Riforma Gelmini e Confindustria: riflessioni e considerazioni

ott 11th, 2010 | Di | Categoria: Cultura e società

di Rodolfo Monacelli

È notizia di questi giorni le continue proteste degli atenei italiani, con in prima fila i ricercatori, a seguito della cosiddetta riforma dell’università da parte del ministro Gelmini, naturale prosecuzione di quella sulla scuola media inferiore e superiore dell’anno precedente. In questo articolo cercheremo di mettere un po’ d’ordine nella questione, cercando di analizzare innanzitutto le caratteristiche del DDL Gelmini e la “filosofia” alla base di questo provvedimento che, come vedremo, stravolge la funzione e il ruolo pubblico dell’università italiana.

Il decreto si divide in tre titoli: “Organizzazione del sistema universitario”, “Norme e delega legislativa in materia di qualità ed efficienza del sistema universitario” e  “Norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernente il reclutamento”, invitando, chi voglia, a leggere integralmente il decreto legge.

Concentreremo la nostra attenzione su due articoli del decreto, citandoli integralmente, che fino ad ora non sono stati affrontati dai dibattiti di questi giorni, ma che ci sembrano particolarmente significativi:

-          Art. 2 comma f: «attribuzione al consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale nonché di vigilanza sulla sostenibilità finanziaria delle attività; della competenza a deliberare l’attivazione o la soppressione di corsi e sedi; della competenza ad adottare il regolamento di amministrazione e contabilità, il bilancio di previsione e il conto consuntivo, da trasmettere al Ministero e al Ministero dell’economia e delle finanze […]»

-          Art 4 comma 1: «E’ istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo speciale per il merito finalizzato a sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti, individuati tramite prove nazionali standard».

Come si può notare dalla lettura di essi, la questione è ben più complessa dei soli tagli all’università e dello svilimento del ruolo del ricercatore all’interno delle università italiane. Il progetto alla base, che come vedremo non nasce nel 2010 né è un’idea del ministro Gelmini o del  ministro Tremonti, è quello di una radicale trasformazione dell’università in un’azienda, con logiche aziendali di profitto e di meritocrazia, magica parola che sta in realtà a significare non il merito, ma una divisione sostanzialmente di classe tra gli studenti italiani. Al di là di una retorica dichiarazione di principio, quella di promuovere le “eccellenze”, di fatto la riforma Gelmini punta alla trasformazione dell’università italiana in una università di classe, con tagli per 1.500 milioni di euro, organici ridotti secondo lo schema un’assunzione per ogni cinque pensionamenti perdendo di fatto quattro docenti per l’attività formativa degli studenti, la trasformazione delle università in fondazioni private, con una ricerca gestita per favorire gli interessi dei privati e con l’istituzione di un fondo gestito direttamente dal ministro dell’Economia e delle Finanze, togliendo di fatto i fondi al diritto allo studio per garantire gli interessi di pochi.

L’obiettivo non dichiarato è dunque quello di trasformare l’università non in un luogo di formazione e di cultura che fino ad ora, con tutte le sue storture e difetti è comunque stato, ma un luogo in cui formare una ristretta cerchia di studenti (perdendo perciò la sua funzione pubblica) a vantaggio degli interessi di Confindustria. Non è un caso che si erga a difesa della riforma, in un articolo sul Sole 24 Ore del 2 ottobre, il vicepresidente di Confindustria Gianfelice Rocca il quale afferma che «tutto il settore pubblico è stato vissuto per troppo tempo anche come ammortizzatore sociale, per cui di reazioni conservatrici ne vedremo un’infinità dal momento che si basano su prassi decennali che le giustificano». L’università, in questa prospettiva, è perciò soltanto un tassello di un continuo e costante attacco al settore pubblico di questo Paese. È ovvio che, da comunisti, i settori pubblici non debbano essere considerati come la panacea di tutti i mali, e che una pratica di tipo capitalistico e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo possa essere praticata anche in aziende di tipo statale, ma bisogna altresì comprendere come questo attacco al pubblico sia oggi in funzione dell’eliminazione di tutto ciò che vada o sia pensato oltre il mero profitto. Elementi, questi, che se prima avevano anche una funzione di ammortizzatore sociale (lo esprime chiaramente il presidente di Confindustria nel passo citato), non hanno oggi ormai più nessuna funzione positiva per il turbocapitalismo.

