Comunismo fra Idea e Storia. Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa.

nov 7th, 2011 | Di | Categoria: Teoria e critica

di Costanzo Preve

Torino, ottobre 2011

1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l’identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l’idea e la pratica del comunismo. In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L’ idea di comunismo, Derive e Approdi, d’ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d’ora in poi GLG) concerne invece solo l’ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent’anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.

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3 commenti
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  1. Vi faccio notare che nel punto 15 dello scritto di Preve c’è da correggere ‘Furettini’ in ‘Furet’:

    “Si giunge così alle stesse conclusioni di un Nolte e di un Furetti: socialismo reale come impresa criminale.”

    Un caro saluto

  2. [...] uno scritto che è stato messo in rete (cfr. Comunismo fra Idea e Storia), ma che desidererei fosse stampato per renderlo più “stabile”, ho fatto [...]

  3. Caro Preve,

    ho letto su Comunismo e Comunità il tuo articolo intiolato «Comunismo fra Idea e Storia. Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa» (http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2011/11/Comunismo-fra-Idea-e-Storia.pdf) e, sia pur in ritardo, tengo a farti avere queste mie schematiche considerazioni su vari punti:

    1. Crisi della sinistra. Secondo me, andrebbe retrodatata a ben prima del ‘68, perché la sua sottomissione alle pratiche e all’ideologia del neocapitalismo è molto più vecchia ed era, infatti, già oggetto agli inizi degli anni Sessanta di un lavorio critico che con Marx pur qualcosa aveva a che fare, malgrado la sua “torsione operaista” (Panzieri e «Quaderni rossi») oggi a te appare risibile.

    2. «Programma di liberazione nazionale e sociale». Al momento non esiste. E i tentativi di pensarlo (le pratiche mi paiono di là da venire…) corrono, secondo me, un grave rischio: usare le “rovine” di un pensiero nazionale (risorgimentale?) troppo inquinato, e già dall’inizio del Novecento, da imponenti e non casuali venature nazionaliste e poi apertamente fasciste. Per quanti si sono formati su un pensiero classista, ma ammettono il suo indebolimento (qualcuno, come La Grassa, parla addirittura di una sua inconsistenza), non è facile un “buon uso” (nel senso fortiniano del «proteggete le nostre verità» intendo io) di questo tipo di “rovine” (intendo quelle del pensiero nazionale). Anche per la semplice ragione che in passato l’abbiamo sempre guardato con distacco o sufficienza o ostilità. Anche se venissero fugate le obiezioni più serie (accuse di populismo e di connivenza con la «destra eterna»), un’ “acculturazione nazionale” resterebbe un bel problema: non è facile innestarla sulla base culturale sia pur vagamente marxiana delle vecchie generazioni, non si sa che accoglienza troverebbe tra le nuove generazioni formatesi nel disfacimento della sinistra e nel populismo berlusconiano.

