Ascesa e declino del berlusconismo. Alcune note per la comprensione di un fenomeno storico politico e culturale

mag 20th, 2011 | Di | Categoria: Politica interna
di Lorenzo Dorato
Nel recente e sostanzialmente condivisibile articolo di Piero Pagliani “Ei fu” vi sono, tra gli altri, due punti, piuttosto importanti, che mi piacerebbe approfondire.
Il primo concerne la spiegazione (per la verità solo accennata nell’articolo) dell’appoggio elettorale a Berlusconi da parte degli italiani sulla base della tendenziale difesa di pur imprecisi e vaghi interessi nazionali, magari legati in parte alla blanda salvaguardia dell’industria pubblica. Il secondo concerne invece il ruolo di Berlusconi come personaggio scomodo in merito alle scelte di politica estera energetica e commerciale.
Per ciò che concerne la vicenda dell’ascesa di Berlusconi a mio avviso la spiegazione del fenomeno va ricercata altrove. Il punto nodale della questione è l’improvvisa comparsa nel 1992 di un vuoto politico lasciato dalla fine dei partiti di massa e dell’inedita imposizione del bipolarismo (logica conseguenza del sistema maggioritario) in un Italia segnata precedentemente da un sistema politico completamente diverso. La Democrazia Cristiana (Dc) non era un partito né di destra, né di sinistra, ma aveva un profilo multiforme, insieme conservatore, “popolare” e medio-borghese. Un profilo che includeva in un patto consociativo e ideologico istanze “di destra” e istanze “di sinistra” in un amalgama in cui alla fine dei conti alcuni obiettivi sociali di massima rimanevano assodati e accettati: l’esistenza di uno stato sociale minimo, di un sistema pensionistico e sanitario pubblico, di una contrattazione equilibrata dei salariati con il mondo padronale etc etc; più in generale era solida l’idea di un sistema economico che dovesse comunque soddisfare alcune esigenze sociali fondamentali imprescindibili.
L’elettorato socialista era un elettorato in un certo senso più “moderno”, più vicino in una certa misura ad i nascenti diktat ideologici liberali degli anni 80, tendenzialmente anticomunista, ma comunque sia legato anch’esso a parametri minimi di difesa dello Stato sociale, dell’impresa pubblica e, ancora una volta, più in generale, del primato della politica sull’economia.
Già dalla fine degli anni settanta i germi ideologici del neo-liberalismo (derivato delle esigenze materiali del capitale, in particolare del capitale finanziario) con la critica all’inefficienza del pubblico, il feticcio della meritocrazia e del mercato, venivano immessi a dosi massicce in Italia con la complicità attiva degli stessi partiti politici di massa (DC, PSI e in parte lo stesso PCI da un certo momento in poi), non riuscendo tuttavia a fare piena breccia a causa di un sistema politico tutto sommato consolidato e ancorato a reti di interessi nazionali e sociali difficilmente scalfibili in poco tempo. Va detto che (e qui il mio accordo con Pagliani è totale) dietro ai graduali cambiamenti di paradigma politico-economico nella gestione del capitalismo da parte della classe politica, non vi era una semplice volontà arbitraria dei partiti di massa, né una semplice corruzione ideale (senz’altro esistente), né ancora una univoca (per quanto importante) spinta generale degli interessi capitalistici genericamente intesi verso un soffocamento delle aspirazioni popolari e della classe salariata. Vi era, più nello specifico, l’esigenza particolare di interessi capitalistici legati al mondo della finanza e dell’industria in crisi di saccheggiare l’industria pubblica e i servizi sociali arraffando profitti in quei settori non ancora toccati dall’accaparramento capitalistico.
Mani pulite accelera all’improvviso e rende evidente un processo già in atto demolendo la recalcitarnte e insieme integrata e complice classe politica della prima repubblica e spazzando via dalla storia due importanti partiti come la DC e il PSI.
L’elettorato a questo punto viene costretto dal nuovo bipolarismo all’anglosassone (in versione italiana, quindi ancora in una logica di coalizioni, prima del tentato e parzialmente fallito passaggio al bipartitismo successivo) a doversi schierare seccamente o a destra o a sinistra, paradossalmente proprio in un momento storico in cui destra e sinistra si avviavano ad omologarsi definitivamente nel pensiero unico. Si ebbe cioé il paradosso di un acuirsi “obbligato” della distinzione formalistica e mediatica tra destra e sinistra (con il forzato scompaginamento dell’elettorato DC e PSI, che univa sensibilità ed istanze miste e composite in una sintesi di forze centriste) in un contestuale svuotamento sostanziale delle identità politiche. Quando oggi si dice che all’interno di un partito come la DC le differenze tra correnti politiche erano molto più forti di quelle intercorrenti oggi tra il PD e il PDL si dice una sacrosanta verità.
