Sulle recenti posizioni di Paolo Ferrero e Gianfranco La grassa

ott 18th, 2011 | Di | Categoria: Dibattito Politico
di Costanzo Preve

Sono stato abbastanza colpito dal fatto che Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione Comunista, e quindi un personaggio di rilievo pubblico, continui a difendere la vecchia tesi operaista dei primi anni Sessanta per cui “questo capitalismo finanziario nasce come risposta al ciclo di lotte e alla forza dei lavoratori negli anni Sessanta e Settanta” (Cfr. “Liberazione”, 9 ottobre 2011). In altre parole, la globalizzazione finanziaria di oggi non sarebbe uno sviluppo della logica di espansione del capitale, ma una “risposta” all’insubordinazione della classe operaia fordista. E ancora: “Il neoliberismo è la modalità con cui il capitale riprende il comando”. E ancora: “Questo nuovo capitalismo finanziario nasce come risposta capitalistica al più grande ciclo di lotte che si sia mai visto in epoca moderna, con l’obiettivo di svincolare il capitale dalla forza del movimento dei lavoratori”. E potremmo continuare.

Ferrero non è l’ultimo arrivato, ma è un militante di lungo corso. Il fatto che il 9 ottobre 2011 continui a “spiegare” la crisi capitalistica con il modello dell’operaismo italiano dei primi anni Sessanta dimostra abbondantemente che questo modello teorico è stato sempre l’unico dominante nel cosiddetto “marxismo italiano” dell’ultimo mezzo secolo. Il problema è allora: quali sono le conseguenze?

Le conseguenze sono molte, ma in questa sede, per ragioni di spazio, le compendierò così: sotto l’etichetta di “comunismo” in Italia continua a dominare una somma di economicismo rivoluzionario, ingentilito e insaporito dal “politicamente corretto” (femminismo di genere, pacifismo rituale e declamatorio, innocua retorica sui cosiddetti “beni comuni”, polemica con il cattolicesimo organizzato identificato con l’omofobia, la misoginia e il patriarcalismo, eccetera).

Il motore dinamico della storia viene identificato nelle lotte operaie, cui il capitalismo “risponde”, evidentemente con lo scopo primario di indebolirle. Si tratta di una variante sindacalistica della stessa teoria delle Moltitudini di Negri e Hardt, che ha però lo stesso codice teorico: c’è un soggetto agente primario (la classe operaia per Ferrero, le moltitudini per Negri), cui in seconda battuta risponde il capitale. Evidentemente la finanziarizzazione è una tecnica per indebolire Gasparazzo, il noto operaio-massa. Leggere per credere.

Una simile concezione schematica e semplificata del mondo deve necessariamente essere “arricchita” di elementi culturali, che vengono tratti dalla critica futuristica della società piccolo-borghese, e che sono indistinguibili dalla cultura “radicale” Pannella-Bonino, di cui “Repubblica” dà una versione compatibile con la cosiddetta “secolarizzazione”. In questo senso l’economicismo (struttura) viene integrato dal politicamente corretto di “sinistra” (sovrastruttura), e questa fusione viene proposta come piattaforma per la rifondazione del “comunismo” (addirittura!).

Ho già scritto due brevi interventi sui documenti congressuali del PRC, ma in essi mi ero limitato a criticare una “linea politica”, quella dell’alleanza elettorale subalterna con il PD. So bene che i politici amano parlare di “cultura” quando essa è politicamente innocua, ma reagiscono furiosamente quando gli si tocca la “linea politica” che per loro è come il denaro per i capitalisti. Ora, però, tocco un problema che mi interessa molto di più della minestra parlamentare, il problema della concezione globale della crisi capitalistica. Vederla ridotta a una “risposta” ad un ciclo di lotte certamente importanti, ma storicamente non molto rilevanti rispetto a fenomeni storici e geopolitici macroscopici, mi fa capire che ormai mancano i cosiddetti “fondamentali”.

Nell’ultimo cinquantennio il solo “economista” marxista italiano che si è opposto a questo codice è stato il mio amico Gianfranco La Grassa. Non a caso è sempre stato inascoltato, in quanto non era “utilizzabile” per un simile modello di spiegazione privo di fondamenti sia storici che economici. Ma questo comporterebbe un’ennesima ricapitolazione dei dibattiti “marxisti”, o presunti tali, dell’ultimo cinquantennio. Essa è impossibile in questa sede.

