Governo Monti: l’ultimo atto della lenta agonia della politica sovrana. La tecnocrazia come esito inevitabile dell’Unione Europea.

nov 16th, 2011 | Di | Categoria: Primo Piano


di Lorenzo Dorato

Che lo Stato capitalistico, fintanto che è capitalistico, sia nelle mani delle classi dominanti capitalistiche, è cosa ovvia e scontata. Che tale dominio sia assoluto, privo di mediazioni, spogliato di una dialettica politica ed etica conflittuale interna ad uno spazio più o meno sovrano, è cosa meno scontata. Da circa vent’anni anche questo secondo passaggio sembra invece qualcosa di ovvio. I residui di dialettica politica e di decisione sovrana entro una cornice giuridica e sociale riconoscibile sono infatti saltati completamente suicidandosi nel vuoto (o meglio nel pieno apparentemente vuoto e invisibile) della sola ed esclusiva sovranità riconosciuta dei mercati. Il governo Monti che succede alla rovinosa caduta di Berlusconi è l’ennesima prova lampante di tutto questo.

Era il 1992, quando la classe politica italiana fu spazzata via da una serie di inchieste giudiziarie che sancirono la fine della prima repubblica e l’inizio della seconda. Era il 1992 quando l’Italia, con la scusa dell’instabilità politica e della speculazione internazionale contro la lira, fu presa in mano dal governo tecnico Amato per dare il via a quel mostruoso e lungo ciclo di controriforme antisociali e antinazionali che avrebbero sconvolto l’assetto produttivo, lavorativo, sociale e politico del paese. Era il 1992 quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht. Pochi anni prima erano stati sanciti i cardini fondamentali dell’Europa neo-liberale. La liberalizzazione integrale dei movimenti di merci e di capitale portata a termine nel 1988 fu il primo vero passo che sancì la fine della sovranità della politica sui processi economici. Quando un paese decide di lasciare integralmente liberi i capitali e le merci di muoversi entro spazi che non sono spazi territoriali dotati di potere politico effettivo e rappresentativo (lo spazio “mondo” o lo spazio Europa), smette semplicemente di essere un’entità politica effettiva, poiché abdica totalmente alla propria libertà collettiva di incidere su processi su cui non ha alcun controllo (ancorché una libertà interna al modo di produzione capitalistico).

Il trattato di Maastricht sancito nel 1992, che diede origine all’Unione europea fu il secondo tassello della fine di fatto degli Stati nazionali periferici d’Europa (si badi bene: soltanto degli Stati nazionali periferici, in termini di rapporti di forza) in direzione di una governance, ovvero di una gestione tecnica e neutrale, in luogo di un governo politico e discrezionale dei processi economici. I limiti imposti al debito pubblico e al deficit di bilancio furono infatti un gravissimo restringimento della libertà politica degli Stati e dei loro spazi di manovra (limite invece sforato ampiamente da Francia e Germania negli anni 2000, senza conseguenze di sorta, riprova della struttura programmaticamente gerarchica dell’Unione europea)

Sempre al principio degli anni ’90 assunse una crescente importanza la normativa comunitaria sulla concorrenza con l’imposizione di politiche di liberalizzazione di svariati settori del sistema economico (che indirettamente hanno significato anche politiche di privatizzazione di pezzi interi di economia pubblica). Anche in questo caso si è trattato di un’esplicita rinuncia alla libertà politica di guida dell’economia. Ed anche in questo caso un principio economico teoricamente discrezionale e soggetto fino ad allora alla sovranità politica (quale quello della concorrenza) è stato eletto a principio primo inviolabile e indipendente (alla stregua di una magistratura dei mercati).

Infine l’euro, una moneta senza Stato ad uso e consumo dei paesi in avanzo con l’estero (grazie a tassi di inflazione minori), stante l’impossibilità per i paesi in disavanzo di fare uso della svalutazione o della semplice flessibilità del tasso di cambio per riequilibrare la propria bilancia dei pagamenti.