Eppure, malgrado la convergenza di tutte le forze politiche entro un unico progetto neo-liberale di asservimento integrale alle dinamiche capitalistiche, l’elettorato fu costretto emotivamente a schierarsi da una parte o dall’altra. Semplicemente chi non era di sinistra doveva mettersi a destra, perché il patto consociativo DC e il “socialismo liberale ed anticomunista” del PSI smisero di esistere. O con il progressismo di sinistra post-comunista, o con la destra. Nessuna soluzione intermedia fu possibile, se non, nel profondo Nord del paese, la soluzione localistica protestataria anti-fiscale della Lega Nord.
Il successo di Berlusconi e il successo della stessa Lega Nord va letto quindi alla luce di una forzatura della naturale composizione  ideologica degli elettori italiani, di uno spaventoso vuoto politico venutosi a creare con la fine di due dei primi tre grandi partiti di massa e del conseguente ricatto disegnato dalla strettoia tra “progressismo post-comunista alleato al progressismo cattolico”  da una parte, e variegato mondo “non progressista” costituito da una buona fetta di cattolici, parte dei socialisti o semplicemente da elettori poco ideologizzati ma tendenzialmente non “di sinistra” e sicuramente non inclini a votare un partito formalmente post-comunista. Se si aggiunge poi il rapido riciclo dei post-fascisti in un partito integrato nel bipolarismo (AN), l’appiattimento si poteva dire definitivamente conchiuso.
Fu così che Berlusconi poté avere il successo che ebbe, e fu così che il tema antistatalista, antifiscale, liberista, individualista, pubblicitario nelle sue tinte grottesche, poterono diventare oggetto di una nuova egemonia culturale guidata dall’alto, un’egemonia di cui ovviamente la sinistra era parte integrante e di cui non doveva rappresentare altro che la versione colta, moderata, elegante e salottiera.
In questo senso è da respingere integralmente la tesi, insostenibile, che spiega il successo di Berlusconi negli anni 90 con l’imbarbarimento di una parte del popolo italiano, quella più incolta, manipolabile e succube delle televisioni. Il processo va esattamente invertito. Un elettorato visceralmente non collocato “a sinistra” e non “comunista”, appartenente con ogni pobabilità a diverse classi sociali, tendenzialmente malleabile, legato tuttavia a valori sociali generici di lungo periodo e di compromesso “moderato”, non ha trovato altra sponda politica possibile, nel vuoto assoluto creatosi con la fine dei partiti di massa, che in Berlusconi, come personaggio postosi in alternativa al blocco di potere progressista post-comunista. Il berlusconismo vero e proprio come insieme di messaggi, stimoli politici e valoriali, si è consolidato in seguito a partire da questa posizione di potere conseguita grazie all’esistenza del vuoto suddetto. Allo stesso modo, d’altro canto, a “sinistra” il popolo di sinistra subiva una della più straordinarie e profonde trasformazioni ideologiche e culturali dall’alto avvenuta nel ventesimo secolo. Una trasformazione più lenta e raffinata di quella che stava investendo volgarmente e (con un effetto a caduta libera) il popolo non progressista, ma egualmente incisiva. Da un lato, il cattolico moderato e conservatore o semplicemente l’uomo medio anticomunista (elettore della DC, del PSI o del MSI che fosse) veniva poco a poco persuaso del fatto che Berlusconi, malgrado tutto, poteva rappresentare il male minore rispetto ai comunisti e ai progressisti mentre contestualmente introiettava i temi decisivi della trasformazione politica economica e sociale, accettando passivamente i dogmi neo-liberali e individualisti abbandonando il vecchio profilo social-conservatore di un tempo, salvandone soltanto gli elementi estetici e i cosiddetti temi etici selettivi; allo stesso modo l’uomo medio di sinistra veniva persuaso del fatto che malgrado tutto il PDS era non solo un baluardo antiberlusconiano, ma un continuatore in salsa moderna della tradizione comunista italiana rivisitata alla luce dei tempi ormai mutati (caduta dell’Unione Sovietica, pretesa ineluttabilità della cosiddetta globalizzazione, socialismo di mercato etc etc), anche in questo introiettando di fatto poco a poco tutti i temi forti del neoliberalismo (coperti per alcuni anni da un discorso pseudo social-democratico).