Per ritornare più specificatamente all’università, per meglio comprendere questo processo c’è da dire (lo avevamo accennato precedentemente) come questo attacco sia soltanto l’ultimo di una lunga lista, che inizia con la riforma Ruberti del 1990 e poi prosegue con quella Berlinguer, Zecchino, De Mauro, Moratti, Mussi e, soltanto alla fine Gelmini. È perciò risibile sentire, nelle assemblee e nelle manifestazioni, come l’obiettivo delle proteste debba essere quello di far ritirare il decreto o di far cadere il governo Berlusconi. Non solo e non soltanto perché il Partito Democratico afferma che «i principi ispiratori che volevano essere alla base del progetto di riforma del ministro Gelmini» siano «principi condivisi dal Partito Democratico, così come dalle parti sociali, dalla Confindustria che ha fortemente sostenuto questa riforma, e dagli attori del mondo accademico» (Sen.  Mauro Cerruti, L’Unità, 24 luglio 2010). Il Pd, infatti, non soltanto condivide ma, negli anni, ha elaborato la base da cui prende spunto la riforma Gelmini: finta autonomia finanziaria e statutaria, svuotamento del Cun, finti concorsi locali, disastroso “3 + 2″. Non si salva neanche la sinistra cosiddetta radicale ed è comico quando la vecchia cariatide (di spirito più che anagraficamente) Fabio Mussi, sul Corriere della Sera del 23 luglio addirittura afferma di avere il merito di aver voluto, prima dell’attuale governo, l’Anvur (l’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca).

Ancora una volta l’antiberlusconismo genera mostri e impedisce di comprendere a pieno i reali scontri in atto e come il vero obiettivo, in merito all’università, debba essere non quello (o perlomeno non soltanto) di far cadere il governo Berlusconi, ma di lotta perché la cultura, da strumento di emancipazione e di liberazione quale è se collettiva, non divenga uno strumento classista di repressione.

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9 commenti
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  1. Le direttrici della riforma Gelimi, sulla scia di un processo ormai ventennale (come ben sottlineato dall’articolo) sono orientate alla trasformazione in senso provatistico dell’università con il fine di subordinare la formazione alle esigenze capitalistiche (non genericamente produttive, ma capitalistiche).

    Una domanda a Rodolfo: in che senso parli di finta autonomia della scuola e dell’università?

    Io credo che il processo di autonomia scolastica e universitaria sia fin troppo reale e sia stato alla base della frantumazione dell’istruzione pubblica, distruzione dell’unicità del programma nazionale, trasformazione delle scuole in agenzie pubblcitarie attira-studenti.

  2. Quando parlo di finta autonomia lo metto in relazione, in particolare, al progetto del cosiddetto “fondo per il merito”. Si parla di autonomia ma in realtà tutto è gestito dal Ministero dell’Economia. A mio parere una vera autonomia sarebbe quella, per ogni università, di poter programmare economicamente le proprie risorse in base ad un progetto culturale e formativo, mentre in questo modo tutto sarà gestito dal Ministero in base a criteri puramente economici e di “risparmio” (e a ciò si unisce l’attribuzione al consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, come se l’Università fosse un’azienda qualsiasi). Quello di cui parli tu e che si è propagato ideologicamente fino ad oggi è a mio parere qualcosa di diverso, e che risponde anch’essa alla logica della trasformazione dell’Università italiana in un’impresa.

  3. Serena Billeri

    da fb

    Mi dovrebbe però spiegare Rodolfo -ed in questo lo inviterò- perchè e come possa accomunare la riforma delle valutazioni sulla scuola della Gelmini con quella di Mussi quando la prima vede in definitiva sotto la parola “meritocrazia” (che tutto sommato non è una parola di destra e può essere anche condivisibile nella sua accezione scevra da condizionamenti) solo un passaggio sostanziale da Università pubblica a privata. Cosa che invece non pensava Mussi.

  4. Ciao Serena.
    Beh non sono io, ma come è scritto anche nell’articolo, ma l’ex ministro Fabio Mussi ad essersi preso il merito di avere istituito l’Anvur. E non devo essere certo io a spiegarti quale sia stato il ruolo dell’Anvur per l’università italiana, creando università di serie a e università di serie b, e conseguentemente studenti che avranno diverse possibilità formative e di lavoro in base all’università che, nella maggiorparte dei casi sono costretti a frequentare. L’inizio, insomma, dell’attacco all’istruzione universitaria pubblica nazionale.
    Per quanto riguarda la meritocrazia a mio parere non va confusa in nessun modo con il “merito”, ma è una definizione ideologica per la ristrutturazione in senso elitario (e dunque classista) dell’università italiana.

    Ciao.

    (da Fb)

  5. Per Rodolfo:

    D’accordo che si tratta in un certo senso di pseudo-autonomia, ma resta il fatto che l’autonomia è stata il cavallo di Troia per la disgregazione del sistema scolastico italiano. Dall’autonomia nasce la scuola-azienda, nasce l’isteria dei corsi pomeridiani, la scarsa attenzione al PROGRAMMA e l’idea di attirare con iniziative più diasparate nuovi alunni-clienti.

    Per l’università il discorso può essere leggermente diverso, ma sono ugualmente convinto che il sistema universitario per essere conforme a criteri e standard condivisi, debba comunque ricevere un forte indirizzo pubblico universale centralizzato. Ciò non toglie che forme di autonomia gestionale delle risorse siano in una certa misura condivisibili. E soprattutto ciò non toglie assolutamente (ma questo con l’autonomia non c’entra nulla) che ogni insegnante abbia il diritto-dovere di perseguire il proprio progetto culturale in maniera personale (questo sia ben chiaro).

