Questione sociale e questione politica. Note sulla manifestazione della FIOM del 16 ottobre

ott 18th, 2010 | Di | Categoria: Primo Piano

della Redazione

Sabato 16 Ottobre centinaia di migliaia di lavoratori hanno sfilato tra le vie di Roma, convergendo in un unico enorme assembramento in Piazza San Giovanni.  Indetta dalla FIOM e appoggiata in seguito da diversi partiti e organizzazioni  politiche, la manifestazione è stata senza dubbio un successo di rilevanti dimensioni. In termini numerici gli organizzatori non si sono sbilanciati nel riportare cifre ufficiali, ma alcuni esponenti della dirigenza sindacale, come Cremaschi, hanno parlato durante lo svolgimento della manifestazione  (specificando la difficoltà di stimare i partecipanti)  di circa un milione di persone scese in piazza.  Appare sicuramente del tutto fuori misura, ovvero fortemente sottostimato, il numero di 80.000 reso noto dalla questura, visto e considerato che nel momento in cui Piazza San Giovanni era gremita di gente moltissimi ancora sfilavano da entrambe le direzioni d’origine dei due cortei convergenti.  Anche se in maniera del tutto approssimativa, si può concludere che alcune centinaia di migliaia di persone hanno sfilato per le vie di Roma.

La ragione fondamentale della manifestazione era la difesa del contratto nazionale dei metalmeccanici contro ogni tentativo di dissoluzione dello stesso tramite il principio di deroga previsto dagli accordi del 2009 nonché di fatto tramite le politiche di ricatto attuate dalla Fiat nei suoi stabilimenti (Pomigliano, Melfi, etc).

Un attacco, quello al contratto nazionale di categoria, portato avanti da alcuni anni, con particolare dedizione, dagli ultimi governi succedutisi nonché punto cardine del programma di politiche del lavoro tanto del centrodestra di governo quanto dell’opposizione pidina (nelle elezioni del 2008 il programma veltroniano citava apertamente l’importanza della contrattazione di secondo livello assumendo la necessità del superamento del contratto nazionale).  A tale ragione principale della manifestazione si è affiancata una più generale protesta contro il massacro sociale subito dal lavoro dipendente (e non solo dipendente) nell’ultimo ventennio.

Gli striscioni e gli slogan erano chiari e diretti. La maggior parte richiamavano la dignità del lavoro, la centralità dei suoi inalienabili diritti, l’importanza del contratto nazionale come strumento di unità, la necessità di affrontare la crisi capitalistica mettendo il lavoro al centro delle politiche economiche eccetera. Un corteo maturo, tendenzialmente libero, almeno in buona parte  (più che in altre recenti occasioni), da confusioni o identificazioni politiche ambigue, malgrado la presenza nutrita di partiti politici opportunisti pronti a salire sul carro della protesta sociale per orientarla entro le tendenze espresse dall’attuale capitalismo.

Tre concise considerazioni possono essere espresse in merito alla manifestazione:

1. Le legittime e sacrosante rivendicazioni sindacali e politiche espresse dalla FIOM, frutto di un sindacalismo intenzionato (perché pressato dalla situazione reale), pur con tutti i suoi limiti, a non piegarsi completamente alle esigenze padronali e capitalistiche, sono state portate in piazza in maniera seria, compatta e massiccia. La FIOM sta subendo un attacco padronale, politico e mediatico quasi ossessivo da alcuni mesi a questa parte, cioè da quando ha mostrato il suo volto più serio mettendosi in netta opposizione al sindacalismo giallo maggioritario della stessa CGIL di cui è parte, nonché ovviamente della CISL e della UIL.