Fine della politica fiscale ed economica, fine della politica industriale e in ultimo fine della politica monetaria. Questa la triade micidiale che ha decretato la morte dello Stato come organo di mediazione politica, di guida dello sviluppo economico e di elemento materiale e simbolico di dominio dei processo anonimi (in realtà ben forniti di nome e cognome) dei cosiddetti mercati finanziari. Ma lo Stato non è certo morto in quanto Stato in sé, lasciando spazio a presunti mercati liberi e sovrani autoregolantisi globali. Nulla di tutto ciò. Lo Stato si è semplicemente riconvertito in esecutore di direttive sulla base di una gerarchia di interessi capitalistici internazionali e intraeuropei che ha sancito chi e come doveva e poteva dettare legge. E così mentre Francia e Germania attuavano felicemente politiche industriali e fiscali sovrane in barba ai deliri europei sulla concorrenza, l’Italia, la Spagna, la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo dovevano eseguire gli ordini dell’antitrust smantellando pezzi di industria nazionale di altissimo valore per favorire l’ingresso del capitale straniero o venivano bacchettati multati per aver sforato i fatidici parametri di Maastricht. Una guerra tra sub-dominanti forti (Germania in primis e in parte Francia) e sub-dominanti deboli (i cosiddetti PIIGS); e dietro le quinte la potenza pre-dominante statunitense a controllare la regia ed a dimostrare che, se si possiede l’arsenale militare più forte del mondo, un debito pubblico di spaventosa entità e sbilanciatissimo verso l’estero non provoca alcuna speculazione di sorta.

La cosiddetta crisi del debito greco, italiano e poi spagnolo e forse persino francese, altro non è che l’atto finale di questa guerra di dominio mascherata da democrazia sovranazionale e dal ritornello irritante della futura Europa politica. Una resa dei conti intercapitalistica che avviene, non a caso, in una fase di gravissima crisi del blocco economico europeo e nord-americano (con il capitalismo pre-dominante che opta per la carta della competizione per rapina e spoliazione di altri capitali, oltre che, ovviamente, tramite il prelievo diretto della ricchezza prodotta dal lavoro).

Non esiste alcun problema di debito pubblico in sé. Non esiste alcun problema di credibilità dei paesi circa i loro fondamentali. Non esiste, neanche, alcun mercato di investitori atomistici anonimi che basano le loro scelte sugli umori collettivi. Esiste, invece, il ricatto politico reso possibile dal doppio meccanismo della massima esposizione verso l’estero di molti paesi europei (tra cui l’Italia) e dell’autocastrazione politica stante nell’impossibilità di adottare (entro il presente contesto istituzionale) misure di difesa contro gli attacchi speculativi.
Il debito si configura così come una semplice arma di ricatto che con i fondamentali dell’economia non c’entra nulla. Un’arma usata a piacimento ed a fasi alterne per ottenere dai paesi tenuti per il collo ciò che altri paesi interpreti di interessi capitalistici ben precisi vogliono ed ordinano: misure di austerità, svendita del patrimonio pubblico, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riforma del mercato del lavoro in senso liberale etc etc…ovvero, in ultima istanza la riduzione del paese ad uno stato di semi-colonia e di sotto-sviluppo, deindustrializzato e privato delle proprie imprese di punta, alla mercé del capitale straniero, fornitore di manodopera a basso costo e ricattabile e di domanda per le esportazioni.

Il blocco di potere berlusconiano e la coalizione Pdl-Lega per varie ragioni legate alla rappresentanza elettorale, alla difesa di interessi non sempre coincidenti con quelli del capitalismo europeo, aveva da tempo dato prova di inaffidabilità in politica estera e di lentezza in politica interna. Un governo ovviamente impopolare (come tutti quelli succedutisi in particolare dopo il 1992) servitore fedele del capitalismo più retrivo ed esecutore di riforme e leggi vergognose; ma pur sempre un governo politico, con la sua dialettica e complessità interna, costretto a rendere conto ai propri elettori delle scelte adottate e vincolato ad un sistema di rappresentanza (per quanto fluido nella sostanza reale). Di fronte agli attacchi speculativi contro l’Italia, esattamente come avvenuto in Grecia, il governo politico non ha voluto o potuto portare fino in fondo il programma di macelleria sociale proposto dai tecnocrati. Ha resistito, cedendo quasi su tutto, ma non su tutto, per qualche mese in un estenuante tira e molla osceno in cui stampa e giornali continuavano a gridare all’aumento del differenziale tra i tassi sui Buoni del Tesoro italiani e quelli tedeschi (il cosiddetto spread) come ad una forza imperscrutabile ed indiscutibile cui occorreva rispondere con mosse accondiscendenti. Ed infine ha ceduto il passo alla forma più diretta di governo dei poteri forti (tramite il solito giochino dei parlamentari venduti), mostrando come di questi tempi ogni tentativo di filtro politico (anche minimo e di qualunque colore e forma) tra tali interessi e la loro traduzione in norme esecutive, sia mal tollerato, fino ad essere persino esautorato con il tradimento, la forza e l’applicazione diretta della dittatura tecnocratica. Ma i governi tecnici non esistono e sono soltanto la forma ideologica “neutralistica” per indicare proprio i governi che saranno invece tra i più politici e decisionali (capaci di sconvolgere l’assetto di un paese) in senso ovviamente opposto a quelli che sono gli interessi popolari.

