Brevi note sulla ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia e sulla riforma del diritto del lavoro.

lug 17th, 2009 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

di Giovanni De Francesco

Da diversi anni è in corso un progetto di ristrutturazione generale del mercato del lavoro presentato ufficialmente come politica di sviluppo economico del Paese. Questo deve passare attraverso la creazione di nuovi mercati per le imprese con la competitività dei prodotti. Competitività che significa vendita dei prodotti a prezzi inferiori di quelli di altre imprese.

Nel ciclo produttivo l’unica variante su cui incidere per ridurre il prezzo di un prodotto è il costo della manodopera. La competitività passa, pertanto, attraverso la riduzione del costo della manodopera. Non a caso una delle accuse che da diverso tempo viene rivolta ai lavoratori italiani è quella che costano troppo per le imprese.

Il progetto che sta passando in Italia prevede l’eliminazione di tutte quelle cause e, cioè, i diritti dei lavoratori, che non permettono facilmente alle imprese di ridurre il costo del lavoro. L’obiettivo è l’abolizione totale delle garanzie retributive e della stabilità del posto di lavoro.

Ciò sta avvenendo mediante la previsione e l’applicazione dell’istituto della flessibilità, che in pratica significa piena discrezionalità del datore di lavoro nell’instaurazione, nell’esecuzione e nello sviluppo del rapporto di lavoro, sottoponendo i lavoratori a qualsiasi ricatto. In sostanza, legalizzazione del lavoro nero.

L’istaurazione del rapporto di lavoro, fino a qualche anno fa, doveva avvenire per legge esclusivamente tramite l’Ufficio di Collocamento in modo che il padrone non scegliesse a suo piacimento i dipendenti. Scelta che avrebbe comportato la ricattabilità sul posto di lavoro e l’esclusione in anticipo dei lavoratori conosciuti come sindacalizzati o semplicemente ricorrenti in giudizi davanti al Giudice del Lavoro in precedenti rapporti.

Il padrone doveva assumere i lavoratori avviati dal collocamento in base ad una graduatoria trasparente per soddisfare la sua esigenza di manodopera indipendentemente dalla personalità del lavoratore (sesso, razza, religione, appartenenza politica sindacale, ecc.).

Con il pacchetto Treu del 1997 prima e con la legge Biagi del 2003 poi, il collocamento è stato abolito ed il padrone può assumere a sua discrezione.

La retribuzione minima contrattuale, finora individuata in quella prevista dai singoli contratti collettivi nazionali, sarà abolita (riforma dell’art. 36 della Costituzione). Saranno altresì aboliti tutti gli istituti collaterali alla retribuzione. Quindi abolizione della gratifica e delle mensilità aggiuntive (13ma e 14ma), del T.F.R. (liquidazione), delle ferie e dei permessi retribuiti, l’astensione durante la gravidanza e la maternità, l’assicurazione previdenza e contro le malattie e gli infortuni, e tutte le altre indennità e garanzie.

La retribuzione sarà stabilita unicamente dal datore di lavoro e sarà onnicomprensiva. Con quanto percepito il lavoratore dovrà stipulare, se vorrà, contratti personali assicurativi per la pensione, la malattia, gli infortuni. Se vorrà metterà soldi da parte per pagarsi la sospensione feriale, i giorni non lavorati, i periodi di malattia, ecc. Altrimenti non percepirà nulla in quanto l’unico effetto scaturente dal rapporto di lavoro, cioè, l’unico diritto che ha, è la retribuzione mensile decisa dal datore.

Dal punto di vista giuridico, nessun lavoratore potrà più proporre una causa di lavoro per differenze retributive, in pratica nessuno potrà fare vertenza al padrone.

La paga mensile corrisposta al lavoratore costituirà per il datore l’unico costo della manodopera (abolizione della differenza tra costo lordo e costo netto). Ciò faciliterà non solo i programmi dell’azienda sul costo del prodotto, ma anche la commerciabilità dell’azienda stessa.

Nel frattempo di una esplicita abrogazione dell’art. 36 Cost. e della contrattazione collettiva, sono state già avviate delle riforme parziali in tal senso. A partire dagli anni novanta, sono state varate delle norme che hanno permesso la riduzione della retribuzione minima e l’abolizione delle garanzie retributive e di stabilità. Si pensi ai contratti d’area, ai patti territoriali, ai lavoratori socialmente utili (legge “Bertinotti”), ai lavoratori coordinati ed, oggi, a progetto (legge Biagi).

Verranno aboliti gli istituti contrattuali sul lavoro a tempo indeterminato, sul tempo pieno, sui trasferimenti e sui licenziamenti.

Non esisterà più stabilità e costanza del posto di lavoro in quanto da un lato il datore di lavoro potrà stipulare senza nessun ostacolo contratti a tempo determinato (anche di un anno, di un mese o di una settimana alla volta), dall’altro verranno riconosciute maggiori ragioni di soppressione del posto di lavoro anche prima della scadenza stessa del contratto a tempo. In sostanza sarà ripristinato per tutti il licenziamento ad nutum.

In tal senso è stato emanato il D. lgs. n. 368/01 che liberalizza il contratto a termine ed abolisce il divieto sancito dalla legge n. 230/62.

Il contratto a termine, infatti, era vietato in quanto palesemente ricattatorio nei confronti del lavoratore.

Parimenti è stato abolito il divieto di riduzione dell’orario di lavoro. Oggi il part time è stato liberalizzato con la legge Biagi, sottoponendo a ricatto i lavoratori che hanno necessità di conseguire il salario minimo.