Il sindacato confederale italiano, come i suoi omologhi europei, ha giocato un ruolo sporco di integrazione attiva nelle logiche neo-liberali fungendo da filtro ideologico tra le esigenze sistemiche e e quelle dei lavoratori permettendo, tramite la sua mediazione, l’accettazione passiva da parte di questi ultimi dei numerosi e gravissimi attacchi portati avanti dagli anni ’90 ad oggi.  I sindacati confederali hanno accettato per un ventennio, salvo sparute resistenze, la logica della dottrina dominante del baratto politico in base a cui per avere maggiore occupazione bisogna perdere diritti e diminuire i salari. Incapaci di contestare alla base le cause politiche e strutturali di tale impostura ideologica, in quanto privati di ogni referente politico di “valore”, i sindacati hanno attuato due diverse tattiche convergenti in ultimo in un’unica strategia:  CISL e UIL hanno puntato direttamente sulla connivenza esplicita con le politiche sistemiche proponendosi di racimolare soltanto concessioni economiche sporadiche di pura compensazione; la CGIL ha adottato la tattica della connivenza implicita alternando fasi di opposizione, spesso altisonante nella forma (quasi sempre e solo orientata ipocritamente contro i governi di centro-destra) a fasi di clamorosa accettazione delle peggiori controriforme del lavoro (specie se attuate dal centro-sinistra). Tuttavia alcune componenti di tale sindacato di massa, che pure hanno ingoiato nel tempo infiniti bocconi amari, hanno mantenuto un profilo di dignità che le ha portate a non cedere del tutto alla completa svendita del lavoro al capitale. Tra di esse spicca la FIOM, non a caso negli ultimi mesi dai media rappresentata come il simbolo della resistenza “conservatrice”, dell’opposizione alla modernizzazione neo-liberale descritta come necessaria da tutti i politici e commentatori “allineati”. Proprio qui sta, al di là di ogni altro limite e al di là dei problematici sbocchi politici potenziali, la ragione fondamentale per cui il sindacalismo rivendicativo della FIOM, come ogni altro sindacalismo di minima sostanza, deve essere appoggiato e giudicato positivamente. Poiché si oppone all’accelerazione del processo duplice di iper-sfruttamento e atomizzazione del lavoro e più in generale di disgregazione sociale.  In questo senso la manifestazione di sabato ha rappresentato un oggettivo elemento di resistenza alle attuali politiche capitalistiche. Non significa che abbia direttamente espresso contenuti politici anticapitalistici (chi lo crede oltre a peccare di ingenuità confonde arbitrariamente la sacrosanta azione rivendicativa sindacale con un contenuto di reale alternativa politico-sociale per il momento inesistente).  Semplicemente la manifestazione e le istanze che l’hanno prodotta hanno posto un ostacolo simbolico e materiale alle dinamiche di stravolgimento dell’assetto giuslavoristico ormai avviato da vent’anni (e l’intervento di Landini era orientato in questa direzione). Tutto ciò, sul piano della difesa dei diritti economico-sociali di chi lavora, rimane un punto assolutamente rilevante (ed è anche il presupposto necessario, contrariamente a quanto alcuni puristi dell’analisi di alto livello possano credere, anche se non sufficiente, per dare vita ad una prospettiva politica più ampia).

2. La seconda considerazione concerne la presenza alla manifestazione di determinati partiti politici nonché il generale contesto culturale viziato da alcuni elementi di confusione che non solo dovrebbero essere estranei, ma tendenzialmente incompatibili con una forza sociale e popolare. Per quanto riguarda i partiti politici si è avuta la presenza di SEL guidata dal capo carismatico Nichi Vendola – il nuovo idolo della sinistra confusionaria alla ricerca di uomini della provvidenza ad alto impatto estetico ed emotivo. Il ruolo di Vendola nel panorama politico italiano è ormai fin troppo chiaro: si tratta del tentativo di rieditare nuovi centro-sinistra interagendo da vicino, o (forse un giorno da dentro) con il PD di cui vuole diventare la spalla sinistra “progressista”. Un progetto dunque del tutto interno alle dinamiche ultra-capitalistiche di cui è portavoce diretto il Partito Democratico. Stesso discorso vale per la presenza dell’Idv, il partito della moralità legalitaria, da qualche tempo immancabilmente in contatto con le lotte sociali dei lavoratori, salvo poi appartenere in Europa al gruppo dei liberali europei complici delle più criminali scelte di politiche del lavoro (direttiva Bolkenstein, liberalizzazioni, aumento della giornata lavorativa eccetera) e salvo votare in Italia a favore di disegni politici gravemente antisociali come il federalismo fiscale. In entrambi i casi si è di fronte ad un vero e proprio disegno di cooptazione e integrazione delle lotte sociali e popolari all’interno delle dinamiche ipercapitalistiche travestite alternativamente da progressismo di costume e politica dei diritti individuali  (Vendola) e legalità moralistica antiberlusconiana militante (Di Pietro).  Da notare inoltre la presenza dei grillini, anch’essi parte integrante dell’associazionismo pre-politico di reazione legalitaria e genericamente “anti-castale”.  Vi è stata poi la presenza della Federazione della Sinistra, continuamente oscillante tra faticoso e ambiguo tentativo di emancipazione dal bipolarismo oligarchico e perenne ricaduta nella logica dell’ammucchiata antiberlusconiana. Anche per questa forza politica vale da un lato il discorso della contraddizione tra intenzione egemonica delle lotte sociali e catastrofica esperienza parlamentare e governativa a  cui si aggiunge una cronica difficoltà di analisi delle contraddizioni principali espresse dall’attuale capitalismo. Infine da segnalare la consueta presenza della galassia di micropartiti comunisti e numerosi gruppi e organizzazioni (tra cui l’immancabile e catastrofico popolo viola).