  6. Concordo con Lorenzo a proposito di autonomia. Io insegno nelle scuole superiori e so bene quanto disastro ha compiuto l’autonomia. Molti rispondono, a partire dai presidi (alias dirigenti scolastici), che purtroppo non c’è vera autonomia, si tratta di finta autonomia. Scrivevo in un articolo pubblicato sulla rivista di Comunismo e comunità sulla questione della scuola (articolo ancora profondamente attuale) che l’ “autonomia viene considerata dai più come positiva, è difficile pensare che il concetto di autonomia evochi qualcosa di negativo. Semmai la si critica l’autonomia, è perché non si fa abbastanza per realizzarla nei fatti, cioè si tratterebbe di un’autonomia non sostanziale. Ed è per questo che si dovrebbe fare uno sforzo in avanti perché l’autonomia diventi davvero tale nei fatti e non solo nelle dichiarazioni. Così capita spesso di sentire dirigenti scolastici rammaricarsi del fatto che non c’è troppa autonomia, perché se questa ci fosse davvero sarebbe diverso”. E ancora: “È chiaro che non è l’autonomia in sé il ‘male’ della scuola d’oggi, ma è altrettanto chiaro, almeno per chi scrive, che l’autonomia è stato il cavallo di troia con il quale si è scardinata la ‘scuola del programma’ per passare alla ‘scuola del progetto’. Insomma l’autonomia scolastica ha favorito quei processi di aziendalizzazione che ormai hanno fatto sì che la scuola (e l’università ancor di più) funzionino come luoghi non più di formazione del/dei saperi ma come luoghi di valorizzazione di logiche sempre più aziendalistiche.

  7. Per Lorenzo:

    Io parlavo esclusivamente della questione universitaria. E’ ovvio che alcuni standard condivisi siano necessari ma un’autonomia culturale, di progetto e di gestione delle risorse sarebbe assolutamente positiva (detto per inciso: questo nell’università italiana non si è mai realizzata). Tornando al merito del discorso, poi, io parlavo dell’autonomia in relazione al cosiddetto “fondo per il merito” che, non solo toglie fondi al contributo statale all’università, ma è anche centralizzato e deciso dal ministero dell’Economia, fondandosi dunque certo non su criteri qualitativi da attribuire al singolo studente.

  8. Concordo con il commento di Antonio.

    Per quanto riguarda la distinzione tra scuola ed Università (che è corretto fare) credo che il discorso sia complicato. Francamente non so quanto sia giusto concedere in termini di autonomia progettuale spazio alle singole università. O meglio direi che ogni università dovrebbe avere la possibilità di modellare proprie versioni e varianti di quello che comunque dovrebbe restare un indirizzo tutto sommato comune.

    In un sistema decente dovrebbe esserci uno standard minimo riconosciuto centralmente (in forme il più possibile democratiche) che fissi dei criteri per cui alcune discipline devono essere consciute da tutti (e non solo da chi ha la possibilità o la fortuna casuale di finire in una certa università anziché in un’altra). Ed invece si ha che alcune università, facendo l’esempio di economia, ti insegnano solo ed esclusivamente il main stream più brutale mentre in altre si trova maggiore spazio per un insegnamento plurale.
    A Filosofia si arriva al paradosso, persino internamente alla singola università. Non esiste programma, non esistono standard. Puoi uscire senza sapere un acca di filosofia greca.

    Capisco la difficoltà di centralizzare la cultura e capisco l’importanza di lasciare ampi spazi di libertà non solo personale ma anche in seno ai singoli istituti. Tuttavia credo che alcuni requisiti minimi comuni debbano sempre e comunque esistere anche nell’insegnamento universitario.

  9. E’ un discorso un pò complesso da affrontare qui comunque ci provo.
    Ribadisco che io sono favorevole, per quanto riguarda l’Università, ad un’autonomia(o chiamatela come preferite) progettuale e culturale e che come la storia c’insegna la centralizzazione della cultura (e non della produzione dei saponi) porta solo stagnazione culturale. E’ ovvio che un minimo comune denominatore dovrebbe esistere ma, a mio parere, questo dovrebbe riguardare le facoltà scientifiche e tecniche più che quelle umanistiche, soprattutto per quanto riguarda le singole università (ma questo è sempre esistito).
    Qui emerge però un problema che riguarda la scuola media superiore più che l’università.
    Mi spiego meglio: per quanto mi riguarda uno studente che s’iscrive a Filosofia o a Lettere dovrebbe avere già delle basi e dunque scegliere quale sia il settore in cui intende specializzarsi, all’interno della singola università o in un’università meglio attrezzata da quel punto di vista (e in questo dovrebbe essere sostenuto dallo Stato dato che l’istruzione,anche universitaria dovrebbe poter essere garantita per tutti).
    Il problema è che, in alcuni casi, c’è gente iscritta a Lettere che non ha idea di chi sia Ariosto, o a Filosofia senza sapere chi sia Aristotele e dunque la laurea si riduce ad una singola specializzazione senza avere la più pallida idea di chi e di cosa sia venuto prima e dopo. E a questa già drammatica situazione le riforme della Gelmini certo non aiutano, anzi…

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