Politica e violenza

set 22nd, 2010 | Di | Categoria: Contributi
di Stefano Moracchi
È paradossale come un regime non-democratico, che sulla paura della violenza spinge l’opinione pubblica (attraverso un uso privato e criminale dei mezzi di comunicazione di massa) a desiderare una società militarizzata e del controllo bio-politico, abbia poi essa stessa una fobia incontrollata della violenza politica. La politica è violenza. Non saranno certo le censure del politicamente corretto e delle leggi totalitarie ad impedire un’analisi politica e filosofica sul concetto di violenza. Il problema della violenza politica mette a nudo tutto l’inconsistente apparato repressivo, nonché il fallimentare uso distorto, e profondamente ingiusto, della pacificazione sociale (garantendo un sostegno economico ad apparati lavorativi organizzati lasciando a se stessi la maggioranza dei cittadini). I sindacati istituzionalizzati hanno fallito sul terreno sociale nel momento in cui i lavoratori sono stati messi gli uni contro gli altri, dimostrando il profondo divario tra rappresentanza sindacale e rappresentati. La violenza politica dimostra quanto velleitario possa essere il disegno di smantellare uno stato sociale lasciando intatte le organizzazioni sindacali istituzionalizzate, una volta depurate del loro ruolo originario e altamente riproduttivo di garanzie e dignità lavorativa. Questi simulacri di rappresentanza lavorativa, buoni soltanto a mandare alla camera o al senato (e in qualche altra organizzazione statale) i loro dignitari, sta dimostrando al mondo del lavoro non organizzato su base speculativa e di consociativismo, il valore altamente politico del dissenso e dell’insorgenza, che non potranno essere fermati con l’uso distorto di verità artificiali avvelenate. Le comunità del dissenso e dell’insorgenza nascono non per un capriccio ideologico di qualche intellettuale frustato, ma sono il frutto dell’ingiustizia e della prevaricazione di chi auspica una società meritocratica (che lascia a terra il concorrente) come di chi intende arrivare agli stessi obiettivi mascherandosi per un finto rappresentante degli interessi delle fasce più disagiate. Questi finti rappresentanti del dissenso e dell’insorgenza hanno esaurito il loro ruolo del remare contro: sono stati smascherati e annullati politicamente. Non hanno più libero accesso nei luoghi della sofferenza e del disagio. Sono visti per quello che sono: nemici dei lavoratori e dei senzalavoro. Come si è potuti arrivare a questa situazione? Attraverso la politica del falso dissenso, degli accordi al ribasso in nome del mercato. Tutto è diventato mercato. Il mondo del lavoro è mercato. La scuola è mercato. In nome del re mercato si sono bruciate conquiste sociali pagate con il sangue. Soprattutto si è bruciata la fiducia delle comunità lavorative e sociali. Una fiducia che non si potrà più ricomporre attraverso le organizzazioni istituzionali finora conosciute. Scrive H.L. Nieburg < Al pari di molte altre forme estreme di comportamento, gli atti di violenza possono essere considerati una sorta di primitivo sistema d’allarme per la società, perché rivelano l’esistenza di profondi conflitti politici che accumulano forza sotto la crosta dei rapporti sociali>(La violenza politica,1974 Guida Editori srl, Napoli). La società che si sta costruendo sulle macerie dello stato sociale pensato nell’ottocento e che, già nei primi anni del dopoguerra, nel momento in cui veniva impostato, si pensava a come poterlo affossare (corruzione, società criminali, servizi deviati, ecc.) attraverso un uso del sistema incentrato più sulla politica della pacificazione sociale che sul principio della dignità personale, come cardine di una visione di giustizia della società, sta dando i suoi frutti violenti. I partiti politici, nati come organizzazioni dittatoriali, nel senso che non devono rendere conto a nessuno della loro forma partito se non a se stessi (principio che aveva una certa validità visto che si era appena usciti dal fascismo), prese subito una deriva antidemocratica: conquista dello Stato. Già Sorel, nelle Riflessioni sulla violenza, metteva in guardia i lavoratori sull’uso improprio della pacificazione sociale (uso corruttore e corruttibile dei costumi e delle istituzioni), che concepito come neutralizzazione del conflitto non poteva che sfociare in violenza. La violenza che Sorel descrive è una forma di difesa contro il potere e, allo stesso tempo, un recupero di quei valori che la politica dell’arrivismo stava cancellando. Sorel vede il sindacato come una comunità attiva, autonoma, in relazione (non solo in opposizione) allo stato. Questa comunità sindacale è insorgente perché non vede il sindacalismo come una forma principalmente contrattualistica, ma come crescita consapevole di una classe politica e di visione della società all’interno di uno stato fatto di produttori e non di consumatori.