Spiace quindi che nel suo ultimo lavoro (Cfr. Oltre l’orizzonte, Besa ed.) La Grassa getti al vento la sua teoria conflittuale e strategica del capitalismo (tanto più seria del modello Negri-Ferrero) con dichiarazioni apocalittiche sulla morte del marxismo e del comunismo. Eppure, questo suo necrologio non manca d’interesse se si prendono in esame le sue motivazioni.

Il marxismo è morto perché La Grassa lo riduce alla centralità della teoria del valore-lavoro, che Marx non avrebbe sviluppato nel senso di Smith e Ricardo, sulla base del tempo di lavoro sociale medio come criterio di distribuzione ineguale del prodotto; ma avrebbe “svelato” nel senso della diseguaglianza del rapporto fra capitalista e lavoratore salariato. Per La Grassa questa teoria è solo uno “svelamento”, ma non serve come criterio storico e politico per determinare il rapporto diseguale fra dominanti e dominati. Questo rapporto si stabilisce per via strategica, non economica.

Il comunismo è morto perché per La Grassa è stato scientificamente falsificato (nel senso di Popper) dal fatto che non si è mai formato il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal primo ingegnere all’ultimo manovale, che Marx aveva ipotizzato come precondizione “scientifica” irrinunciabile del comunismo stesso, che altrimenti diventa una “fanfaluca” umanistica per bambini creduloni.

Dunque, amen per tutti e due. A questo punto, visto il suo odio per l’umanesimo e il moralismo, nessuno capisce perché La Grassa continua a “tifare” per la forza geopolitica della Russia o della Cina contro gli USA. Evidentemente questo odiatore althusseriano dell’umanesimo continua a ritenere “disumano” il dominio unipolare degli USA. Ma questa contraddizione bisogna rivolgerla a lui, sperando che come di consueto non risponda con pittoreschi insulti e invettive. Per chi come me è esperto nella storia del marxismo si ripete il dramma satiresco di trent’anni fa di Lucio Colletti: marxismo e comunismo vengono dichiarati defunti per ragioni epistemologiche. Alla fine gli odiatori della filosofia come forma di conoscenza veritativa della realtà giungono tutti alla stessa conclusione, ed è solo un “gusto personale” che uno auspichi la vittoria degli USA e l’altro invece il contrario.

La questione di Ferrero è invece molto più importante. Ho già avuto modo di sostenere nei miei due interventi a proposito dei documenti congressuali del PRC il mio disaccordo con la linea politica del “pregare Bersani per essere caricati a bordo”, che ritengo incompatibile con una rifondazione comunista, ma solo con una “innocua affabulazione retorica comunista”. Non credo nell’uso popolare dell’antiberlusconismo, ma questo l’ho già detto e qui non mi ripeto.

La teoria operaista della “risposta” del capitale alle lotte operaie, riproposta da Ferrero, non capisce che la dinamica del capitale è illimitata (Marx), ed è questa illimitatezza interna a spingerlo sempre oltre i liovelli di sottomissione precedenti, non certamente le “resistenze” operaie e proletarie, che nella storia dello sviluppo capitalistico globale hanno sempre avuto un ruolo minore, oserei dire minimo (sperando di non ricevere gli insulti degli operaisti puri). Marx è stato a suo tempo molto chiaro sul carattere illimitato della produzione capitalistica, e l’ha sempre connotata come l’elemento differenziale con le classi dominanti precedenti (padroni schiavisti, signori feudali, boiardi valacchi, eccetera). Il capitale ha una dinamica impersonale di espansione tendenzialmente illimitata, e questo lo porta a sottomettere sempre maggiori ambiti della produzione globale. Cito qui alla rinfusa Bourdieu, Bauman, Lasch, Heidegger, eccetera, ma è inutile scomodare tutti costoro con un operaista negriano moderato parlamentare. In questo contesto dinamico le cosiddette “lotte”, pur benvenute, hanno l’effetto di una piuma. Quantificandole, che un buon 5% è già una misura accettabile.

So bene che questo è come bestemmiare in chiesa per il buon popolo di sinistra, cui non si possono togliere due cose: il mito della FIOM e il matrimonio gay. Sfugge il fatto che nella cultura del Sant’Uffizio di Sinistra, e cioè del “Manifesto”, le due cose sono segretamente collegate. Da un lato, la dinamica sociale è sempre da mezzo secolo pensata e ricostruita come “risposta” di cattivi capitalisti (alcuni cafoni come Berlusconi, altri educati come la Marcegaglia) alle meravigliose lotte dei lavoratori. Dall’altro, il progresso verso un fantomatico e mai definito comunismo è pensato come individualizzazione integrale della società e come distruzione delle realtà “intermedie” (famiglia, religione, stato, nazione, eccetera). E tutto questo è chiamato rifondazione del comunismo.