In termini di clima culturale generale se da un lato si può apprezzare la sostanziale marginalità di slogan interni alla pura logica della sinistra anti-berlusconiana (soprattutto tra i manifestanti, in minor misura per quanto riguarda gli interventi dal palco di San Giovanni) in favore invece di un’impostazione sociale e popolare dei problemi lavorativi, dall’altro non si può non rilevare la mancata emancipazione (miraggio davvero difficile, forse impossibile nel breve periodo) dei lavoratori dalla corrente culturale sinistrese nei suoi lati peggiori. Alcune battute del comico Andrea Rivera (che nel bel mezzo del suo discorso se la piglia con il Papa e propone di mettere il preservativo nelle scuole medie perché ormai i ragazzini scopano a go-go) o l’intervento di Paolo Flores d’Arcais epigono del laicismo e dell’antiberlusconismo colto sono solo due casi della generale cronica subalternità delle lotte sociali al clima culturale devastante di cui la sinistra è da anni portavoce di primo piano.

3. La terza, ed ultima considerazione, concerne il ruolo oggettivo di un sindacalismo di sostanza nell’orizzonte sociale in cui viviamo in Italia e più in generale in Europa. Il limite più grande e devastante di cui soffre il sindacalismo oggi è il dover agire entro un contesto di mancanza di sovranità politica degli Stati, privati di fatto della propria sovranità fiscale e monetaria entro la prigione dell’Unione Europea. Una prigione in cui gli Stati europei guidati da classi dirigenti criminali si sono volontariamente rinchiusi a partire dagli anni ’80 e poi in grande stile con l’adesione ai trattati europei e dell’OMC degli anni ’90. Un sindacato nazionale, che agisce politicamente in un contesto nazionale, si trova di fronte un quadro istituzionale fittizio che risponde a logiche decisionali esterne e che mostra tutta la propria voluta impotenza rimandando continuamente alla fonte ineluttabile e immodificabile delle proprie decisioni (“lo dice l’Europa, non noi”; “lo dice la globalizzazione, non noi!” eccetera).  Un contesto di questo tipo priva totalmente i lavoratori di una forza contrattuale adeguata all’interno di un contesto sovrano, in cui la controparte (il capitale) è vincolato almeno in parte a logiche di protezione dell’economia e di intervento pubblico.  Ne discende la necessità assoluta da parte del sindacato di assumere come priorità politica vincolante l’esplicita critica radicale delle strutture istituzionali rivendicando l’esistenza di uno spazio politico sovrano entro cui esplicare la propria azione. Si potrebbe obiettare che il sindacato non è tenuto a fare azione immediatamente politica. Si tratta di un principio discutibile, ma comunque sensato, purché si ragioni in un contesto di sovranità democratica, dove per democrazia non si intende un codice formale di autorappresentazione ideologica (com’è nelle attuali “democrazie” europee), ma la concreta possibilità di esercizio del potere popolare in strutture di rappresentanza e sovranità chiare e definite. Se si esce da tale contesto (e ne siamo completamente usciti almeno dalla metà degli anni ’80) il discorso del sindacato che non fa politica cade nel vuoto e diventa un non senso, dal momento che l’azione politica in questo caso diventa la precondizione affinché la stessa azione sindacale abbia un significato reale e non puramente formale. Ma fondamentale, perché si esca dalle secche dei ricatti che il “mercato” impone, è che i lavoratori intraprendano la strada dei collegamenti orizzontali sia nazionali che internazionali. Un esempio per tutti: non si sfugge al ricatto della delocalizzazione se non si va in questa direzione.