    3. Badiou. Non so quanto sia determinante in questo autore la distinzione tra “imprese criminali” del comunismo storico (cattivo) e bontà o innocenza dei “movimenti” o dei “gruppi in fusione” sartriani (o del “comunismo buono”). Anche se accettassimo il suo ”essenzialismo” (inteso come «potenzialità da attualizzare») o la tua «teoria normativa della natura umana» (aristotelica invece che platonica) o l’Umanesimo o il Marx filosofo della storia, a me pare che l’idea di comunismo, che tu vuoi salvare in contrasto con il comunismo (realmente o apparentemente) movimentista e buono di Badiou, resta il fatto che entrambe queste forme di comunismo siano soltanto idee (e quindi accettate o più accettabili proprio nei tanto da te disprezzati ambienti universitari o accademici e non negli ambiti sociali meno “intellettualizzati” o legati alle dimensioni più “quotidiane” della vita, per quanto sia i primi che i secondi oggi siano sottoposti a sussulti e trasformazioni poco decifrabili). Se poi si avesse il coraggio di ritenere (sempre da parte di minoranze però) che le “imprese” del comunismo storico non siano affatto riducibili a “criminali”, resta comunque il fatto che quel comunismo è stato sconfitto. Come resta il fatto che con l’Idea di comunismo (intesa come mera «potenzialità da attualizzare») non si ha (in partenza) alcuna garanzia di una più alta “bontà” (diciamo così) del nuovo comunismo rispetto al vecchio e sconfitto. Ma io, guardando un po’ alla storia, ho un dubbio ben più atroce e non facile da allontanare: e se l’elemento che chiamiamo “criminale” fosse presente anche nella «natura umana»? Allora, ci vorrebbe ancora più coraggio o un’audacia da eroi del mito e arrivare a pensare persino a un comunismo propriamente criminale (idea davvero impopolare, che sarebbe respinta non solo dai circoli accademici ma passerebbe difficilmente tra la cosiddetta gente comune). Perché delle due l’una: o accettiamo che certi comportamenti o atti per costruire il comunismo furono davvero criminali (e cioè, nell’accezione comune del termine, da condannare); oppure erano inevitabili o addirittura necessari; e allora non possono essere qualificati come criminali e sono così designati, per malafede, soltanto dai nemici del comunismo. Ma, pur se riuscissimo a togliere a quei fatti l’etichetta della criminalità, dobbiamo però ammettere che sono risultati inefficaci, non hanno cioè realizzato nessun comunismo e che, alla fine, quel sistema indicato con il termine ‘comunista’ (o “socialismo reale”) è imploso anche per una sua intrinseca debolezza e non solo per la pressione esterna del sistema capitalistico. Dunque, in ogni caso – criminali o semplicemente inevitabili – le imprese per costruire l’«Uomo nuovo di Stalin» sono fallite. (Tra parentesi. Per me resta incomprensibile la reticenza a qualificare come criminali le imprese staliniane da parte di chi non ha tentennamenti a definire criminali quelle degli Usa. O la dimensione criminale è nelle cose umane, dato inevitabile della storia umana e il buono che possiamo ritrovare nelle forme di civiltà va misurato prescindendo dai crimini in essa compiuti o la dimensione criminale può essere tenuta a bada o osteggiata (se non abolita) e allora una forma di civiltà che la ridimensioni va nettamente preferita e giudicata migliore di un’altra che invece l’incentiva o se ne serve arbitrariamente.Venne o no violentata l’”essenza dell’Uomo” ai tempi di Stalin? Su questo punto non capisco come fai ad opporti ad Hard che, in base alla biopolitica, vuole la «creazione di una nuova umanità» e non a Stalin che cercò davvero di costruirla…). Tu aggiungi poi: «un certo “marxismo” è certamente finito, ma il comunismo no». Mi chiedo: ma cos’è il comunismo rimasto, se togli un certo “marxismo”? Se non è quello “buono” di Badiou, allora bisogna pensare a quello qualificato di solito come “cattivo” o “criminale”. O a un altro ancora a metà strada? Se, appunto come dici, «nella storia umana, a differenza che nella natura, non esistono futuri prevedibili e processi ineluttabili» e sostieni che bisogna disfarsi del determinismo presente nel«marxismo engelsiano [e nel] materialismo dialettico leniniano, staliniano e maoista», dobbiamo aggiungere però che l’idea di comunismo sopravvissuta a un “certo marxismo” non ha alcuna garanzia di non diventare (o addirittura dover essere) criminale. Possiamo solo auspicare o scommettere che, sviluppando le sue potenzialità, quell’Uomo (o quell’ “essenzialismo”) non sveli aspetti criminali. (Badiou accortamente o da opportunista si ferma sulla soglia di questo arduo problema e accoglie un’idea della natura umana e del comunismo come buona. Ma allora perché ironizzi sulle scommesse altrui (di Badiou in questo caso), dicendo che «si tratta di una nuova “fede per intellettuali”, di una scommessa pascaliana senza Dio, di una sorta di anarchismo universitario per colti», se , anche quella tua, in fondo, solo una scommessa è?).
    Qui*