La mentalità del consumatore è una forma di assoggettamento morale e politico che non trova sbocco in una comunità di produttori, ma solo di succubi consumatori di prodotti. È questa mentalità supina di accettazione della mentalità prevalente, costruita sui e dai media, che ha portato alla guida dei partiti comunisti persone che appartengono al mondo liberista e capitalista. È questa falsa opposizione che determina la scelta opposta all’interesse di comunità. In questa fase di falsa opposizione e di falsa coscienza, bisogna riportare le cose alla loro chiarificazione, e solo attraverso lo scontro frontale potrà sorgere la chiarezza delle posizioni. In questa fase la politica trova il suo limite nell’economia. Non è possibile che il ruolo del sindacalista finisca in una forma sclerotizzata e politicizzata di professione. Il sindacalista deve operare e combattere al di fuori degli schemi di una politica del soffocamento sociale e dell’economicismo. La strumentalizzazione della non-violenza, come pratica politica di una forza che vuole rifondare il comunismo, è figlia di questa pacificazione sociale e delle sue pratiche sindacalizzate come strumento di affossamento di qualsiasi visione che non sia assoggettata al sistema. L’assunzione della non-violenza, come categoria universale senza ancoraggio storico o politico, è figlia dell’inconsistente astrattezza di una visione politica di parte (di quella parte che si intende rappresentare e tutelare contro una deriva ultra-liberista di annichilimento delle coscienze e di prospettiva di vita degna di essere vissuta), ma che si avvale di un uso privato del partito, attraverso la falsa opposizione delle guerre imperiali e delle leggi liberticide nazionali. Eliminare concettualmente la violenza dall’orizzonte politico è come voler eliminare concettualmente tutte le ingiustizie che affliggono l’umanità. Un’operazione che risulta patetica perché non si propone ne di eliminare le cause e neppure di vedere le conseguenze

Una umanità che respira quotidianità può essere scossa soltanto evitando un atteggiamento condito da buonismo, vittimismo e mielosa pacificazione sociale.
Quando il genere umano ha rinunciato all’azione e alle idee straordinarie, e che, quando vi incorre, si affretta a trasformarle in luoghi comuni e volgari, allora, e solo allora, va formulata la domanda sospensiva, in una sorta di chiasmo tra accettazione violenta e critica a questo senso comune, che la norma è la sospensione della creazione ideale, e quindi, che rapporto c’è fra l’abituale e il mondo aperto?
Anche l’esperienza più traumatica della vita umana, l’enantiodromia, cioè il capovolgimento di una caratteristica psichica nel suo contrario, può scaturire una rottura, una sorta di possibilità per uscire dallo schema (habitus).
Quando un individuo riesce nella sua quotidianità a vivere in una società militarizzata, strutturalmente iniqua, priva di strutture sociali accoglienti, e dove la morte sul luogo di lavoro è un problema individuale e non della comunità, allora quell’individuo, attraverso l’abitudine, riesce ad eludere ogni alienazione.
Il populismo penale, facendo leva sulla sicurezza e mettendo l’accento sulla strutturale pericolosità sociale del diverso, dell’individuo incorreggibile per sua “natura”, ci dice esattamente questo: l’uomo che vive e lavora in una società fondata sul neoliberismo scompare insieme al suo lavoro, rimanendo soltanto il prodotto che sarà funzionale allo sviluppo della società “civile”.
