Crisi sistemica e strategia “a pietre miliari” ai tempi di Obama e del settimo miliardo.

ago 26th, 2011 | Di | Categoria: Primo Piano

di Piero Pagliani

In varie occasioni la crisi sistemica attuale è stata collegata in modo diretto a problemi di sovrappopolazione e, per contro, di progressiva scarsità di risorse. Chi, come me, al contrario legge sia i termini demografici sia quelli fisico-naturali attraverso categorie di carattere sociale viene a volte visto come un “fissato” dei “rapporti di produzione” che non terrebbe conto dei contesti fisici nei quali tali rapporti si dispiegano. E’ un dibattito, che al di là delle etichette filosofiche o di scuola che può assumere, tocca punti nevralgici che hanno riflesso sul modo di prevedere quanto succederà e di conseguenza sul modo di intendere le lotte politiche da condurre da qui in avanti.

1. Come si genera l’«esubero»

Personalmente non ho una visione totemica dei “rapporti di produzione” e meno che mai li ho disinseriti dai loro vari limes fisici e territoriali. La mia storia politica e polemica si è sempre basata, al contrario, su uno stretto intreccio degli aspetti economici, finanziari, politici, culturali e infine fisico-spaziali. Cionondimeno non ritengo che abbia senso negare la fondatività di detta categoria, ovviamente se la si sottrae ad ogni lettura di tipo economicistico.

Cosa si intende infatti con “rapporto di produzione”? Se si intende semplicemente il rapporto capitale-lavoro come è stato inteso dalla tradizione tardo-marxista, allora penso che si sia sulla strada errata, perché tale rapporto non può mai essere considerato isolatamente né in termini di specificità analitica esclusiva né, tanto meno, di specificità politica risolutiva.

Se si intende invece, in modo più ampio, il rapporto sociale rovesciato (cioè “reificato”) per cui tutta la società è funzionalizzata all’accumulazione infinita di capitale, allora sì: questa è proprio la dimensione su cui baso la mia analisi. Ma questa è la dimensione delle catastrofi economiche, sociali e di quelle ecologiche.

E ovviamente anche di quelle “demografiche”, che esistono solo relativamente a questa dimensione: il prefisso “sovra” nel termine “sovrappopolazione” si riferisce sempre, solo ed esclusivamente ad un modo sociale di utilizzare le risorse del pianeta. E’ quindi ovvio che un sistema sociale che si basa sulla accumulazione-polarizzazione infinita di ricchezze è in grado di rendere sovrabbondante (cioè “in esubero”) qualsiasi quantità.

2. L’esempio dell’India

Sino alla seconda metà del Settecento l’India era una delle maggiori potenze economiche mondiali: incideva per il 22,6% sul PIL mondiale e per il 32% sul prodotto manifatturiero mondiale. Voltaire e gli altri intellettuali europei la descrivevano come la terra delle ricchezze, della raffinatezza e del benessere.

Dopo una settantina d’anni di dominio britannico era diventata la terra della miseria; e la miseria fu subito imputata alla sovrappopolazione. Furono mobilitati gli storici e i demografi dell’Orientalismo imperiale per sostenere questa tesi. Eppure la popolazione dell’India Miserevole non era drammaticamente aumentata rispetto a quella della vecchia India Miracolo Universale. Ciò che invece le rendeva differenti era la rapina imperiale.

Vediamo delle cifre “demografiche”, relative ai morti per carestia, ricavate dallo studio di W. S. Lilley “India and Its Problems” e relative ad un periodo in cui la popolazione indiana rimase di fatto costante (255.000 nel 1800, 271.306 nel 1900) benché con un paio di picchi di fluttuazione:
Periodo Morti per carestia
1800-1825 1.000.000
1825-1850 400.000
1850-1875 5.000.000
1875-1900 15.000.000

A queste cifre si aggiungono quelle delle carestie della prima metà del Novecento, come quella del Bengala del 1943.