    4. Hardt e Negri. Ne fai una critica troppo di pelle. Ma da quale pulpito? Dici: «queste moltitudini, a mio avviso, non esistono». Va bene. Ma non esiste neppure il comunismo (o al momento il “tuo” comunismo). Se è Idea il comunismo, perché non accettare almeno che sia Idea pure quella della moltitudine? Se uno ti dicesse: mostrami il tuo comunismo, tu potresti mostrargli solo un’idea. E anche Negri e Hard potrebbero (e infatti mi pare che dicano) che la moltitudine non esiste adesso, ma deve essere costruita. Né capisco perché, se in Negri e Hard «il comunismo può essere così integralmente “pensato” come il rovescio (non dialettico, of course) del capitalismo», il “tuo” comunismo non dovrebbe, sia pur attraverso un processo dialettico, essere il rovescio del capitalismo. O si ridurrebbe, se non capisco male, solo al predominio del pubblico rispetto al privato? Ma allora l’accusa che «il “comune” di Negri ed Hardt è curiosamente molto simile alla comunanza delle merci omogeneizzata del capitalismo di oggi» potrebbe valere anche per il “tuo” comunismo, il cui ‘pubblico’ somiglierebbe troppo al ‘pubblico statale’ del capitalismo. Né mi pare che il neoliberismo economico abbia così «paura del “pubblico” (scuola pubblica sanità pubblica, edilizia pubblica, eccetera», almeno nelle fasi di crescita economica. Ha paura forse di un predominio assoluto del pubblico sul privato. Ma allora l’ideale comunista non tornerebbe ad identificarsi con lo Stato (cioè con il “pubblico”)? Quando perciò scrivi:«il comunismo storico novecentesco, particolarmente nella forma staliniana, è stato effettivamente un dispotismo del lavoro fondato sulla statalizzazione integrale del “pubblico” e del “privato”, e per questa ragione è caduto tanto facilmente, in quanto per far crollare l’intero edificio è bastato picconare la struttura portante del partito-stato », mi viene il dubbio che la tua idea di comunismo come azione di mera opposizione «alla privatizzazione del welfare (dove c’è ancora), alla privatizzazione dell’educazione, alla privatizzazione dell’assistenza sanitaria, eccetera» finisca nuovamente per confondersi con la tradizionale, “democratica” e non per questo comunista, lotta in favore del pubblico contro il privato? Ma forse questo pubblico è già di per sé il comunismo? Dici di non voler by-passare «le comunità reali nazionali e religiose, le uniche realmente esistenti», ma non si capisce come in esse “penetrerà” mai l’idea di comunismo, come si possano trasformare in comunità comuniste (a meno che non lo siano già e si tratta solo – scusa la battuta – di farglielo riconoscere o di identificare comunismo e comunitarismo).

