“L’India è un’Italia di dimensioni asiatiche” (Karl Marx)

feb 19th, 2010 | Di | Categoria: Politica Internazionale, Resistenze

di Piero Pagliani

“L’India è un’Italia di dimensioni asiatiche” (Karl Marx)

Premessa.
Pur provenendo da una formazione e da una militanza marxista classica molto sbilanciata sul lato razionalista e avendo quindi alcune riserve filosofiche e politiche sul marxismo comunitarista al quale questa Rivista si richiama, ho accettato volentieri l’invito a scrivere l’articolo che segue, dato che sono convinto che in questo momento di crisi e ripensamento della pratica comunista, deve valere il detto di Mao “Che mille fiori fioriscano, che cento scuole contendano”.

Cercando di capire l’India (e non solo)
Chi si occupa di India, intendo dire non dell’India “spirituale” degli ashram, dei santoni, della non-violenza, ma dell’India in preda agli sconvolgimenti di un passaggio epocale da ”paese in via di sviluppo” a “terza potenza economica mondiale”, è stato colpito recentemente da una notizia folgorante: la Tata Motors, ramo automobilistico della potentissima multinazionale indiana Tata, ha rinunciato al suo nuovo insediamento industriale a Singur, nel Bengala Occidentale, a seguito delle incessanti azioni di protesta da parte dei contadini espropriati a favore della multinazionale. Una cosa simile era appena successa nella zona di Nandigram dove, con una resistenza costata massacri, i contadini hanno impedito la costruzione di un hub chimico indonesiano a spese delle loro terre.
Una vittoria del movimento contadino? Una sconfitta per lo “sviluppo”?
Ho seguito la lotta dei contadini bengalesi fin dal suo inizio, sono stato in India a parlare con alcuni dei protagonisti, ho scritto un libro sulle rivolte contadine indiane, mi sono incontrato con l’iniziatore della rivolta naxalita degli anni ’60 e ora segretario del Communist Party of India (Marxist-Leninist) e ho discusso con altri dirigenti, ho girato per il Bengala rurale e tribale, ho sostenuto in tutta Italia le ribellioni di Singur e Nandigram su cui ho girato anche un documentario ma, onestamente, non sono ancora in grado di rispondere in modo definitivo . E, innanzitutto, non lo sono perché sia la prima che la seconda domanda nascondono una serie di ulteriori questioni tutte intrecciate tra loro e molto complesse.
Per alcuni si tratta di una vittoria contro il capitalismo neoliberista. Per altri invece è una sconfitta della modernizzazione in lotta contro residui semi-feudali. Infine molti, specialmente in India, pensano che innanzitutto si sia trattata di una vittoria della democrazia contro l’autocrazia dei potentati economici coadiuvati da apparati politici servili.
Per quanto l’ultima valutazione possa sembrare d’acchito la più vaga, quella meno “militante”, quella che utilizza concetti più ideali che strutturali, tuttavia ritengo che se proprio devo dare un giudizio in due parole, questa, nel suo complesso, mi sembra quella più corretta, o per lo meno quella che più si approssima alla realtà. Infatti i termini “capitalismo neoliberista” e “rapporti semifeudali”, che sembrano così esplicativi e rocciosamente materiali, per me nascondono molto di più di quanto riescano a spiegare. Il primo, innanzitutto perché fa in sostanza riferimento a un meccanismo acefalo e deterritorializzato (globalizzato), esistente non nella realtà ma ad un altissimo grado di astrazione, e poi perché nasconde, con l’insistenza sull’aggettivo “neoliberista”, una certa nostalgia per ciò che (con approssimazione) viene definito “keynesismo”. Il secondo, per il suo stato di vox media che, come vedremo, gli permette di essere usato sia dai sostenitori delle rivolte contadine in India sia dagli adepti, di destra e di sinistra, della modernizzazione “neoliberista” indiana.
Cercare di capire qualcosa di questa vicenda – e delle altre vicende collegate – può aiutarci a cercare di impostare la comprensione di alcuni nodi che sono al centro della riflessione attuale, primo passo per poterli (eventualmente) sbrogliare. Il rapporto tra sviluppo e giustizia sociale, sviluppo e tenuta sociale delle comunità, sviluppo ed ecologia, sviluppo e sovranità nazionale, sviluppo e geopolitica, che fanno parte di ciò che più in generale possiamo chiamare “intreccio tra le contraddizioni verticali (classi dominanti-classi dominate) e quelle orizzontali (tra vari agenti capitalistici)”. E, per far ciò, siamo obbligati a fare i conti, ancora una volta, con le categorie del marxismo novecentesco, perché è da lì che, come al solito, bisogna partire.
Per Marx, l’India era un’Italia di dimensioni asiatiche, e non solo per le ovvie analogie della geografia fisica (Himalaya/Alpi, pianura gangetica/pianura padana, penisola/penisola). A mio avviso, per molti aspetti lo è ancora adesso, come vedremo. Così, riuscire a leggere le dinamiche indiane ci permetterebbe di leggere quelle italiane – ed europee – con più libertà e con più spregiudicatezza.