L’appoggio a Berlusconi, pertanto, non fu un imbarbarimento soggettivo del popolo di destra (o meglio del popolo “non di sinistra”), né fu tuttavia (come accenna Pagliani nel suo articolo) un implicito appoggio dell’elettorato ex DCI e PSI ad una (peraltro invisibile nel discorso politico ufficiale) difesa dei residui di economia pubblica al tempo delle privatizzazioni selvagge condotte per lo più dal centro-sinistra o dai governi tecnici e poi (in effetti) frenate dal governo Berlusconi (2001-2006).
Fu soltanto il frutto naturale di un vuoto politico a sua volta effetto di un imbarbarimento oggettivo generale che il nostro paese stava complessivamente vivendo per cause profondamente strutturali e per una contestuale deriva ideologica e culturale di lungo periodo iniziata almeno venti anni prima.
D’altro canto raramente gli elettori votano in base ai propri interessi materiali puri, ammeno che tali interessi non siano correttamente interpretati e affiancati da un’ideologia suggestiva, trascinante (in  negativo o positivo che sia). Quest’ultima d’altro canto è la vera molla che spinge milioni di persone a schierarsi, a prendere parte, a sentirsi parte di qualcosa (di un fantomatico popolo di sinistra, popolo di anticomunisti, popolo di cattolici, popolo di leghisti etc etc). Se gli elettori dovessero realmente votare in base ai loro interessi materiali, centro-destra e centro-sinistra non avrebbero avuto alcuna possibilità di governare l’Italia, non dovrebbero prendere che sparuti voti alle elezioni politiche.
E non si tratta soltanto di manipolazione ideologica dall’alto. Essa esiste, ma la sua funzione è proprio quella di riempire un vuoto ideologico e simbolico che non dovrebbe esserci e che una volta costituitosi può essere riempito da qualunque forza capace di agire sulla psicologia di massa e sugli istinti essenziali incarnati nella storia politica ed emotiva delle persone. Ma la forza simbolica semplicemente non può mancare e la colpa è di chi la lascia morire o la rende asfittica, anti-popolare e distante dalle esigenze generali (non solo materiali) del popolo nel suo complesso. Questa è stata la parabola della sinistra italiana e più in generale (pur con alcune eccezioni) europea nella sua trasformazione da forza popolare capace di intercettare almeno in parte (pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni originarie) un piano simbolico ed esistenziale a forza anti-popolare che ha abdicato al ruolo di difesa delle classi subalterne e si è specializzata nell’apologia estetica dell’anticonformismo sociale anti-borghese tradizionale (ovvero ciò che di più conformista esiste in questa epoca), dividendosi poi, spesso fittiziamente, in moderata e radicale. L’anticonformismo conformista da salotto, come è noto, è ciò che le classi popolari hanno maggiormente in odio da che mondo è mondo, essendo queste ultime per definizione tradizionali e radicate e soffrendo come un’imposizione aliena l’apologia dello sradicamento e della dissoluzione sul piano microsociale (famiglia, costumi), accettandole invece più facilmente sul piano macrosociale (sistema economico e politico nel suo complesso) o sul piano parossistico e grottesco della violazione sfacciata e volgare del buon senso (Berlusconi).
L’adesione al berlusconismo, in conclusione, è stato un processo possibile soltanto nel vuoto politico causato dal crollo di un sistema nel suo complesso. Ciò che in altri paesi è avvenuto in forme più graduali e salottiere (la trasformazione dei partiti progressisti e conservatori in sovrapponibili apolegeti del neoliberalismo), in Italia è avvenuto in maniera più convulsa, casuale e improvvisata. A sinistra è avvenuta più elegantemente con il riciclaggio immediato nella sostanza e lento nell’immagine dei post-comunisti. A destra e al centro è avvenuto in maniera compulsiva e grottesca con l’entrata in scena di un uomo capace di sfruttare a proprio vantaggio la caduta di due dei primi tre partiti politici italiani. Il processo graduale che in paesi come la Francia, Spagna e l’Inghilterra ha portato al potere i pupazzi Sarkozy, Aznar e Cameron, in Italia si è verificato in maniera convulsa e veloce, e quindi farsesca con la discesa in campo del pupazzo Berlusconi. Con qualche ulteriore distinguo che vale la pena analizzare.