La somma di economicismo conflittuale e di politicamente corretto definisce un profilo culturale del popolo di sinistra che allo stato attuale considero irriformabile. E’ un’intera cultura che dovrà essere rifondata, e sarà lunga. Nel frattempo, come direbbe Eduardo De Filippo, ha da passare la nottata.

ANNESSO

Il lettore avrà capito che la polemica con Ferrero e con La Grassa non è per nulla personale e personalizzata, ma è rivolta a richiamare l’interesse sul concetto di capitale. Dimmi che cosa pensi che sia il capitale, anche con parole semplici e poco specialistiche, e ti dirò a cosa alludi quando parli di comunismo. Troppo a lungo si è permesso che essere comunisti si identificasse con il “sentirsi oggettivamente comunisti”; il che può certo essere tollerato (in fondo, per dichiararsi comunisti non c’è bisogno di superare un esame universitario di storia, economia e filosofia), ma non contribuisce a superare la confusione e la cacofonia, oltre che il settarismo, malattia professionale dei comunisti identitari.

La Grassa è un professore universitario in pensione completamente isolato, titolare di un blog di nicchia, del tutto estraneo al jet-set dei cosiddetti “intellettuali di sinistra” (ed è stata la sua fortuna e la sua grandezza). Invece Ferrero occupa un posto di una certa importanza, dal quale può orientare o disorientare molte persone, giovani, di mezza età e anziani. Per questo il suo concetto di “capitale” riveste una certa importanza.

Concepire il Capitale, e quello finanziario globalizzato in particolare, come “risposta” a un ciclo di lotte, anziché come processo di espansione illimitata in tutti i campi della vita, relativamente indipendente dagli ostacoli postigli dai salariati (si tratta di pietre sull’autostrada, non di sbarramenti strategici alla circolazione), va addirittura contro alle stesse concezioni propugnate da un Ferrero. Prendiamo a esempio il movimento NoTAV, che personalmente approvo pienamente, per ragioni che non sto qui a ripetere. I NoTAV si oppongono a una certa concezione globale della produzione e della circolazione delle merci che non ha assolutamente nulla a che vedere con la concezione del capitalismo come “risposta” alle lotte operaie. E potremmo fare decine di altri esempi.

Ma è inutile. I monopolisti del “pensiero di sinistra” non hanno nessuna intenzione di aprire una vera discussione a 180 gradi, l’unica utile per una “rifondazione comunista”. Ed è un vero peccato. Si autoconvocano continuamente fra di loro (le famose discussioni sulla “sinistra”), quando sono in buona parte loro il problema. Ma quando mai il problema può essere la soluzione?

Torino, 11 ottobre 2011

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5 commenti
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  1. Una critica a Preve dall’amico Moracchi, quante discussioni sul famoso “soggetto”, mi sbaglio o la categoria della Comunità serviva a questo?
    http://stefanomoracchi.blogspot.com/2011/10/i-tempi-sono-maturi-ma-i-frutti-sono.html