Esiste oggi in Italia lo spazio per un sindacato che ponga in seria discussione, aggregando attorno a sé forze politiche e culturali adatte, le prigioni istituzionali che lo condannano all’impotenza (trattati UE, liberalizzazione dei capitali e delle merci etc etc) mettendo all’ordine del giorno, senza rifugiarsi dietro l’ideologia della globalizzazione (in tutte le sue versioni compresa quella di sinistra), l’urgenza di una difesa a tutto campo sia delle condizioni dei lavoratori sia dei più generali rapporti sociali da strappare al dominio vampiresco della legge del valore capitalistico? Probabilmente al momento no. E la ragione fondamentale risiede in due debolezze. La prima è una debolezza legata alle prospettive puramente rivendicazioniste, in un certo senso economicistiche, che storicamente il sindacato ha quasi sempre avuto (ma che oggi, come già detto, non può più permettersi di avere, pena la sua scomparsa dentro l’ideologia dell’ineluttabilità dei processi globali). La seconda è una debolezza legata alla contiguità ideologica degli ambienti sindacali con la galassia ideologica della sinistra moderna italiana, ivi compresi i suoi aspetti estetici e  simbolici così sideralmente distanti da quelle che sono le vere esigenze popolari che andrebbero rappresentate. Si tratta di debolezze teoricamente superabili, anche se a costo di riposizionamenti faticosi e dolorosi, che difficilmente però potranno essere eliminate in tempi brevi.

Nel frattempo non resta che valutare come elemento molto positivo il fatto che, anche grazie alle posizioni della FIOM, la questione sociale (e indirettamente politica) sia stata messa massicciamente all’ordine del giorno in Italia, così come è stato fatto recentemente in Spagna e si continua a fare in questi giorni in Francia e in Grecia.

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15 commenti
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  3. Il terzo punto è cruciale.
    Il contesto è quello di uno stato/ governo espropriato della sovranità che tende a ridursi a “catena di trasmissione finale” delle decisioni politiche e strategiche imposte dagli Organi della maondializzazione che operano per conto della classe globale.
    Per tale motivo, ci vorrebbe una sorta di coordinamento sovranazionale della protesta, degli scioperi, dei blocchi produttivi.
    Ad esempio, coordinando lo sciopero generale francese con la protesta greca, e questi con gli scioperi e le manifestazioni Fiom in Italia, ed ancora con gli scioperi spagnoli.
    Ricordiamoci che esite pur sempre un’associazione sindacale europea, come esiste un’organizzazione mondiale … solo che si trovano nelle mani sbagliate, “riformiste”, e non non esprimono, nel concreto, alcuna unità del lavoro materiale e intellettuale.
    Purtroppo quello dello sciopero generale sovranazionale [almeno a livello europeo o europeo-mediterraneo] è un discorso futuribile, se mai si riuscirà a concretizzarlo.

    Saluti

    Eugenio Orso

  4. Giusto Eugenio! Proprio quello che ci si auspica quando si parla della necessità di collegamenti “orizzontali” a livello sia nazionale sia internazionale. Ritengo che si tratti di una prospettiva per la quale orientare tutto lo sforzo politico degli anticapitalisti specialmente se comunisti. Se si pensa di rinchiudere la lotta all’interno del proprio paese si è perdenti in partenza. Solo le lotte, se dure e radicali, possono far saltare il banco delle compatibilità: sono esse il fondamentale fattore di destabilizzazione delle istituzioni sovranazionali. Io penso che quando si parla di sovranità bisogna intenderla come sovranità di tutti i soggetti (in attesa che diventi un movimento capace di produrre degnamente nuove capacità politiche nonché teoriche) che non possono sottostare alla logica delle classi dominanti (capitalistiche).