E mentre il paese moriva letteralmente di fame, le esportazioni (anche di granaglie, legumi e semi oleosi!) vivevano un periodo d’oro, incrementando nel modo seguente:
Anno Valore esport. (Ml sterline)
1834 8
1855 23
1870 53
1900 69

per aumentare ancora a dismisura nella prima metà del Novecento: 137 milioni nel 1910, 250 milioni nel 1928.

I motivi di questa logica perversa li ho analizzati nel libro “Naxalbari-India. La rivoluzione nella futura terza potenza mondiale” (Mimesis, 2007). E sono motivi unicamente dovuti al sistema di liberismo rapinoso e a senso unico imposto dal Raj britannico, non ad una “logica invertita” dei contadini indiani che invece erano costretti, per via dei meccanismi di mercato e di tassazione basati sul denaro che erano stati imposti dai britannici, a mandare “al mercato le riserve di cereali che per tradizione si conservavano per gli anni di carestia” (Daniel Thorner, “Economic Development – India before 1947”. The Encyclopaedia Americana, New York, XV, 12-14, 1960).

E tanto meno sono motivi malthusiani: già nel 1878 il “Journal of the Statistical Society” rivelava che durante i precedenti 120 anni di governo britannico in India si erano riscontrate 31 carestie gravi contro le 17 dei due millenni precedenti.

La tesi della sovrappopolazione indiana ci è stata tramandata, assieme ad altre sciocchezze, fino ai giorni odierni.

Adesso le cause dei cambiamenti climatici sono additate nello sviluppo “irresponsabile” dei popolosissimi Paesi emergenti, che avrebbero la colpa di voler copiare quello occidentale, oggi fallimentare ma che tanto benessere ha portato a noi privilegiati negli ultimi 200 anni.

Per certi versi si avvolge una completa bugia in una mezza verità. E’ pur vero che da alcuni decenni i Paesi emergenti sono quelli che hanno garantito lo sviluppo capitalistico materiale del Pianeta (che è lo sviluppo che inquina), mentre i Paesi a capitalismo maturo, da decenni in recessione o in stagnazione materiale, si sono dedicati alla finanziarizzazione, che non inquina ma prepara terremoti sociali e geopolitici attraverso i quali sarà filtrato, depotenziato o viceversa moltiplicato ogni inquinamento della sfera ecologica. Ma è anche vero che noi siamo sempre i maggiori consumatori mondiali (USA in testa) e che (sempre USA in testa) abbiamo tuttora la possibilità di dettare i termini negoziali dell’accumulazione capitalistica mondiale, spingendo su leve finanziarie, diplomatiche, politiche, culturali e – last but not least – militari.

3. Gli USA e la destabilizzazione di Mediterraneo e Medio Oriente

Ciò che sta accadendo oggi lo dimostra. Dopo che gli USA e le forze/interessi europei ad essi afferenti hanno destabilizzato l’intero bacino del Mediterraneo, dalla Tunisia alla Siria, e da lì tutti i Paesi che si spingono nel cuore dell’Asia fino al Pakistan (punto nevralgico delle geostrategie mondiali), Afghanistan, Iraq e, finora con scarso successo, Iran, ora hanno sottoposto l’Europa a un attacco finanziario che solo economicisti senza speranza possono vedere collegato al debito pubblico, ma che è la forma specifica di destabilizzazione politica finalizzata a ribadire la supremazia degli USA e dei loro viceré sullo scacchiere occidentale e il divieto di concepire e men che meno praticare più o meno ardite politiche nazionali e Ostpolitik, che giocoforza devono passare per i Paesi produttori di petrolio e il loro environment arabo-musulmano ormai totalmente sconvolto.

Si capisce allora perché Osama Bin Laden sia dovuto uscire ufficialmente di scena: tutto sommato una conseguenza del famoso discorso di “riconciliazione col mondo musulmano” di Obama al Cairo.