Lo scenario
Da alcuni anni il governo del Fronte delle Sinistre, al potere ininterrottamente da più di tre decadi nel Bengala Occidentale, ha iniziato una politica d’ispirazione cinese basata sullo stabilimento di Special Economic Zone destinate ad accogliere impianti industriali, speculazioni edilizie, impianti per la produzione di energia e altre infrastrutture “per lo sviluppo”. Una politica che accompagnandosi ad ampie misure di liberalizzazione ha ricevuto il plauso di tutto l’Occidente, a partire dagli USA per arrivare nel febbraio del 2007 all’Italia col viaggio di Prodi e della delegazione italiana (la più grande delegazione occidentale nell’India indipendente).
Spesso le Special Economic Zone sono realizzate espropriando per migliaia di acri i terreni dei contadini che oppongono una tenace resistenza per non andare ad ingrossare le fila dei disperati che assediano le grandi città.
A cavallo tra la fine del 2006 e il 2007, due zone hanno iniziato ad essere al centro di questi scontri nel Bengala Occidentale: Singur, dove su una vastissima area agricola doveva sorgere uno stabilimento automobilistico della multinazionale indiana Tata – partner della Fiat – e Nandigram, dove migliaia di contadini erano minacciati a favore della multinazionale indonesiana Salim Group (in cui, nota di colore, ha le mani in pasta la famiglia di Haji Mohammad Suharto, il noto massacratore di comunisti sostenuto dalla CIA e dall’MI-6 britannico). Lo scontro in queste due aree, Cia, specialmente a Nandigram, è stato violentissimo e oltre alla Polizia di stato ha visto in prima fila nell’attacco criminale contro i contadini gli uomini del Communist Party of India (Marxist), o CPM, che guida il Fronte delle Sinistre col Chief Minister, Mr. Buddhadeb Battacharjee.
Decine di morti, stupri di donne e persino bambine sono stati finora il prezzo della resistenza dei contadini allo “sviluppo”. Mentre l’operato del governo bengalese veniva censurato dal Governatore dello Stato, Gopal Krishna Gandhi, nipote del Mahatma e dagli stessi alleati del CPM (il Communist Party of India, CPI, e vari partiti socialisti), il Chief Minister difendeva imperterrito le sue scelte affermando che l’India “semi-feudale” deve prima raggiungere il capitalismo e solo dopo intraprendere riforme socialiste e che per questo motivo egli ha deciso di lavorare strettamente in un ambito capitalista (“a capitalist framework”).
L’ondivago termine “semi-feudalesimo”, concetto totemico di una larghissima parte del pensiero marxista del Novecento, da sempre usato dai marxisti-leninisti per denunciare le condizioni dei contadini marginali, dei braccianti e dei tribali e per denunciare l’apparato statale indiano e i “revisionisti” del CPM, veniva così utilizzato per colpire in direzione opposta da parte del maggior partito comunista indiano, in ciò spalleggiato dall’establishment economico e mediatico nazionale e internazionale.