  5. Sono d’accordo con i commenti di entrambi.

    Tuttavia credo che la riappropriazione di uno spazio politico sovrano (che sia l’Italia, l’Europa-difficile- o quel che sarà) è un passo intermedio necessario, altrimenti si cade in un’utopia mondialista irrealizzabile (per fattori storici, culturali, di tempi epocali oggettivi). Ciò non signfica lasciare da parte l’internazionalismo, anzi! Significa esattamente rivendicarlo sulla base della solidarietà tra i popoli in un contesto in cui però, ciascuna realtà nazionale, macro-regionale (aggregazione tra paesi, vedi il sudamericana ispanofono) attua un processo endogeno di maturazione delle condizioni rivoluzionarie concrete. In Europa la situazione al riguardo è assai intricata. E la causa è proprio il progetto UE, fatto a posta per espropriare la politica (intesa in senso ampio) della proprio sovranità minima (massima non c’è mai stata nel capitalismo, sia chiaro) sugli agenti oligarchici (a loro volta rispondenti a logiche gerarchiche di tipo imperialistico).
    La domanda è: agire in un Europa politica da costruire o reclamare la sovranità statale-nazionale?

    E’ una domanda molto seria. I compagni greci del KKE se la stanno ponendo con chiarezza al punto che in Grecia si inizia a parlare di ritorno alla dracma e uscita dall’UE. Si potrebbe obiettare che un movimento comunista e-o sindacale europeo non è un’utopia, poiché ci sono minime condizioni istituzionali che rendono possibile un’unità di intenti dei popoli europei (più di quanto sia possibile unìunità di intenti coordinata del popolo cinese con i lavoratori italiani per capirci). Eppure sappiamo che l’Unione Europea, che ricordiamocelo NON è uno spazio politico, è strutturata su una gerarchia di interessi nazionali capitalistici molto chiari dove quelli tedeschi coordinano e regolano a proprio vantaggio le mosse degli altri paesi (in particolare di quelli del sud, i cosiddetti PIGS se aggiungiamo l’Irlanda, e di quelli neo-entrati dell’est).
    E’ pensabile un’alternativa politica europea? Non lo so, ma sono estremamente scettico. Fino ad oggi l’Europa anche nell’estrema sinistra è sembrata piuttosto una scusa per l’immobilità a livello nazionale.

    In qualche modo, politicamente, da questo imbuto biosgnerà pure uscire (e non basta l’internazionalismo tout court, che resta comunque la prospettiva comunista e anticapilista di lungo periodo).

  6. Vorrei dire, Lorenzo, che tu critichi (giustamente) la categoria internazionalismo nella sua versione astratta e purista per la quale tale critica è necessaria in quanto va a colpire atteggiamenti politici velleitari e quindi per definizione inconcludenti. Penso che si debba, però, uscire da questa interpretazione dell’internazionalismo che poi coincide con certe posizioni “internazionaliste” della rivoluzione comunista intesa come evento mondiale e contemporaneo. Pura fantasia! Dobbiamo ritornare coi piedi per terra e considerare che qualsiasi processo di emancipazione e liberazione dal capitalismo e dalle forme che esso storicamente assume (specialmente in una fase come quella odierna) è gioco-forza ribadire l’inevitabilità del collegamento fra i diversi settori sociali coinvolti e posti nella necessità di contrastare le politiche capitalistiche (non il capitalismo!). E questo è un punto irrinunciabile, che deve essere sempre non solo agitato e propagandato ma anche praticato. Giustamente Cremaschi nel comizio a piazza S. Giovanni elencava i sindacati internazionali (serbo, greco, cinese, statunitense, eccetera) che hanno sottoscritto la piattaforma della mobilitazione indetta dalla FIOM.