E oggi si capisce anche a cosa è servito l’attacco dello scorso anno alla Mavi Marmara: un severo richiamo alla Turchia di non farsi trascinare troppo sul serio dal sogno panturanico che Recep Tayyip Erdoğan ha ereditato dal passato governo filoccidentale e ha riletto in forma moderatamente islamica ed equidistante. Non vorrei che gli attacchi dell’improvvisamente redivivo PKK servano a ricordare ad Erdoğan che alla fine i governi turchi sono pur sempre sotto la tutela dell’Esercito e della Magistratura kemalisti (un richiamo che sta andando a buon fine, visto il dietro-front della Turchia rispetto alla Siria e l’ormai lontanissimo ricordo della fiera indignazione di Erdoğan contro Israele dopo l’attacco a freddo alla nave turca della Freedom Flotilla).

Ovviamente in queste poche righe sto cercando di mettere assieme pezzi di una strategia che prosegue non attraverso linee chiaramente prefissate. In una crisi sempre più nevrastenica e dinamica, nemmeno gli USA possono progettare “grand strategies”.

Si procede invece per accumulo di elementi che vengono approntati a volte in modo estemporaneo, vuoi aggiustando il tiro in una determinata situazione, vuoi sfruttando un’occasione (la cosiddetta “primavera araba”, in parte subita come in Tunisia, in parte prevista e finora sfruttata, come in Egitto, e in gran parte artificialmente suscitata, come in Libia e in Siria), vuoi scatenando “inferni finanziari” (che ovviamente poi, una volta avuta la stura, seguono “leggi” parzialmente autonome, relative cioè ai giochi strategici della loro sfera specifica).

In altre parole, si cerca di tirare pragmaticamente al proprio mulino le conseguenze di eventi che solo in parte sono stati preventivati, previsti o governati, senza seguire una strategia top-down, bensì una strategia “bidirezionale a pietre miliari” (per usare una terminologia mutuata dall’Intelligenza Artificiale): dall’alto e dal basso, dagli obiettivi e dai dati disponibili, contemporaneamente, badando però che le linee si incrocino in determinati punti (le “pietre miliari”) considerati imprescindibili (ad esempio il controllo sulle fonti energetiche o l’isolamento della Russia – ovviamente quella di Putin, non quella di Medvedev).

George “Dubia” Bush e i neocons avevano invece in testa una maschia strategia top-down: bisogna conquistare questo, quello e quell’altro, secondo una tabella di marcia prestabilita. Ma già con l’ultimo anno della seconda amministrazione Bush, ci si accorse definitivamente che le cose non andavano per il loro verso.

Il feroce Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, fu sostituito col pragmatico Robert Gates, che l’ancor più pragmatico Barack Obama ha tenuto in carica fino ad aprile, con buona pace di chi vedeva nel “presidente nero” un redentore.

In realtà Obama è l’uomo giusto al momento giusto, che ha proseguito la transizione di strategia iniziata dall’ultimissimo Bush, passando dall’aperta conquista in nome della Lotta contro il Male, ad un ragionevole “leading from behind”, versione dello “speak softly and carry a big stick; you will go far” (“parla piano ma gira col bastone; andrai lontano”) attribuito a Theodore Roosevelt.

Il fine è sempre lo stesso: la supremazia planetaria degli USA, l’unica condizione che possa permettere al Paese più indebitato del mondo di ergersi come virtuoso sacerdote dell’ordine mondiale e non finire invece in una situazione di guerra civile, una volta che si è scoperto che il re è nudo.

Ma anche, se gli equilibri mondiali non cambiano radicalmente, l’unica condizione per evitare una situazione di caos mondiale. Questo è il secondo punto di forza statunitense. Se impediranno che gli altri Paesi organizzino una governance mondiale, nella quale gli USA sarebbero solo inter pares e nemmeno primi, il ricatto può continuare a funzionare.

Una sfida politica giocata con elementi militari, culturali, diplomatici e finanziari (e, sia detto per inciso, uno dei motivi principali per attaccare selvaggiamente Gheddafi e i suoi progetti di moneta unica africana).