Marxismo storicista, “semi-feudalesimo” e Rivolta Naxalita
L’analisi marxista dell’arretratezza dell’India si è sempre incentrata sul concetto di “semi-feudalità”. E’ in base a questa analisi della situazione indiana che i comunisti rivoluzionari alla fine degli anni ‘60 diedero origine alla Rivolta Naxalita, cioè a un tentativo di riedizione della guerra popolare di lunga durata che era stata vittoriosa in Cina subito dopo la II Guerra Mondiale. Dal loro punto di vista si trattava di condurre una “Rivoluzione di Nuova Democrazia”, cioè una rivoluzione basata su riforme agrarie e sociali antifeudali, al posto di una inesistente borghesia nazionale, in nome di un ancora poco sviluppato proletariato e in vista di una transizione al Socialismo. Ma la rivolta fu sconfitta nel sangue nel giro di sette anni: 10.000 morti. Le condizioni indiane non erano quelle cinesi a cavallo della II Guerra mondiale: non c’era una questione nazionale come l’invasione giapponese in Cina, non c’era l’indebolimento delle classi dominanti dovute a quel conflitto e – questo è il punto che vorrei discutere qui – l’India non era, secondo il mio giudizio, in una situazione di “semi-fedualità” protratta da una borghesia e da uno Stato compradores, cioè al soldo “semi-coloniale” degli interessi stranieri.
Al contrario, lo Stato indiano sosteneva con ogni mezzo lo sviluppo dell’industria nazionale a favore di una borghesia che tutto era tranne che al soldo di interessi stranieri che l’avrebbero, in quella situazione di debolezza, massacrata. Così lo Stato perseguiva una politica di protezione dai capitali esteri e di protezione del mercato interno, due politiche che venivano indicate col termine generale di import-substitution industrialisation, ISI, politica genericamente intesa come “swadeshi” . In termini più ampi, l’India rientrava nella categoria chiamata da Chalmers Johnson dello “Stato sviluppista” (developmental state), i cui ingredienti erano: a) controllo statale degli investimenti; b) relazioni non conflittuali nel campo del lavoro; c) autonomia della burocrazia; d) autonomia dello Stato; e) guida amministrativa dell’economia; f) ricche corporation sostenute dallo Stato .
Con buona approssimazione, possiamo pensare al Congress Party di Jawaharal Nehru e poi di sua figlia Indira Gandhi come ad una super-Democrazia Cristiana secolarizzata, impegnata nella gestione di una economia mista, con tanto di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti come succedeva da noi, e nella costruzione di una politica sociale che se in Italia prendeva la forma prevalente di welfare-state, in India doveva prendere quella della pianificazione economica e delle riforme agrarie.
Le grandi differenze, per quanto riguarda il nostro discorso, erano due.
La prima è che lo Stato indiano perseguiva una pervicace politica di sovranità nazionale (era infatti leader mondiale del non-allineamento) mentre i tempi e i modi di sviluppo italiani erano dettati dalla sua appartenenza politico-militare al Patto Atlantico.
La seconda è che le “riforme antifeudali”, come quelle per l’abolizione dello zamindari (grande latifondo), pur promulgate, rimasero largamente inapplicate o applicate a metà (il che, nelle dinamiche delle riforme agrarie non significa rimanere a metà, ma tornare indietro). E ciò era dovuto a tre fattori principali: 1) la mancanza di risorse adeguate, quasi tutte fagocitate dalla politica di sostegno allo sviluppo industriale nazionale, 2) il bisogno da parte dell’accumulazione di capitale in India di una situazione in cui la vendita di tempo-lavoro agricolo soddisfacesse fondamentalmente dei bisogni di sussistenza, perché il ristagno dei prezzi dei prodotti agricoli favoriva il ristagno del costo di riproduzione della forza-lavoro industriale pur in presenza di una scarsa produttività in entrambi i settori, 3) infine, equilibri di potere in cui operavano solidarietà di casta e, soprattutto, meccanismi di alleanza politica, all’interno del litigioso triangolo dominante formato da élite burocratiche, élite industriali nazionali ed élite fondiarie, queste ultime, naturalmente, impegnate a difendere lo status quo nelle aree rurali.
Tutto questo portava a una situazione di grande sofferenza nelle campagne che veniva interpretata dai rivoluzionari maoisti come il mantenimento di condizioni di semi-feudalità da parte di una borghesia compradora e di uno Stato “semi-coloniale”, mentre in effetti era dovuta all’intreccio delle tre concause sopra esposte. In realtà, dopo l’Indipendenza, con l’aiuto dello Stato il “sistema paese” indiano iniziò ad evolvere verso rapporti di produzione capitalistici partendo da quei fenomeni di dissoluzione dei rapporti feudali che erano iniziati durante l’epoca coloniale britannica. E se queste trasformazioni, dovute a interventi economici ed extra-economici non avevano potuto distruggere tutte le forme feudali di rapporti sociali nelle campagne, avevano però potuto cambiare lo scopo della loro funzione, almeno parzialmente.
La funzione di un rapporto sociale è infatti dovuta ai rapporti di potere che fanno capo ad un modo di produzione o, per meglio dire, al modo di produzione prevalente (come invitava a precisare Louis Althusser). Ma la forma di questi rapporti sociali, sebbene non possa essere arbitraria, non è però univocamente ed uniformemente determinata dalla cosiddetta “struttura economica”, perché invece dipende da fattori storici, politici e culturali. Tutto questo non era nemmeno una novità, viste le analisi del settore agrario di Marx e di Lenin, eppure la situazione indiana era valutata da questi generosi rivoluzionari come “semifeudale” .
Secondo Regis Debray, l’utilizzo del prefisso “semi” è molto pericoloso perché può nascondere una mancanza di precisione analitica:

“[…] il prefisso ‘semi’ permette di riferirsi a qualcosa senza doverla in effetti identificare, cioè indica un problema per il quale non abbiamo una soluzione. Così succede per ‘semi-feudale’, ‘semi-proletariato’ e molte altre cose semi finite che non rimpiazzano per nulla concetti più accurati come per sottolineare l’assenza totale di un concetto.”