La speculazione sui debiti sovrani è la prova che siamo giunti ad un punto di non ritorno in cui le alternative sono soltanto due (e le vie di mezze sono destinate ad essere temporanee o fagocitate dalla loro irrealizzabilità): o accettare che il proprio paese possa essere annichilito da chi lo desidera e da chi ha interesse a farlo, perdendo ogni possibilità di reazione politica e abbracciando la fine della sovranità politica; oppure contestare alla radice i meccanismi che rendono possibile tutto questo, reclamando una fuoriuscita dalla prigione dell’Unione Europea, verosimilmente con sganciamenti dei diversi Stati, soluzione che ritengo infinitamente più realistica, oppure, meno verosimilmente con un cambiamento complessivo dell’Europa in quanto totalità.

Credere di poter salvare capra e cavoli (la sete dei mercati e la civiltà sociale minima in cui viviamo) è puramente illusorio e conduce allo stallo (lo stesso stallo che è costato la caduta al governo Berlusconi) o alla menzogna (la menzogna di Monti di voler imporre sacrifici con equità sociale, cosa assai curiosa dal momento che ciò che i mercati chiedono è esattamente l’ineguaglianza, il caos, la legge del più forte e il soccombere del più debole, altro che equità sociale!!).

Lo scenario politico interno merita davvero pochi commenti. Tutte le forze parlamentari, eccetto la Lega, si sono allineate senza pudore con le manovre condotte da Napolitano per favorire l’ascesa del tecnocrate Monti, già commissario europeo alla concorrenza, uomo di Goldman Sachs e membro del gruppo Bildeberg e della Trilaterale (tink tank neo-liberali di primissima linea). Il Pd e il Terzo Polo sono in prima linea per sostenere il carattere di governo senza scadenza che dovrà avere l’esecutivo Monti, esaltato preventivamente per le proprie virtù; l’Idv dopo primi tentennamenti cade nel grottesco invocando persino un governo di soli tecnici senza politici (temendo lo spettro del retropotere berlusconiano); Vendola, come c’era da attendersi, segue la linea e dichiara aperture a quello che chiama sibillinamente “governo di scopo” accettando in toto il terreno per cui la priorità assoluta è la tranquillizzazione dei mercati finanziari e dei partner europei; il Pdl infine, pur entro alcune contraddizioni politiche interne e spaccature anche molto forti, ha anch’esso accettato la linea. Tutte le forze dell’arco parlamentare si schierano così a fianco dell’inevitabile destino cui ci condanna la speculazione.

Se vi è un aspetto positivo nell’uscita di scena di Berlusconi, l’unico forse in questo contesto, è la fine di ogni scusante emotiva per tutti coloro che negli ultimi 17 anni di vita politica italiana si sono rifugiati dietro le sconcezze e gli eccessi del cavaliere per nascondere la loro incapacità o pigrizia di analizzare seriamente il carattere sostanziale delle forze politiche protagoniste della politica nazionale. Adesso il gioco potrebbe finire e tutti quanti saranno chiamati a schierarsi senza equivoci da una parte o dall’altra. Con il governo Monti-BCE e con le esigenze dei mercati finanziari, della UE e del capitalismo più opprimente e rapace; oppure contro questo conglomerato di forze in nome di un recupero della sovranità politica nazionale precondizione materiale per una pratica politica di difesa dei diritti sociali, dei beni pubblici, dei diritti del lavoro: in breve, degli stessi cardini della civiltà sociale che hanno conosciuto i nostri padri. Per difenderli e per rilanciarli rinnovati e potenziati in un orizzonte coerente di superamento del capitalismo.