Chi viene criminalizzato nello svolgimento quotidiano?
Tutti coloro che non si adeguano a soffocare l’alienazione e non intendono abituarsi alla quotidianità.
Questa diversità va punita come colpa a prescindere dal reato che si commette.
E’ chiaro allora che l’abitudine è già in sé qualcosa di oppressivo, di privazione di spazio e tempo, una sorta di ingabbiamento tra strutture parallele che formano i nostri percorsi irrigiditi e sospensivi di vita.
L’abitudine allora è qualcosa di perturbante (Unheimliche).
Quindi dov’è lo sconcertante?
La paura, la rottura avviene quando all’improvviso vediamo l’orrore in ciò in cui abbiamo sempre vissuto, a ciò che era all’interno della nostra esistenza e non ce ne eravamo assolutamente accorti: poi un giorno, all’improvviso, “vediamo” ciò che avevamo solo guardato: l’orrore.
L’attuazionismo, come corrente di pensiero, è contro ogni logica di esclusione proprio perché sarebbe la realizzazione concreta della non-conoscenza.
Per potersi veramente concretizzare l’esclusione ha bisogno della paura, proprio in quanto essa è nemica delle idee e preferisce rivolgersi alle opinioni per dissolvere ogni contenuto.
Parlare di esclusione significa affrontare la questione carcere e, di conseguenza, la domanda essenziale: a chi fra gli uomini è lecito arrogarsi il diritto di esercitare il potere sugli uomini?
Per rispondere adeguatamente alla domanda bisogna interrogarsi sul concetto di democrazia. Una volta, il diritto di esercitare potere sugli uomini era affidato al monarca, al cui potere si riconosceva una origine divina. Oggi, un potere più spietato e insidioso è affidato a quello che la filosofia attuazionista chiama il “dox”, ovvero colui che, attraverso la doxa, sonda gli umori del popolo.
Il dox, rispetto al dux, governa attraverso la comunicazione declinata in diverse accezioni:
comunicazione e paura
comunicazione e vita
comunicazione e violenza
comunicazione e famiglia
comunicazione e patria
comunicazione e giustizia
Per comunicazione s’intende chiaramente la comunicazione massmediatica che trasforma ogni idea in opinione, ogni ragionamento in chiacchiera, ogni confronto di contenuti in inconcludenza.
La comunicazione operata dal dox permette di veicolare lo sguardo della “pubblica opinione” dove è più facile scaricare paure, instabilità, incertezze, e dove è più facile trovare il capro espiatorio nel diverso, nell’irrequieto, nel vagabondo, nel disturbatore sociale.
Il carcere è la normale risposta dove scegliere arbitrariamente chi includervi per escludere la reale portata dei problemi di uno stato governato da un dox.
Il pensiero attuazionista volge lo sguardo al “Grande Rifiuto”, a ciò che è capace di attuare la vera emergenza del XXI secolo: le scorie sociali non degradabili, fatte di uomini e donne che rifiutano le leggi emergenziali e che intendono porsi come problema reale da affrontare, e non come falso alibi da accantonare.
E’ da qui che comincia a soffiare il vento di un pauroso e segreto timore maltusiano che, oltre al suo originario e già conquistato occidente, cerca di inculcare ogni tipo di pratiche di esclusione e d’internamento in nome di una superiore civiltà, pratiche moderne e forme artificiali confezionate dalle tecniche di dominio e sfruttamento.
Purtroppo l’ondata securitaria che si sta abbattendo in Italia e non solo, grazie alla spettacolare manipolazione del moderno dox, avvalorata da uomini di scienza, giornalisti, tecnici, sociologi, artisti e così via, al fine di contribuire con tutti i loro sforzi all’avanzata e al perfezionamento delle tecniche per manipolare e assopire la volontà.
L’opinione pubblica è entusiasta dei risultati, non sapendo di essere stata incarcerata dentro una realtà virtuale e che coloro che rifiutano un simile trattamento rischiano, oggi più che ieri, di finire dentro il moderno Edificio Sociale.

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