cavavano gli occhi ai dissidenti, in nome appunto della teologia platonica della luce, che veniva così negata ai peccatori, mentre ai dissidenti sovietici era negata la comunione ecclesiastica con il popolo “buono”, ed erano allora rinchiusi nei campi di lavoro. Chi scrive, a differenza della stragrande maggioranza degli studiosi italiani di marxismo, conosce abbastanza bene la storia e la natura del marxismo russo-sovietico. La sua duplicazione dalla teologia bizantina è assolutamente stupefacente, e chi non la nota è come un gattino cieco.

26. La secolarizzazione cattolica del marxismo vede in Togliatti (in Togliatti, non in Gramsci) in suo punto massimo. Il cattolicesimo non è tanto caratterizzato dal papa e dal celibato dei preti, come ritengono superficialmente molti, ma dalla negazione del sacerdozio universale e dalla limitazione estrema del libero esame dei testi sacri, riservati a preti e teologi autorizzati. In più, c’è anche una buona dose controriformistica di ipocrisia gesuitica. Questo è esattamente il comunismo di Togliatti. Fideismo per le masse, pragmatismo per i politici di professione, confinamento del dibattito marxista a gruppetti di intellettuali sorvegliati, produzione massiccia di eremiti e di ultimi uomini. Basta guardare.

27. Il fatto che le diverse tradizioni marxiste secolarizzino le loro precedenti matrici religiose è un segno preoccupante del loro nichilismo implicito, e pertanto del loro grave deficit di universalismo. Possiamo fare altri esempi, anche se non è questo l’essenziale. Il trotzkismo secolarizza in modo quasi pateticamente evidente una forma di messianesimo ebraico, in cui Il Messia deve arrivare in una sola volta per il mondo intero, non può limitarsi ad un solo paese, non deve interrompere il suo messaggio fino al suo definitivo compimento, e se vi sono difficoltà queste sono dovute alla corruzione dei sacerdoti del tempio (i burocrati, eccetera). Il marxismo cinese secolarizza i contenuti filosofici di lunga durata del suo modo di produzione asiatico, il confucianesimo ed il legismo in primo luogo, e la sua scissione in ala sinistra ed in ala destra ripete e riproduce la lunga tradizione cinese dell’alternanza fra rivolte contadine egualitarie (i Sopraccigli Rossi, i Turbanti Gialli, i Taiping, eccetera) ed i ristabilimenti dinastici confuciani. Il marxismo greco secolarizza i vecchi partiti ottocenteschi denominati “francese” e “russo” nella sua dicotomia novecentesca fra un marxismo eurocomunista orientato su Bologna e Parigi ed un marxismo ortodosso orientato su Mosca (e si tratta del lungo contrasto fra le anime occidentali ed orientali della Grecia moderna dopo il 1821). Per finire, l’incredibile frammentazione e settarismo delle formazioni comuniste turche rimanda alla precedente frammentazione delle corporazioni religiose dei sufi, che strutturavano il vecchio spazio religioso ottomano.

Potremmo continuare ed approfondire l’esemplificazione, ma l’essenziale non sta qui. L’essenziale sta nel fatto che il destino del marxismo storico, di seguire cioè la secolarizzazione delle rispettive tradizioni religiose del proprio insediamento storico e geografico, segnala il fatto che ciò che non vuole diventare filosofia, perché sceglie il nichilismo, è poi costretto a diventare religione, ma una religione depotenziata ed indebolita perché non dice nulla sulla malattia a sulla morte, ed abbandona la vita quotidiana ai contenuti della modernizzazione industriale e tecnologica. Il compagno ed il militante, due figure storicamente capaci di eroismo e di devozione talvolta quasi sovrumane, non riescono a diventare figure antropologiche universali ed universalizzabili. Chi non vuole riflettere radicalmente su questo deve lasciar perdere i libri di marxismo, e limitarsi a qualche buon fumetto ben disegnato.