E giungiamo qui al secondo punto dell’analisi di Pagliani su cui nutro alcuni dubbi (pur condividendo la sostanza dell’argomentazione). Si tratta di impressioni abbastanza generali, che vale comunque la pena esternare molto brevemente.
Berlusconi, in effetti, non è e non è stato all’esordio della sua avventura politica totalmente interno a determinati salotti dominanti del capitalismo italiano, a loro volta legati per cointeressanza ad ambienti dominanti statunitensi. Ritengo del tutto plausibile che la sua discesa in campo sia stata una relativa sorpresa e che abbia inizialmente spiazzato i centri di potere capitalistici più influenti.
E’altresì vero, su un altro piano, che le responsabilità politiche dello sfascio sociale, culturale e politico attuale sono attribuibili parimenti alle due coalizioni che hanno governato l’Italia negli ultimi venti anni. L’impressione, tuttavia, è che il rapporto di piena o incrinata affidabilità tra cosiddetti poteri forti dominanti e loro uomini politici mandatari  cada in una certa misura in forma trasversale nelle due coalizioni del bipolarismo. Come spiegare la caduta del governo Prodi, chiaramente eterodiretta, con lo scandalo tirato fuori ad hoc della moglie di Mastella e il ruolo di fuggiasco traditore attribuito al solito Dini? Pressioni confindustriali interne finalizzate a tagliare le gambe ai noiosi partiti di sinistra che rallentavano le cosiddette riforme? Possibile, ma forse non del tutto esauriente vista la scarsissima capacità di tali partiti di incidere sulle scelte politiche e sulle loro tempistiche. Probabilmente ci fu anche dell’altro e si trattò proprio del rischio di una politica estera ed energetica poco favorevole all’asse atlantico-nord-americano, una politica incline a diversificare le fonti di energia e a concludere patti commerciali di enorme calibro con i russi ed i libici. Fu il governo Prodi il 22 Novembre del 2007 a favorire l’accordo ENI-Gazprom per la costituzione di una società comune per la costruzione del gasdotto SouthStream (in continuitù con alcune scelte già prese dal precedente governo Berlusconi). Fu ancora il governo Prodi a favorire l’accordo di ENI con la NOC libica per le importazioni di gas e petrolio.
Questo soltanto per dire che con ogni probabilità esiste nella politica italiana un “filone” di lunga durata, senza dubbio gravemente ridimensionato con la fine della prima repubblica, ma comunque residuale, legato a scelte di politica estera orientate alla diversificazione dei rapporti di dipendenza e amicizia (nelle fonti energetiche e nei rapporti commerciali) e non ad un totale ed indiscusso allineamento ai voleri statunitensi. Tale filone nelle sue diverse realizzazioni e intensità ha conosciuto diverse tappe nel periodo del dopoguerra, andando dalle azioni sovraniste e quasi “antimperialiste” di Enrico Mattei all’orientamento tendenzialmente filo-arabo di Andreotti e Craxi e con il passaggio alla seconda repubblica coinvolgendo marginalmente alcuni spezzoni delle due colazioni del bipolarismo (nella fattispecie Berlusconi e Prodi nelle loro recenti scelte di politiche energetica e commerciale).
Contro questo filone (che, va ripetuto, ha perso di forza e intensità con l’avvento della seconda repubblica) vi è un filone altrettanto trasversale che fa da pesante contrappeso e provvede al costante riallineamento del paese sulla linea imperiale. E’ utile specificare che i due filoni non sono contrapposti, tanto più oggi, da diverse finalità ideologico o orientamenti di fondo, ma dall’intreccio di differenti interessi e cointeressanze che per ragioni contingenti possono coincidere maggiormente con l’interesse del paese in generale. Va detto, anche, che gli stessi personaggi che oggi si trovano a prendere scelte orientate verso una maggiore indipendenza (ottenuta tramite la diversificazione della dipendenza e dei rapporti) domani potrebbero cambiare completamente orientamento se spinti in altre direzioni da pressioni, interessi e influenze. L’attuale classe politica, sia chiaro, è tutta profondamente interna alla gestione del capitalismo nella sua attuale veste “aggressiva” antipopolare, antiproduttiva e finanziaria egemonizzata dagli Stati Uniti d’America. E’chiaro che eventuali sbandature si svolgono comunque entro margini controllati e, al momento, non sono mai state il frutto di scelte oculate di fondo e di lungo periodo realmente in controtendenza (seppur ovviamente all’interno dell’orizzonte capitalistico, ben inteso). Nemmeno è possibile affermare che entro tale melma politica si siano elevate personalità di spicco capaci di assumere un punto di vista anche solo parzialmente difforme dalla linea unica.