  7. Se è vero che l’Unione Europea non è uno spazio politico, ma una creatura globalista la cui funzione è di imporre certe politiche agli stati nazionali del vecchio continente [Lorenzo Dorato], è pur vero, però, che nei singoli paesi vi sono ragioni comuni di lotta ed esiste una possibilità di aggregazione sopranazionale [Antonio Catalano].
    Il problema può essere posto nel modo seguente:
    Se io mi muovo in uno spazio bidimensionale, e quindi nel piano [che rappresenta metaforicamente i singoli paesi in cui si muovono e manifestano i subordinati, ancora divisi dai confini], il Nemico si muove agilmente in uno spazio tridimensionale [La UE/ UEM gli altri organi della mondializzazione, i globalisti].
    Il nemico mi vede, mi tiene sotto controllo, ha capacità di intervento nel mio spazio, ma io non lo vedo, e quindi non riuscirò a combatterlo.
    Il nemico si muove in una dimensione superiore alla mia, alla nostra, e sappiamo bene che uno spazio con una dimensione in più non può essere visto da chi dimora nella dimensione inferiore, ma solo descritto con l’uso di algoritmi matematici, attraverso le formule.
    Per tale motivo c’è una generale difficoltà nel riconoscere il Nemico Principale.
    Superare l’angusto piano, caratterizzato dalle due dimensioni stato nazionale e classe antagonista interna allo stato, vorrebbe dire accedere alla terza dimensione, caratterizzata da tre coordinate: organi sopranazionali della mondializzazione che dettano le politiche e le strategie, stati nazionali che le trasmettono al loro interno e classe antagonista [europea o planetaria] che le subisce.
    Se nelle due dimensioni io posso muovermi soltanto avanti/ indietro e a destra/ a sinistra, il Nemico che popola la terza dimensione ha “una marcia in più”, perché può spostarsi anche dall’alto verso il basso e viceversa, surclassandomi senza che io me ne accorga.
    Accedere alla dimensione superiore – cioè aggregare la protesta a livello europeo o addirittura planetario – significherebbe poter vedere in piena luce il vero nemico, che a quel punto avrebbe grandi difficoltà a nascondersi, combattendolo con qualche possibilità di successo nella sua dimensione.
    L’esempio potrà sembrarvi bizzarro, ma a me sembra calzante.

    Saluti

    Eugenio Orso

  8. L’esempio calza eccome, ma il problema resta!

    E il problema è la mancanza di una cornice politica, istituzionale e, in un certo senso (e questo vale massimamente ragionando a livello planetario) storico-culturale comune.

    Si possono, anzi si devono aggregare le lotte, ma non si può essere ingenui da pensare che l’aggregazione dei dominati, dei salariati, degli sfruttati in generale senza una corince politica reale entro cui agire possa dar adito a trasformazione planetarie inarrivabili (se pensate contestualmente e contemporaneamente). L’unione delle lotte non è in contraddizione con la necessità di agire ciascuno entro la propria realtà istituzionale, storica, politica.

    Detto questo, permane un enorme problema politica che i popoli europei devono oggi porsi in ottica rivoluzionaria. Ragionare in ottica di una futuribile Europa politica e quindi agire in vista di un possibile (nel breve periodo) contesto politico europeo, oppure reclamare la sovranità nazionale in funzione della riappropriazione dello spazio democratico minimo di azione?

    Io credo che la soluzione oggi (e il caso della Grecia lo sta mostrano con una certa chiarezza, anche se il discorso resta assai complesso) sia rivendicare la riappropriazione della sovranità statale-nazionale e contestualmente lavorare per una possibile unità politica (anticipata dall’unità di lotta) europea. Fnché il processo europeo verrà sempre messo prima (cosa che ingenuamente ha fatto la sinistra dagli anni 80 in poi, mentre finanzieri e oligarchi se la ridevano a pancia all’aria dell’Europa politica) si continuerà a cadere nella trappola che è stata magistralmente tesa ai lavoratori per privarli di uno spazio politico di minima sovranità.

    In sostanza non si tratta di essere antieuropeisti o contro l’Europa, ma di invertire la cronologia degli eventi. Paesi sovrani possono ricostituire un’Europa politica e cedere sovranità una volta che l’hanno riacquisita. Paesi non sovrani invece sono semplice pedine ricattabili che non possono scegliere un bel nulla.