  2. Una sola “glossa” a questa giusta ricostruzione di Preve.
    La crisi attuale nasce più o meno negli anni Sessanta e si conclama la prima volta col famoso “Nixon Shock” del 15 agosto del 1971. Secondo Giovanni Arrighi e altri autori come David Harvey, è una crisi di sovraccumulazione collegata a scosse telluriche geostrategiche, e la finanziarizzazione serve proprio a non macellare i capitali sovraccumulati.
    Quindi la finanziarizzazione è la risposta di fondo a questa crisi. Ed è da qui che essa parte, non come una risposta alle lotte operaie (e nemmeno agli ancora lontani limiti ecologici, – e sono ancora talmente lontani *nell’unica ottica disponbile al capitale, cioè la valorizzazione infinita*, che non si è prodotto così tanto nel mondo proprio come oggi).
    Però a partire dalla fine degli anni Sessanta, in tutto il mondo occidentale, i salari che prima avevano raggiunto la produttività, iniziano a superarla. In più si fanno sentire gli effetti delle lotte di liberazione nazionale e della prevedibile sconfitta nel Vietnam che precluderà agli USA il predominio sull’Asia (esclusione di cui oggi gode la Cina).
    Con Reagan e poi la Thatcher il capitale parte al contrattacco in tutto il mondo per rialzare i tassi di plusvalore. Ed essi, e in misura minore i tassi di profitto, effettivamente si rialzano. In questo senso la “lotta di classe” contro i lavoratori è una seconda risposta alla crisi. Ma proprio come tentativo di ritornare almeno in parte a investimenti produttivi profittevoli al posto degli investimenti finanziari. Quindi tutto il contrario della narrazione negriana.
    Però a quel punto si innesca anche una crisi di sovrapproduzione, che aggrava lo stato permanente di sovraccumulazione. E quindi la finanziarizzazione permane, ingigantendosi; a questo punto anche a causa della sconfitta del movimento operaio del periodo “keynesiano” postbellico, non a causa della sua vittoria. Ancora una volta il contrario della narrazione negriana.
    Infine, come terza misura anticrisi, il capitale si dedica alla doppia manovra seguente: prima svalorizzazione del capitale dei Paesi da depredare, poi loro acquisizione a prezzi di realizzo. Tipicamente si depredano il dominio pubblico e i gioielli degli altri Paesi.
    All’inizio di quelli più sfigati e politicamente deboli (vi ricordate i nostri slogan contro il debito al G8 di Genova?). Ora anche dei Paesi dello stesso Gotha capitalistico occidentale, come una sorta di Conte Ugolino, a partire dalle sue classi subalterne.
    E siamo così giunti all’oggi.

    Piotr

  3. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-10-20/libia-canta-vittoria-presa-130300.shtml?uuid=AafgZUEE

  4. Mi dispiace non essere stavolta d’accordo con Costanzo preve, perché, forse a torto, mi considero un suo seguace. Mi riferisco quì alla parte dedicata a Paolo Ferrero, lasciando ad altri commentare la sezione dedicata a La Grassa. Costanzo quì sembra non accorgersi che c’è un cambiamento nella prospettiva di Ferrero. Fino a qualche tempo fa Ferrero, come l’operaista torinese Marco Revelli, ed altri, riduceva la svolta nei rapporti di classe negli anni’80 alla sconfitta dell’80 ai cancelli della Fiat. Quindi, effettuava realmente una riduzione operaista del conflitto di classe. Stavolta, e mi sembra una novità, connette il cambiamento dei rapporti di classe alla svolta globalista, e non mi sembra una cosa da poco. Perché questo apre la possibilità di una riconsiderazione della nuova centralità della questione della sovranità nazionale, della questione nazionale, dei nuovi soggetti che possono opporsi al “capitalismo assoluto”. E non è “operaismo”. Sarebbe stato tale se Ferrero avese riproposto la visione Trontiana del asalario come variabile indipendente, o se avesse immaginato l’insurrezione delle moltitudini come conseguenza della globalizzazione del movimento del capitale. Ma quì non c’è niente di questo. C’è un’analisi che ha un fondamento. Preve glissa sul conflitto di classe degli anni’70 riducendolo a “un sasso sull’autostrada del capitale”. Ma era solo un sasso la crisi di profittabilità di tutto il capitalismo occidentale fra gli anni ’60 e ’70? Era solo un sasso la fortissima redistribuzione del reddito verso il lavoro dipendente in Italia fra il ’69 e il ’73 (vedi Valli, Politica Economica)? Era solo un sasso l’impossibilità per il capitale di governare la grande fabbrica? Era solo un sasso la fine del compromesso keynesiano fatta di spesa pubblica in deficit e produzione di massa? Evidentemente, no. Il fatto che il movimento del capitale sia illimitato, quì non c’entra. E’ l’importante distinzione previana fra modo di produzione, illimitato, e società capitalistiche, che sono invece limitate. Eliminando l’analisi sociale Costanzo riduce l’opposizione al capitalismo ad una opposizione di solo tipo filosofico, che però riduce all’impotenza perché impedisce di distinguere fra diversi capitalismi entro i quali una transizione si dovrà comunque muovere. Eliminando l’analisi sociale Costanzo impedisce perfino di comprendere perché la necessità che lui stesso pone, di ragionare in termini di opposizione fra un terzo stato fatto di lavoratori e piccola borghesia, e l’aristocrazia della finanza accompagnata dal clero della magistratura e dell’informazione, sia necessaria.

    Alessandro Chiavacci

  5. Che fatica leggere l’articolo e i commenti annessi, tutti puntuali, profondi, articolati per carità. Il capitale, però, se ho ben ho capito, tutti – Preve, Ferrero, Negri e gli altri in quantità – lo voglion distruggere a colpi di mal di testa.

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