Ciò che però è rilevante ai fini della riflessione qui proposta, è che sbandamenti, strade devianti, scelte di relativa autonomia, specie in merito alla politica estera e commerciale sono opzioni trasversali alle due coalizioni, così come trasversali sono le manifestazioni di allineamento e servilismo più fanatiche. Se è vero infatti che il centro-sinistra si è distinto per le massicce politiche di privatizzazione delle imprese pubbliche, per l’introduzione del precariato e l’avvio della distruzione del contratto nazionale di categoria e dello stato sociale (pensioni, scuola etc etc) e infine per l’approvazione della guerra in Jugoslavia, va detto che il centro-destra ha a sua volta accelerato lo smantellamento del sistema pensionistico (legge Maroni), dei servizi pubblici, dell’università, ha approvato un nuovo grave provvedimento giuslavoristico di precarizzazione del lavoro (legge Biagi) ed ha partecipato alle avventure belliche americane in Afghanistan, in Iraq ed ora persino in Libia (contro gli stessi interessi espliciti dell’ENI e non solo).
E’ chiaro quindi che la linea unica da una parte e  i parziali e temporanei sbandamenti dall’altra, sono caratteri totalmente trasversali alle due coalizioni.
Se è vero che Berlusconi è stato oggetto di attacchi anche pesanti e reiterati da parte di ambienti economici e finanziari di rilevante potere e spessore (Economist, Financial Time, Wall Street Journal) nonché da parte di ambienti politici altrettanto influenti, è altresì vero che gli stessi poteri forti (ivi compresa confindustria) hanno appoggiato Berlusconi serenamente ogni qualvolta si trattava o di favorire i processi di smantellamento del diritto del lavoro e dello Stato sociale, oppure semplicemente di porre un freno a sbandamenti occorsi nell’altra coalizione allineata (quella di centro-sinistra). Come dimenticare i feroci attacchi giornalistici del Corriere della Sera all’inettitudine in politica estera e interna del governo Prodi (intesa come scarso attivismo filo-americano)? Come dimenticare le critiche mosse al cinico ministro degli esteri D’Alema (lo stesso D’Alema messo su con il benplacito americano per bombardare il Kosovo, tanto per mostrare l’instabilità di tali rapporti di vassallaggio) dalla stampa asservita per la sua passeggiata con il capo di Hezbollah Nasrallah tra le rovine di Beirut nel 2006 dopo i bombardamenti di Israele?
In conclusione, è innegabile che Berlusconi rappresenti e abbia rappresentato un’anomalia rispetto all’ordinaria gestione del potere interna agli affidabili e quieti ambienti (mai così quieti in fin dei conti) di potere integrati nella rete degli interessi dominanti. Di qui gli attacchi anche ignobili a sfondo di gossip, le vicende giudiziarie a orologeria etc etc… Tuttavia è altrettanto innegabile che il Berlusconi degli accordi con Putin e Gheddafi, anzitutto (ma questo è chiaro a tutti) non ha mai avuto e non ha nessun briciolo di coerenza e seria continuità di linea politica,  fosse anche soltanto in termini di politica estera e commerciale; inoltre (e questo è il punto più importante e meno scontato) non rappresenta un’eccezione isolata, ma è parte integrante di un filone, trasversale alle diverse parti politiche, di tentativi di deviazione (più o meno blandi) dalla linea di integrale sudditanza agli Stati Uniti. Una trasversalità che d’altro canto è sempre esistita (basti pensare alle diverse pulsioni in tal senso esistenti all’interno di un partito come la DC).
D’altro canto, i poteri forti, sanno bene che i loro uomini più affidabili, per essere efficaci devono essere inseriti in tutti gli ambienti e in tutte le formazioni politiche (operazione tanto più facile quando un partito non ha alcuna anima ideale né alcuna prospettiva radicale di lungo periodo da difendere).
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  1. Un fenomeno politico e culturale simbolicamente iniziato il 25 aprile 1994 e chiuso il 30 maggio 2011.

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