  9. Nei punti 2 e 3 sono messi in rilievo dell’aspetti su cui bisogna lavorare. Sopratutto il secondo deve essere oggetto della nostra critica in modo tale da poter emancipare le potenziali forze realmente anticapitalistiche da ideologogie culturali che, oggi giorni, rappresentano solo ed esclusivamente un ostacolo al progresso di costruzione paradigmatica. Ripensare le vecchie dicotomie vuol dire innanzitutto scostarsi da una certa cultura di “sinistra” che come purtroppo è apparso evidente in modo particolare alla conclusione del corteo, continua a vivere in modo parassitario sulle spalle di chi ancora cerca di costruire un percorso di lotta al di fuori delle gabbie sindacali in cui si è rimastai rinchiuso da svariati anni a questa parte. Il punto tre poi spiega benissimo molti dei motivi strutturali per cui i sindacati non riescono a fare un passo avanti (in caso lo volessero) sul terreno politico. Comunque, a parte queste osservazioni, è stata una manifestazione veramente ben riuscita!

  10. Comprensibili i dubbi di Federisco Stella.
    Le soggettività sarebbero “trattenute” da una certa cultura di sinistra, i cui simboli esteriori erano ben presenti, a Roma, il 16 di ottobre.

    In relazione a questa questione, che non è certo secondaria, altrove io scrivo:
    «Se grattiamo lo strato superficiale delle appartenenze e dei simboli, che in apparenza hanno caratterizzato e colorato la grande manifestazione di Roma del 16 di ottobre, affiorano queste nuove appartenenze e con loro un’inedita strutturazione sociale.
    Sotto le sigle ed i colori di numerosi soggetti e micro-soggetti politici extraparlamentari che si definiscono comunisti, ecologisti, anti-globalisti, decriscisti, si può certo nascondere un certo nostalgismo, ma questo sempre più spesso convive con la consapevolezza che è necessario costruire, e in fretta, un nuovo soggetto politico allargato, per non mancare il possibile appuntamento con la storia.
    Non si tratta, perciò, della “battaglia di retroguardia” di chi vorrebbe un ritorno al passato, né della protesta di gruppi di “estremisti” del tutto minoritari nel corpo sociale, secondo le accuse strumentali lanciate dal governo, dalla Confindustria e dai sindacati gialli, e tanto meno di un sostegno indiretto ai “morti viventi” della principale opposizione parlamentare, l’informe cartello elettorale del Pd, che aderisce alla visione neoliberista e, perciò, si è ben guardato dal partecipare alla manifestazione di Roma.
    Nuova strutturazione di classe, interessi convergenti fra il lavoro operaio e quello dei ceti medi ri-plebeizzati hanno mosso, in quella circostanza, la partecipazione.
    Il movente economico e ridistributivo ha avuto una grande importanza, nella decisione di aderire alla manifestazione di Roma, ma non è certo l’unico, perché il disagio è ben più ampio e profondo.
    L’altro movente fondamentale è la ricerca di una rappresentanza politica [...]»

    Saluti

    Eugenio Orso

  11. A mio parere, in termini di “pubblico con cui dialogare” il muro divisorio (metaforicamente parlando) andrebbe messo tra chi, pur essendo imbevuto di elementi negativi di una determinata cultura “di sinistra”, con tutte le sue numerosissime derive, continua tuttavia a credere profondamente nell’attualità e centralità della questione sociale, intesa non solo in termini puramente economicistici (peraltro in questo caso importantissimi), ma anche in termini di liberazione dall’alienazione capitalistica in nome di un diverso ordine sociale di tipo comunitario e solidale.

    Chi invece, vive ormai solo e soltanto di cultura sinistrese da salotto ed ha da tempo abbandonato qualsivoglia idea di trasformazione sociale (o al limite l’ha ridotta a puro tiepido rivendicazionismo saltuario), poiché vede come orizzonte ultimo il diritto individuale alienato dal contesto, sicuramente non è un interlocutore, o meglio lo è nella misura in cui lo è qualsiasi essere umano che può cambiare idea.

    Detto ciò, sono certo che nella vastissima manifestazione della FIOM il “primo tipo umano politico” fosse relativamente diffuso. Il dialogo va cercato con tutti costoro.