Anche soltanto per iniziare a pensare in questi termini difensivi e poi trasformativi è imprenscindibile, ora più che mai, una critica radicale dei meccanismi perversi che stanno a fondamento dell’Unione europea. Una critica che diventi proposta politica con l’opportuno studio concreto delle possibili vie d’uscita realistiche: uscita dall’euro e dall’UE e relazione tra le due cose; ripudio del debito selettivamente dopo il recupero della sovranità sui movimenti di capitale e di merci; possibilità intermedie etc, etc..: tutti temi meritevoli di essere studiati con dedizione per uscire dalla gabbia psicologica che per un ventennio ha reso le forze politiche sulla carta anticapitalistiche del tutto succubi del processo di integrazione neo-liberale europea, il processo più capitalistico che la storia occidentale abbia mai conosciuto dal dopoguerra ad oggi.

C’è da attendersi a questo punto un triplice attacco pesantissimo: da un lato l’accelerazione di misure anti-popolari sul lavoro e sulle pensioni (licenziamenti sempre più facili e eliminazione delle pensioni di anzianità); contestualmente l’atto conclusivo di svendita del patrimonio pubblico, da quello immobiliare a quello (ben più importante) imprenditoriale e sociale con in prima testa le tre aziende strategiche parzialmente pubbliche ENI, Finmeccanica ed ENI, ed a seguire le municipalizzate e i servizi sociali. Una storia, quella delle privatizzazioni, iniziata anch’essa nell’ormai lontano 1992 e condotta alacremente dai governi di centro-sinistra (in massima parte) e di centro-destra (in maniera più contenuta e con un deciso rallentamento dei ritmi di svendita); infine vi sarà un’ulteriore spinta verso le liberalizzazioni dei numerosi settori del sistema produttivo e dei servizi ancora protetti e vincolati, con l’obiettivo di permettere l’ingresso del grande capitale straniero in grado di soppiantare e mandare in rovina piccole imprese nazionali e annicchilire e precarizzare larghe fette di lavoro autonomo.

Una dura opposizione (per forza di cose esterna al parlamento, al momento blindato) al neo-nato governo Monti da parte di tutte quelle forze che si riconoscono nella critica del disegno politico scellerato di cui si sono sunteggiati gli aspetti principali, sarebbe il primo passo per iniziare a contarsi e a procedere verso forme di aggregazione politica dotate di una minima forza sociale.

L’occasione per un rimescolamento delle carte e una definizione più netta delle distinzioni sostanziali (oltre i consueti formalismi puramente identitari) è più che mai alla portata di mano. L’obiettivo non può che essere la costruzione di una forza politica capace di sfidare anche elettoralmente al prossimo appuntamento il blocco di potere omogeneo attualmente presente nel parlamento italiano.

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11 commenti
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  1. Assolutamente condivisibile l’analisi di Dorato. L’Italia, dopo aver ceduto integralmente la propria sovranità politica ed economica, rischia di diventare, dopo la Grecia, nuovo oggetto da laboratorio per la sperimentazione di ricette economiche ultraliberiste e antipopolari imposte delle oligarchie finanziarie transnazionali (a dominanza Usa) attraverso loro dirette emanazioni quali sono organismi privi di qualsiasi legittimazione democratica come Bce e Fmi. La costituzione di una nuova forza politica, che si assuma il compito di difendere in prima istanza gli interessi nazionali e popolari ( l’orientamento strategico anticapitalistico di tale forza, inevitabilmente etereogenea, si potrà verificare solo attraverso un processo di medio-lungo termine), è ormai una necessità indefettibile. Più complesso appare invece il discorso elettorale, visti i meccanismi, creati ad arte, per impedire l’ingresso istituzionale di una vera forza alternativa.
    Pasquale S.