4. I limiti e i conflitti da ora in poi

Questo quadro è un omaggio al concetto di “rapporto di produzione”? Forse sì, forse no. Basta intendersi.

In questo quadro sette miliardi di esseri umani sono un fattore assoluto? Ne dubito. Nel senso che questi sette miliardi, come le risorse disponibili (che tra l’altro sono sia “risorse” sia “disponibili” solo in relazione ad un rapporto sociale) sono pur sempre suddivisi in Paesi ricchi, poveri, centrali, periferici, emersi, emergenti, dominanti, subdominanti, dominati, vincenti e sconfitti. Sono cioè separati da quegli elementi che caratterizzeranno i conflitti che plasmeranno la nostra era, da qui in poi.

Potremmo parlare analiticamente di “popolazione mondiale” e di “risorse mondiali” in termini assoluti solo se questi vari limes spaziali, politici, sociali e geopolitici continuamente messi in discussione, ribaditi o rimossi, non ci fossero definitivamente più (così come, sia detto tra parentesi, solo in quel caso acquisterebbe un senso il concetto di “moltitudine”).

Ma dato che ciò non è, ben altri saranno i problemi che affliggeranno popolazione e risorse mondiali ben prima della rilevanza delle loro quantità assolute. In termini concreti, lungi dal negare l’esistenza di limiti fisici assoluti, affermo che le conseguenze di detti limiti potrebbero essere persino anticipate da quelle dinamiche.

In modo un po’ paradossale, ciò che è assoluto potrebbe essere anticipato da ciò che è relativo.

Ne potremo, e ne dobbiamo, quindi parlare politicamente per contrastare un’uscita dalla crisi sistemica mondiale attraverso i meccanismi finora obbligatoriamente utilizzati dal capitalismo: conflitti internazionali e mobilitazione a scala ancora più estesa di risorse naturali e sociali che essendo finalizzate all’accumulazione senza fine, inevitabilmente sarebbero bruciate in un lasso di tempo ancora minore, facendoci avvicinare ulteriormente ad una situazione di collasso, ovvero di caos mercantilistico, politico, sociale ed ecologico.

Ma non possiamo farlo contrapponendo una supposta “sovrappopolazione” ad un supposto “modello di sviluppo”. Abbiamo visto che quel “modello di sviluppo” ha potuto dichiarare in esubero, decretandone la morte, milioni di abitanti di una nazione che il secolo successivo, col doppio di abitanti ma col controllo sulle proprie risorse, è risuscita negli anni Settanta a giungere all’autosufficienza alimentare.

Ora quell’autosufficienza è stata persa. Per via dell’ulteriore incremento di popolazione? Nemmeno per sogno: per via della New Agricoltural Policy, impostata dai governi progressisti del Congresso con l’appoggio dei Comunisti, proseguita da quelli reazionari nazionalisti indù, e continuata dall’attuale governo del Congresso, con l’obiettivo pubblicizzato di far diventare l’India il più grande esportatore di prodotti agricoli del mondo.

Un esempio lampante della relazione tra risorse, popolazione e rapporti sociali.

Prince-PhilipL’ecologia esiste solo in rapporto al genere umano, cioè al genere dell’animale politico, sociale e dotato di logos. A me dell’ecologia senza genere umano non interessa un bel nulla perché è solo un nonsense (che piace al Principe Filippo, cofondatore del WWF – incidentalmente assieme al Principe Bernardo d’Olanda, primo presidente del Gruppo Bilderberg – che vorrebbe reincarnarsi in un “virus letale per eliminare la sovrappopolazione”: che Dio, quindi, lo preservi a lungo).

Infine, come ultimo esempio, se a milioni e milioni le persone hanno accettato/subito ed ancora accettano/subiscono di porre termine al proprio orizzonte ecologico ed essere mandate in guerra per ammazzare e farsi ammazzare, vuol dire che in qualche modo prima della sfera ecologica c’è la sfera sociale.

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