    5. Su La Grassa. Per quel che so, la distinzione Marx filosofo/Marx scienziato è vecchia ed è stata a lungo contestata (da Lukács ad es.). Il crollo storico di certe speranze rende chissà per quanto tempo irricomponibili le due letture. E oggi tu e La Grassa mi sembrate due rassegnati a guardare la stessa cosa da due buchi di serratura diversi. Io che sono vecchio e ho seguito tutto il complicato e contorto dibattito sulla «crisi del marxismo» degli anni Settanta-Ottanta non mi sento di schierarmi (da tifoso) né con te né con La Grassa. Posso solo rammaricarmi della rottura del vostro sodalizio precedente e prendere atto di una separazione irrimediabile. In una poesia mi capitò di scrivere, proprio a proposito di una separazione (di coppia): «In sogni separati, anzitempo, si è dovuto morire, fissando invano il giusto, che diviso traspare appena». Insomma, quello che prima, in tempi di vacche grasse, sembrava un discorso tendenzialmente unitario su Marx, oggi in tempi di vacche magre s’è spezzato in due discorsi. Una pacata valutazione delle analisi tue e di La Grassa sarà possibile forse solo più avanti. Quello che, secondo me, si potrebbe però già da subito evitare sono gli insulti o le caricature delle posizioni da parte dell’uno e da parte dell’altro (o, soprattutto, dei rispettivi seguaci), che a me sembrano controllabili. Si spazzerebbe via una coltre di chiacchiera e di commenti spazzatura (ripeto specie dei rispettivi “tifosi”) e le “travi” delle rispettive ricerche – tue e di La Grassa – potrebbero essere viste e analizzate meglio, senza fastidiose e sterili distrazioni. E forse si vedrà meglio il buono dell’una e il buono dell’altra, anche se i due buoni non potessero più essere sommati. (Non è detto, cioè, che, se Marx o Lenin eccedettero in insulti pesanti contro o loro avversari, ricevendone altrettanti, si debba imitarli. Non ho mai pensato che le loro teorie siano state migliorate grazie a questi insulti). Tu poi, pur accusando La Grassa di riduzionismo, gli riconosci che ha fatto «scoperte preziose». Anzi gli dai persino ragione su punti importanti e su altri, dove io ad esempio ho più incertezze o rifiuti ( il giudizio su Tien An Men ad es.). Che egli non metta nulla al posto del marxismo, demolito al 90%, o metta qualcosa («il sistema di strategie di “lotta per la supremazia” fra agenti strategici»), che a te non pare «credibile», non dimostra di per sé che quella demolizione sia ingiustificata. Ma il punto decisivo della discordia è proprio sulla morte o meno del comunismo assieme al marxismo. Toccherebbe dire se questo è vero o falso in modi convincenti e argomentati. Invece, almeno in questo scritto, ti accontenti di prendere La Grassa in castagna: «l’odiatore althusseriano della dialettica GLG accetta integralmente l’argomento iperdialettico di Marx, per cui il comunismo, per non essere una fanfaluca umanistica, deve risultare da un processo dialettico interno al modo di produzione capitalistico stesso». O ricorri all’accusa che egli non s’intenda di Hegel o della sua «Scienza della Logica». Ora, secondo me, La Grassa potrebbe erroneamente non tener conto del primo Marx, quello umanistico, del secondo, quello hegeliano, e ritenere valido solo il terzo (lo scienziato, l’epistemologo del modi di produzione capitalistico), ma, se usando anche soltanto questo Marx, dicesse qualcosa di vero o di credibilmente vero o d’interessante, che tu non puoi confutare, mi pare debole e troppo soggettivo sostenere che tu non ti accontenti del «sostituto» del marxismo che La Grassa indica. Il “tuo” non gradimento della pars costruens di La Grassa, non nega valore di (possibile) verità alla sua pars destruens o a porzioni di essa. A meno che tu non possa ribaltare o negare quello che egli dice e mostrare a lui o a noi che egli si sbaglia. (Bisognerebbe, cioè, provare che quel lavoratore collettivo s’è formato, etc.). Altrettanto debole mi pare l’argomento antiautoritario: «Chi scrive non accetta che GLG gli dica, anzi gli imponga, “da quale porta” si deve uscire per prendere congedo da un marxismo effettivamente sclerotizzato e da un comunismo effettivamente onirico». Il problema per me è vedere se uno ha ragione o torto (o magari se ha parzialmente ragione). Mi scuso di eventuali forzature e sottovalutazioni. Ma ci tengo a farti sapere un’opinione che trova concordi anche altri amici che non hanno smesso di interrogarsi su questi temi.
    Un caro saluto
    Ennio Abate

    10 marzo 2012

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