  2. non sono daccordo mi dispiace. Il Potere è cosa più complessa. Sicuramente è in atto una riperimetrazione del welfare. Ma stare sotto lo schiaffo del ricatto sul debito da parte dei mercati finanziari avrà pure una spiegazione, un’origine. L’Italia dopo la Grecia, ma anche Portogallo, Belgio, Austria e udite udite Francia sono in rotta di collisione. L’economia reale è infatti col segno meno meno meno in termini di pil. Perchè non parliamo allora di economia reale e di come si configura oggi lo stato delle cose? E’ chiaro che se sono un investitore finanziario non mi posso fidare di investire su titoli greci o italiani o spagnoli e domani appena domani su quelli francesi. E perchè? Perchè non so se il denaro sarà restituito. Non so se quel settore produttivo o quell’impresa non fallisca magari entro un’ora o un minuto. Forse è il caso di chiedersi: ma chi cresce? E perchè? Un osso solo è uno, e i cani affamati sono diversi. Se io non vendo un’auto c’è un compratore che compra altrove. Se le materie prime diventano sempre più affare di 2 o 3 cani è chiaro che nel branco quelli più deboli sono destinati a soccombere. E’ la stampa ragazzi….. si diceva …. forse è il caso di dire … è la guerra ragazzi (queela che forse ma Dio non voglia che sta per venire).

  3. Off Topic a metà. Ho letto il commento di Lorenzo Dorato su “Appello al Popolo” riguardo la questione “debito interno-debito esterno”, e volevo che leggesse anche l’ultimo mio commento, lo riporto qui, se non vi spiace:

    “Ciao Stefano,
    ritorno sulla questione del prestito forzoso e dell’importanza del debito “interno” rispetto a quello in mani straniere per segnalarti cosa ha detto Paolo Barnard in una recente intervista (ti ricordo che lui ha consultato autorevoli economisti):

    «Mi è stato obiettato prima …. che il motivo per cui i nostri titoli di Stato devono pagare dei tassi molto alti (è) perchè sono posseduti in larga parte da proprietari stranieri che stanno fuori dall’Italia. Ma negli Stati Uniti è quasi esattamente la stessa cosa, in particolare per quello che riguarda la Cina, l’India, eppure i tassi d’interesse che pagano sui bond gli americani sono bassissimi. Non c’entra assolutamente niente chi possiede i tuoi titoli di stato, c’entra se sei in grado di onorare il debito e se i mercati credono che tu sia in grado di farlo.
    Si chiama “ability to pay”, … e questo determina i tassi dei titoli di stato, assieme ad altri fattori».

    In più aggiungo che lo stato italiano, come dice Barnard, avendo adottato l’Euro, per finanziarsi deve comunque chiedere i soldi ai mercati di capitali, e sei punto a capo. Con questo ti saluto.

    ps: ti consiglio di ascoltarti quella intervista. E’ interessante soprattutto il dibattito che c’è stato tra Barnard e un professore liberista della LUISS. Il link è questo:
    http://www.youtube.com/watch?v=8xQk4TKFyt4

  4. In risposta a Pasquale S.
    La formazione di una forza a difesa degli interessi popolari, che in questa fase includono per forza di cose anche gli interessi nazionali (intesi come insieme di interessi, almeno di una prima fase della lotta, intesi alla riappropriazione di uno spazio sovrano di agibilità politica), è assolutamente necessaria. Il meccanismo elettorale al momento impedisce a forze minori di accedere al parlamento. Per questo tra le battaglie fondamentali e di immediato effetto vi è quella per il ritorno al proporzionale puro. Su questo punto si dovrebbe torvare la massima convergenza con tutte le forze politiche interessate.

    In risposta ad Airplane

    Non condivido l’impostazione per cui la speculazione sui debiti sovrani sia frutto di una reale sfiducia dei mercati sul paese x. Si tratta a mio avviso di una decisione ben ponderata di carattere politico e strategico mossa da determinati centri di potere che fanno capo a determinati Stati-nazionali e che solo in parte li trascendono. Un mercato non si accorge all’improvviso dell’insostenibilità del debito di un paese e soprattutto non si muove sulla base di velocità altalenanti (discesa, salita, sfiducia, fiducia) di giorno in giorno. I ritmi e la tipologia della speculazione in atto mostrano che si tratta di una speculazione profondamente politica resa possibile dal fatto che i paesi interni all’area Euro non hanno strumenti di difesa da tale speculazione (come ad esempio una moneta nazionale e una Banca centrale propria). Altrimenti come spiegare il fatto che la Gran Bretagna non sta subendo speculazioni di sorta pur avendo un debito altissimo e prospettive di crescita modestissime?