Il livello di sfruttamento della manodopera, indicato come produttività, è stato aumentato grazie il D.lgs. n. 66/03 con il quale è stato abolito il limite massimo dell’orario di lavoro giornaliero.

In seguito alle giornate del Primo Maggio e dell’8 Marzo, la comunità internazionale del secolo scorso aveva dovuto accogliere l’istanza di fissazione del limite massimo del lavoro giornaliero in otto ore. Tale indicazione è stata recepita dall’ordinamento italiano del governo fascista con il Regio Decreto L. n. 692/23. Con successivi interventi veniva limitato l’orario massimo del lavoro settimanale in 40 ore con divieto eccezionalmente derogabile del lavoro straordinario.

La motivazione principale del limite dell’orario ad otto ore al giorno consisteva nel rimedio ai numerosi incidenti anche mortali sul lavoro spesso causati dalla stanchezza, dalla faticosità protratta e dalla mancanza di lucidità.

Ora, dal 2003, il limite stabilito da una legge fascista è stato abolito ed il lavoratore può essere costretto a svolgere un orario di lavoro ordinario di dodici ore al giorno se full time e di sedici ore al giorno se part time. Con l’accordo del 23 luglio 2007 è previsto di poter richiedere le sedici ore al giorno anche per i lavoratori full time.

L’aumento degli incidenti anche mortali sul lavoro e delle malattie professionali sono cronaca di tutti i giorni alle quali ha sicuramente contribuito anche l’abolizione del divieto del subappalto di manodopera.

Gli incidenti e le malattie sul lavoro, infatti, sono causati spesso dalla precarietà delle condizioni di lavoro a cui sono maggiormente esposti i lavoratori “affittati” o dipendenti da ditte subappaltarici.

Per eliminare tale causa, è stata emanata la legge 1369/60 che vietava queste forme di utilizzo dei lavoratori.

Ora, prima con il pacchetto Treu del 1997 con il lavoro interinale, poi con la legge Biagi del 2003 con il lavoro a somministrazione, tale legge è stata abolita ed è stato liberalizzato l’affitto dei lavoratori.

In questo quadro di precarietà delle condizioni di lavoro si inseriscono anche le norme sulla cessione e affitto di azienda o ramo di essa.

In pratica, le misure sulla tutela del lavoratore dagli infortuni e dalle malattie sono considerate nell’economia e nei bilanci aziendali come “capitale morto”, non produttivo, ed i loro costi incidono negativamente sul prezzo del prodotto o servizio venduto, rendendolo meno competitivo o riducendo il profitto aziendale.

L’abolizione delle norme poste a tutela della salute e della vita dei lavoratori – effettuata, tra l’altro, con il D. lgs. 66/03 e la legge Biagi – sono considerate iniziative per lo sviluppo economico e per la competitività.

L’introduzione dell’istituto della “mobilità” obbliga i lavoratori ad essere trasferiti, spostati da una sede all’altra come un macchinario facilitando, così, l’organizzazione aziendale.

Completano il quadro la privatizzazione della previdenza e dell’assistenza contro gli infortuni.

La “facoltà” ed il silenzio assenso di conferire il TFR ai fondi pensione varata nel 2007 è un primo passo verso l’abolizione della liquidazione e delle pensioni così come già avviata con l’accordo del 23 luglio 2007.

Chiaramente i lavoratori che accetteranno l’imposizione di questa ristrutturazione e salari ancora più bassi, avranno maggiori garanzie lavorative e maggiori possibilità per evitare di essere licenziati o di rimanere disoccupati.

Così, se i lavoratori italiani accetteranno salari più bassi dei lavoratori francesi, le imprese transalpine investiranno in Italia aprendo nuove fabbriche. Se i lavoratori meridionali accetteranno un salario inferiore a quello del nord, le imprese si sposteranno nel sud. Se i lavoratori di una zona del sud accetteranno una riduzione di salario rispetto a quello di un’altra zona del sud, le imprese si sposteranno in quella zona. Se i lavoratori di un’azienda accetteranno un salario inferiore di quello percepito dai lavoratori di un’altra azienda concorrente, avranno maggiore possibilità di non essere licenziati. Ciò sta già avvenendo non solo con le riforme federaliste ma, soprattutto, con i patti territoriali ed i patti di aree di sviluppo (ben accettati da BASSOLINO e CITO affermando il superamento del federalismo e l’imposizione del municipalismo).

Nel meridione, dove i disoccupati sono il 15,2% della forza lavoro, la retribuzione è già meno della metà di quella del settentrione dove i disoccupati sono il 3,7%.

E’ chiaro che i settori più interessati a questo discorso sono quelli nella cui produzione incide fortemente il costo della manodopera. Ciò non sarà per le aziende chimiche in cui il costo del lavoro incide solo per il 15-20% sui costi totali. Infatti, le aziende chimiche difficilmente sono trasferite nelle zone a basso costo di manodopera e nel meridione a differenza di quanto già avviene per il settore tessile, calzaturiero, delle confezioni e manifatturiero in genere le quali hanno da tempo provveduto a delocalizzare le loro imprese.

Il Governo ed il padronato impongono questa politica propagandando l’aumento dell’occupazione (ci sarà posto di lavoro per tutti; per due soldi ma per tutti) e la maggiore competitività dei prodotti italiani e minacciando di delocalizzare le aziende in altre parti del mondo (Europa dell’Est, Africa ed estremo oriente asiatico) dove i lavoratori – tra cui i bambini – vengono pagati anche con un solo euro al giorno e chi protesta viene anche assassinato.

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