28. Naturalmente, la radice del problema sta ne fatto che la Classe, la classe proletaria, la classe dei salariati della grande fabbrica moderna, più in generale la classe dei lavoratori sfruttati cui si estorce in vario modo plusvalore assoluto e relativo, non è una classe universalistica, ed i suoi comportamenti non sono universalizzabili. Persino il giovane Lukàcs di Storia e Coscienza di Classe (1923), quando propose di sostituire la coscienza di classe proletaria all’evoluzionismo materialistico di Kautsky e di Bucharin come nuovo fondamento filosofico del comunismo marxista, dovette lasciar perdere il proletariato empirico esistente ai suoi tempi per ricorrere ad un concetto ideal-tipico di proletariato tratto non certo da Marx ma da Max Weber. In generale, possiamo chiamare Sociologismo (il quarto lato del nichilismo, dopo l’umanesimo, lo storicismo e l’economicismo) l’idea che l’universalismo comunista sia l’espansione sociologica di una classe sociale. Si noti bene che il sociologismo non consiste soltanto nell’idea della espansione della classe dei salariati, ma in qualunque concezione che vuole dedurre l’universalismo non da una concezione logico-ontologica della realtà, ma dalla semplice espansione sociologica di un qualunque soggetto. D’altronde, la logica del sociologismo è quella di una continua fuga in avanti verso soggetti illusoriamente sempre più vasti e comprensivi. Si prenda ad esempio il recente Impero di Toni Negri. L’operaio-massa fordista non basta, l’operaio sociale disperso nel territorio non basta, il tecnico informatico non basta, ed allora si ricorre alla “moltitudine”, concetto vago, tautologico ed inesistente che copre semplicemente un insieme globalizzato di individui. Nel lessico di Hegel, è questa la “fuga del dileguare” di ogni sociologismo.

29. Se la classe non è universalistica, tanto meno ovviamente lo è il Partito. In proposito, si dimentica spesso che Lenin, l’ispiratore del partito di tipo leninista, non era affatto partitocentrico. Il partito di Lenin si basava infatti su due presupposti. In primo luogo, il riferimento ortodosso alla classe operaia e proletaria, che Lenin non mise mai veramente in discussione, e che fu sempre per lui la “retrovia” di ogni attività di partito. In secondo luogo, la necessità di una tattica di alleanze di classe, resa necessaria dal fatto che Lenin partiva sempre dal concetto di formazione economico-sociale determinata, e mai dal generico concetto marxiano di modo di produzione. Incidentalmente (ma non è certo questo che mi interessa) le sette di tipo trotzkista e bordighista non sono leniniste, e questo non certo perché lo dico io, ma perché rifiutano lo stesso concetto di alleanze di classe. Il maoismo invece è più leninista, perché accetta formalmente questo concetto, ma poi nella pratica si risolve quasi sempre in un settarismo di tipo contadino.

Il nome di Lenin viene tuttora agitato come sinonimo di partitocentrismo. Ma di per sé il partitocentrismo è spesso una via verso l’autoreferenzialità, ed è dunque un pensiero di tipo analitico e non sintetico (uso qui i due termini nel significato di Kant). Il partito, per sua natura, è un’organizzazione separata, e le organizzazioni separate non sono mai strutturalmente universalizzabili, per ragioni che la dialettica di Hegel illustra in modo mirabile. Con questo non intendo ovviamente aderire alla teoria anarchica del movimento disorganizzato, che è semplicemente un’impossibilità logica e storica, e che dunque non vale neppure la pena di esaminare seriamente. L’anarchismo è infatti una sorta di sociologismo esasperato, che scommette sulla Classe al punto da non ritenere neppure necessario che essa sia politicamente organizzata (e si veda la scommessa di Negri sulla cosiddetta moltitudine, fase suprema sociologica della classe). Ma se il problema è l’arte dell’insurrezione, o la costituzione di alleanze di classe, allora è inutile deificare il partito cosiddetto leninista. Qualunque organizzazione e direzione intelligente vanno bene, volta per volta e caso per caso.

30. Possiamo chiudere. Come si è visto, al centro sta la diagnosi di nichilismo, da cui deriva l’esigenza di fondare il comunismo su di una individualità non nichilistica, sola base anropologica di un universalismo reale. Il comunismo, infatti, o è universalismo reale, fondato su di una filosofia e non su di una religione (e quindi su Atene, non su Gerusalemme), o è un incubo da caserma o da convento.

31. Il lettore che mi ha seguito pazientemente fino a questo punto, e che ha capito come quanto sono andato dicendo è assolutamente incompatibile con il 95% della tradizione marxista novecentesca consolidata, sia ortodossa che eretica, mi può ora chiedere quante e quali siano le possibilità che una vera riforma radicale del pensiero comunista venga avviata.

Voglio essere sincero con lui. Per ora, in questa congiuntura storica, praticamente quasi nessuna. Come ogni pensatore, anch’io desidero ovviamente che le mie proposte vengano lette, studiate e prese in considerazione. Una lunga esperienza mi ha abituato a due tipi complementari di reazioni. In primo luogo, una vera e propria aggressione paranoica di citatologi che vedono in quanto dico il nemico del popolo travestito da studioso, il diavolo piccolo-borghese che minaccia la purezza proletaria. In secondo luogo, complimenti educati ma assolutamente distratti, fatti da persone che sono sempre disposte ad esprimere una cavalleresca stima verso le “novità”, ma non sono poi disposte a prenderle sul serio, perché prenderle sul serio non implica solo la fatica del concetto e della lettura, ma anche la messa in discussione di identità e di militanze collaudate.