    Altro discorso è l’esistenza di una crisi profonda dell’economia reale che sta investendo l’intero capitalismo occidentale. E’ chiaro che il problema di fondo rimane un problema reale di carattere economico e dietro il carattere economico vi è, anche qui, una direzione politica ben precisa intrapresa dalle classi dominanti, pur entro margini di caos capitalistico entro cui le stesse classi dominanti a volte smettono di orientarsi. Ma la bussola, pur nel caos, rimane abbastanza chiara a chi tiene le redini del potere. Spazi di confusione, conflitti tra capitali e tra nazioni si creano e sta alle classi subalterne e ad una loro teorica rappresentanza politica saperli sfruttare intelligentemente per modificare l’ordine delle cose.

  5. Per Batiuska. Premetto di non essere in alcun modo un esperto della questione del debito nello specifico, questione che pure mi interessa moltissimo e che provo ad interpretare e comprendere con i mezzi che ho a disposizione.

    E’chiaro che non si può trovare una correlazione inversa certa tra il tasso di interesse sul debito e la sua esposizione verso l’estero. Si può però dire che il tasso di interesse è tanto più basso quanto meno la speculazione finanziaria (i cosiddetti mercati) ha potere sui titoli del debito. Dal momento che la speculazione viene per lo più dall’esterno e non dai cittadini italiani o dalle imprese italiane, si potrebbe dire che se oggi per ipotesi il debito fosse tutto interno il problema dell’aumento vertiginoso dei tassi e del supposto rischio insolvenza non avrebbe avuto spazio per crearsi (essendo un problema fittizio di carattere speculativo).
    Tuttavia il punto è un altro, ed è che, anche un debito esposto all’estero non subisce fenomeni speculativi se possiede una moneta sovrana e una propria banca centrale disponibile a finanziare il debito. E’ proprio l’obbligo per uno Stato di finanziarsi attraverso il mercato (non avendo una banca centrale di riferimento) che lo sottopone al rischio di speculazione finanziaria ai propri danni.

    Pertanto potremmo dire che l’esposizione all’estero è un problema soltanto se non si ha una moneta sovrana e una banca centrale disponibile a pagare il debito. In caso contrario l’esposizione all’estero smette di essere un problema, dal momento che semplicemente ne viene meno il presupposto di necessità (per cui nel caso di “malumori” del mercato, il debito viene rifinanziato dalla Banca centrale, diventa debito interno e il problema scompare ancora prima di essere cominciato).

  6. Un altro paio di osservazioni sulla questione del debito:

    l’unico vero problema di sostenibilità del debito pubblico è di natura distributiva. Se infatti vi sono tassi di interesse reali troppo alti si ha redistribuzione del reddito a favore dei detentori dei capitali (nel caso in cui il debito abbia una composizione sbilanciata verso imprese e banche private, estere o straniere che siano). Ovviamente nel caso in cui il finanziamento del debito sia effettuato da una Banca Centrale tale problema non si pone. Si porrebbe, semmai, un problema di inflazione nel caso in cui il denaro preso in “prestito” dallo Stato non venisse usato per produrre ricchezza oppure venisse immesso nel sistema economico a beneficio dell’iniziativa privata in una situazione di pieno impiego delle risorse. Se però il pieno impiego non c’è (e una situazione di pieno impiego oggi è chiaramente inesistente) oppure lo Stato si “indebita” e finanzia investimenti di qualunque tipo, aumenta la produzione e il reddito e non l’inflazione.

  7. Tutte cose giuste, ma ho l’impressione che esageriate la compattezza e la premeditazione del regime plutocratico. A mio avviso non c’è, o c’è solo in parte, una cupola che persrgue una politica coerente nel corso dei decenni. C’è una società rosa dal benessere e dal consumismo che ha espresso i due punti nodali di sfascio – solo apparentemente contrapposti – del Sessantotto e del neoliberismo, frutto di una medesima generazione fotografata in due momenti diversi del suo divenire.

    C’è una poderosa forza d’inerzia alla quale questa società svirilizzata non sa contrapporsi, perché non ha più reattività né energie creative.

    E c’è un’élite di figli di papà abituati a fregare gli altri come metodo per campare alla leggera, che cerca ciascuno per conto proprio di mettere al sicuro i soldoni predati a destra e a manca, senza minimamente porsi il problema – che va molto al di là della loro superficialità, ignoranza ed infantilismo – della tenuta complessiva del sistema.