  12. La posizione di Eugenio Orso è di sicuro più ottimista della mia perchè vede nascosta dietro le varie sigle e i vari gruppetti, la consapevolezza della necessità di costruire un nuovo soggetto politico allargato. Io più che di consapevolezza parlerei di percezione, poichè la consapevolezza vera e propria di questa necessità penso sia presente solo in poche individualità sparse. Molto spesso questa consapevolezza non è altro che, a mio avviso (ma spero di sbagliarmi!), il bisogno nostalgico di una macro struttura organizzativa fondata sui vecchi paletti ideologici che sia in grado di guidare le lotte. La consapevolezza della necessità di un nuovo soggetto politico fondato sul ripensamento e il superamento delle vecchie dicotomie e delle vecchie impostazioni ideologiche in vista di una “nuova direzione paradigmatica” non penso sia poi così presente. A ciò vanno aggiunte le incrostazioni della variegata cultura di sinistra che continua a vivere ancora in forma parassitaria e che non sembrano voler demordere. Queste incrostazioni, in tutte le loro varie sfaccettature, sono a mio avviso un ostacolo e devono essere considerate da noi delle vere e proprie posizioni ideologiche reazionarie. Ripeto, spero vivamente di sbagliarmi!

    Un saluto

  13. Scrivendo l’ultimo commento e discriminando fra chi ha ancora ben presente la centralità della questione sociale e chi aleggia nell’empireo dei salotti della sinistra liberale bon ton, Lorenzo Dorato solleva opportunamente il problema che io chiamo dei tre comunismi.
    Mi spiego meglio, pur brevemente, ma state pur certi che nel prossimo futuro “romperò le scatole” in modo più articolato su questo tema.
    I tre comunsimi:
    1) Comunismo “individualista” [qui mi rifaccio a Costanzo]. Quello fallimentare che ha avuto una parte nella capitolazione davanti al modello di capitalismo liberista. E’ chiaramente fallimentare, non certo “propulsivo” e intermodale, ed ha nel suo DNA elementi dell’ideologia liberale e del Politicamente Corretto ben riconoscibili. I “diritti umani” [gli stessi per i quali ipocritamente sono stati colpiti Iraq e Afghanistan], i diritti delle minoranze agitati per mettere in ombra ciò che accade alla maggioranza, i matrimoni gay, la cacca dei cani sui marciapiedi, eccetera. In pratica, se guardiamo all’Italia – provincia malconcia di un occidente malconcio – può essere oggi simboleggiato dal SEL di Vendola.
    2) Comunismo “moltitudinario” negriano, fondato su moltitudini, produzione biopolitica e comune. E’ principalmente letterario ed appartiene, più che alla realtà della nuova era, alla trilogia Impero, Moltitudini, Comune. Lo squisito e affascinante autore ha messo in piedi un sistema concettuale non da poco, che funziona bene sul piano teorico. La trilogia in questione è quasi meglio delle Fondazioni di Isaac Asimov, ma purtroppo prescinde dall’analisi della realtà sociale … ne riparleremo.
    3) Comunismo Comunitario, la cui paternità tutti noi [credo] attribuiamo a Costanzo Preve. E’ una possibilità futura ancora da costruire, potendo effettivamente segnare il passaggio ad un nuovo modo di produzione sociale. Qui non ho bisogno di dilungarmi, visto che voi, in proposito, ne sapete più di me.
    Detto questo mi fermo.

    Saluti

    Eugenio Orso

  14. Mi sembra una distinzione molto interessante e pertiente. Io ci aggiungere il “comunismo storico di tipo collettivistico” che possiamo anche chiamare socialismo reale, ma che non é sbagliato definire comunismo storico se impostiamo la questione in termini di intenzionalità storica (lo stesso discorso vale per un Vendola o un Negri quindi o tutti o nessuno).

    Attendo con “ansia” di leggere gli sviluppi della tua distinzione.

    Lorenzo Dorato

  15. Commento sul Forum di C&C

    La manifestazione della Fiom il 16 ottobre a Roma

    La manifestazione FIOM del 16 ottobre ha visto una grande partecipazione di operai metalmeccanici e di lavoratori delle federazioni locali della CGIL che avevano dato la loro adesione. Indubbiamente è stato un successo per la FIOM, per la sinistra CGIL, e per la CGIL tutta, quindi per il sindacalismo di regime.

    Ma è solo un apparente paradosso sostenere che è lo stesso sindacalismo di regime che deve temere dal successo delle proprie iniziative.

    Segue: http://forum.politicainrete.net/comunismo-e-comunita/83738-note-sulla-manifestazione-della-fiom-del-16-ottobre.html

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