Ovviamente, non sono così presuntuoso da ritenere che quanto dico debba costituire la base filosofica di un rinnovamento del pensiero marxista e comunista. Altre formulazioni possono essere migliori e più adeguate, purché in qualche modo affrontino il problema del nichilismo (costituito dai quattro fattori dell’umanesimo, dello storicismo, dell’economicismo e del sociologismo), della libera individualità (che non è mai né semplice indipendenza personale borghese né semplice figura militante del compagno) ed infine dell’universalismo (la cui forma è quella della filosofia, e dunque di Atene, e non quella della religione, e dunque di Gerusalemme).

Tuttavia, non esprimo nessun ottimismo a breve termine (a medio ed a lungo termine comunque non ci saremo più) sulla possibilità di autoriforma da parte della comunità attuale dei marxisti e dei cosiddetti “comunisti”. Questa comunità è a mio avviso del tutto irriformabile. Se una comunità è irriformabile, ogni proposta filosofica innovativa è irricevibile.

E allora, sono forse pessimista? No, non è questo il problema. Io credo, razionalmente e pacatamente, che verrà gente nuova, giovani nuovi, gente per ora neppure prevedibile e completamente estranea ai riti del cosiddetto “popolo di sinistra”, gente che saprà riprendere i fili del problema alla radice. Non ho nessuna fiducia in soggetti sociologici divinizzati. Ho fiducia invece nella razionalità umana e nella spontanea “deviazione” degli atomi sociali verso una soluzione collettiva e cooperativa dei problemi dell’umanità, che il capitalismo non è sistematicamente capace di affrontare. Chi si aspetta qualcosa dal bacino culturale ed elettorale del “popolo di sinistra” o dagli apparati militanti dei gruppi e dei partiti presenti non avrà a mio avviso assolutamente nulla. Ma esiste un mondo al di là di questi, e da questo mondo può arrivare una soluzione.

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  1. Per Backhaus il contenuto della teoria marxiana del denaro è stato recepito dal marxismo soltanto nel suo lato critico nei confronti del socialismo proudhoniano, quel socialismo che voleva la merce ma non voleva il denaro e che quindi, non comprendendo l’intima contraddizione tra lavoro privato e lavoro sociale, pensava di poter sostituire il denaro con delle cedole che esprimessero la quantità di lavoro erogata nella produzione di ogni merce. Agli occhi di Backhaus, il marxismo si è dimostrato cieco di fronte al fatto che assieme alla critica a Proudhon Marx, per mezzo della comprensione del duplice carattere del lavoro che produce merci, proponesse una teoria del denaro del tutto nuova rispetto a quella ricardiana, e nello stesso tempo intimamente connessa con la sua teoria del valore. Un’interpretazione che pensi di poter astrarre dal denaro e analizzare uno scambio generalizzato in cui non appare alcun equivalente universale, non tiene conto del duplice carattere del lavoro che produce le merci, quindi della forma specifica in cui si attua la distribuzione del lavoro sociale nonché della “data situazione nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro” [55] , pertanto lascia da parte ciò che veramente è l’oggetto della teoria marxiana, il modo di produzione capitalistico.

  2. A proposito dell’Economicismo, il marxismo non è certamente un economicismo, perché non si basa né sullo sviluppo neutrale delle forze produttive né sulla centralità della teoria del valore-lavoro (su entrambi questi punti il maoista occidentale Gianfranco La Grassa ha scritto cose molto convincenti), ma sulla centralità dei rapporti sociali di produzione dentro il modo di produzione. Ma ciò che è vero in epistemologia non è più vero in filosofia. Marx in filosofia è necessariamente un “economicista”, perché ciò che viene fuori dalla lotta di classe e dai rapporti sociali di produzione (pur non ridotti a tecnologia produttiva, secondo l’impostazione dell’ operaismo e di Toni Negri ) è pur sempre e soltanto economia, e nient’altro che economia. Gli agenti storici che agiscono dentro i rapporti sociali di produzione, infatti, siano essi sfruttatori o sfruttati, agiscono in base ad ideologie, o più esattamente a formazioni ideologiche che rimandano comunque al primato dell’economia, indipendentemente dalla centralità o meno delle forze produttive o del valore-lavoro. L’illusione ideologica è così sempre e necessariamente autoreferenziale. Il primato delle forze produttive ( Stalin ) ed il primato della lotta di classe nei rapporti sociali ( Mao Tsetung ) sono entrambi forme di economicismo, perché in entrambi i casi domina una forma di ideologismo non filosofico, e dunque necessariamente nichilistico.

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