    Monti è un vecchietto coglione che mette la faccia nel tentativo perso in partenza di frenare il tracollo del sistema rimanendo all’interno delle sue coordinate. Dietro ci stanno i partiti, che non vogliono essere coinvolte nella macelleria sociale necessaria per puntellare l’euro, e tantomeno nella macelleria non solo sociale che verrà fuori quando l’euro inevitabilmente tracollerà.

    E il popolo lavoratore a cui vi appellate è un gregge di bambini viziati, identico alle élites dominante ma frustrato nel suo desiderio di fregare gli altri per gonfiarsi le tasche, e per questo disinteressato a tutelare le sue prerogative: se non può mettersi in tasca soldi a zero fatica, meglio disinteressarsi di tutto e pensare al telefonino e alla maglietta firmata, tanto disinteressato quanto il capitalismo predatorio a pensare al di là del prossimo trimestre..
    Intanto sui siti non conformisti tedeschi leggo le stesse cose che sostenete voi, ma a parti invertite: adesso sono i popoli meridionali ad aver messo su l’unione europea per sfruttare i poveri crucchi del nord ridotti a Zahlmeister Europas (pagatori universali).

    Bene così, si vede che gl’ideali universal-pacifistici vacillano e riacquistano vigore odii antichi, che si risolveranno in vecchie/nuove guerre. Queste restituiranno a tutti l’unica dignità di cui l’essere umano medio sia capace, quella della miseria e della disperazione.

  8. Mi colpisce molto una frase dell’articolo cito :
    “… Fine della politica fiscale ed economica, fine della politica industriale e in ultimo fine della politica monetaria. Questa la triade micidiale che ha decretato la morte dello Stato …. Ma lo Stato non è certo morto in quanto Stato in sé, lasciando spazio a presunti mercati liberi e sovrani autoregolantisi globali. Nulla di tutto ciò. Lo Stato si è semplicemente riconvertito in esecutore di direttive … di interessi capitalistici internazionali e intraeuropei …”
    Forse, alla luce della storia, sarebbe il caso di non rifugiarsi in un fantasmagorico “Stato in sé” e ragionare un po’ piu’ spegiudicatamente su cosa stia succedendo. A me pare che individuare lo Stato nazionale come linea del Piave contro “interessi capitalistici internazionali e intraeuropei” “reclamando una fuoriuscita dalla prigione dell’Unione Europea” sia velleitario, irrealistico, antistorico e destinato al fallimento. Credo che sia necessaria maggiore radicalita’ teorica e magari una salutare autocritica rispetto a posizioni non piu’ tanto solide
    Con affetto e stima
    Alessandro De Giuli

  9. Perché sarebbe antistorico, velleitario e destinato al fallimento, il recupero della sovranità nazionale sui processi economici?

    E’ all’interno dello Stato che si possono verificare processi anche radicali di trasformazione della società, a meno che non si creda in una rivoluzione mondiale simultanea di tutti i popoli. Io onestamente non ci credo e per questo in un’ottica di medio periodo ritengo lo Stato l’involucro preferenziale per la gestione di processi collettivi di emancipazione. Se l’Europa fosse uno Stato con proprie istituzioni realmente politiche, un proprio processo di unificazione culturale reale, un sentimento collettivo di appartenenza etc etc…potrei ben essere favorevole allo Stato europeo. Ma tutto questo è puramente fantasioso ed appartiene ad un futuro per forza di cose assai lontano. Nel frattempo, in attesa di riavviare da zero i processi per la futuribile Europa di domani, occorre riprendersi la sovranità politica e popolare, unico viatico per qualsiasi lotta.

  10. Ottimo articolo, anche sorprendente, sopratutto il finale : costruire l’ennesimo
    partito …
    Ma questo partito in cosa dovrebbe essere diverso rispetto al prc o SC o Pdci ?
    Qual’è l’impostazione che dovrebbe renderlo decisivo rispetto a quelli ?
    Come mai tale partito , visto che l’esigenza e le condizioni ci sono,
    non è ancora nato ?
    Come mai tale paradosso : un partito necessarissimo, che nessuno vuol far nascere ?
    Dov’è il problema ?

  11. [...] comunismoecomunita [...]

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