Anche all’interno del movimento naxalita si metteva in dubbio la pregnanza economica del concetto di “semi-feudalità”. Tuttavia nessuno ne poteva fare politicamente a meno. Per un motivo che, col senno di poi, è evidente: rinunciarvi significava rinunciare all’impianto storicista del marxismo e a tutta la sua valenza politica escatologica.
Era quindi vero che l’intreccio dei tre fattori prima ricordati faceva sì che la borghesia non avesse allora nessun vantaggio ad attaccare frontalmente le élite agrarie. Era vero che la classe operaia era stata del tutto sguarnita e disarmata dalla fascinazione che lo Stato sviluppista esercitava sui partiti comunisti tradizionali e sui sindacati, tutti desiderosi di sedersi al tavolo negoziale della pianificazione e usufruire economicamente e politicamente dei suoi ingranaggi (cosa non dissimile da ciò che avvenne in Italia con l’economia mista e il welfare-state).
Ma i naxaliti non avevano colto il motivo reale di questi fenomeni, presi com’erano dall’urgenza delle lotte contadine, dalla debolezza del proletariato industriale e dai teoremi ideologici che volevano difendere, tutti derivanti dalla lettura terzinternazionalista del marxismo:

• tipicità e uniformità del modello borghese di sviluppo,
• conflitto di fondo tra rapporti feudali e rapporti capitalistici, anche nella loro forma,
• Stato come semplice “comitato d’affari” della borghesia e delle classi dominanti.

E, infine, per la volontà di agganciarsi a un’esperienza politica vincente, la Rivoluzione Cinese, e alla sua manifestazione allora più trascinante: la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria.

La crisi dello Stato sviluppista e l’apertura liberista
In sintesi, l’apertura liberista iniziata con Rajiv Gandhi negli anni ’90, dopo prudenti anteprime della madre Indira, era dettata da una crisi fiscale dovuta alle contraddizioni interne dello Stato sviluppista, alle crescenti pressioni del capitale internazionale in una situazione di debolezza politica dell’India non allineata dopo la caduta del Muro di Berlino, alle pressioni dei grandi imprenditori e a quella di un’emergente classe media. Per altri versi l’apertura finale al liberismo fu il riconoscimento da parte dei grandi industriali, cresciuti nel guscio protettivo dello Stato sviluppista, delle potenzialità che avevano acquisito.
Iniziò così il deciso ripiegamento dello Stato per far spazio alla grande borghesia nazionale, alla sua integrazione-concorrenza con gli altri agenti capitalistici globali e l’apertura agli investimenti esteri e alle istituzioni finanziarie internazionali.
In India la perdita di sicurezza dovuta a queste dinamiche, sottolineate dalla crescente integrazione nella cultura globalizzante, portarono per contrasto a un rinvigorimento di quelle fedeltà pre-moderne che erano state utilizzate dalla penetrazione capitalistica, sia in epoca coloniale sia postcoloniale e quindi mai attaccate frontalmente.
In più, il secolarismo del Congresso che all’epoca Nehru-Gandhi si era messo al servizio di un impegno di sviluppo laico e moderatamente distribuito, era passato aggressivamente alle dipendenze del neo-liberismo, che trasformava in merce ogni cosa, era fortemente antiegalitario e produceva uno sviluppo polarizzato che metteva in forse interessi acquisiti. La risposta a questo attacco era quindi un ritorno a valori anti-secolari e comunitari tradizionali.
Il termine “swadeshi” prese così un significato reazionario e riducibile a piacere a ogni livello di identità e di fedeltà: nazione, stato, villaggio, etnia, casta, religione. Un significato che a ben vedere nascondeva la stratificazione dello scontento per l’abbandono dello Stato sviluppista (di principio “swadeshi”, come abbiamo visto) a maggior gloria del capitale internazionale e dei gruppi di potere indiani con interessi mondializzati. Così l’Hidutva (il movimento nazionalista indù) traeva linfa da una diffusa paura per l’influenza omogeneizzante esercitata dagli strati alti dell’emergente classe media con la sua cultura inglese-cosmopolita e da quella per la crescita del consumismo accompagnata dalla distruzione di ogni barriera alla mercificazione e dalla conseguente devastazione di valori e di modi di vita. Queste paure erano ampliate dal sentimento di impotenza di fronte a ciò che non può essere definito altrimenti che come una deità remota: il “mercato internazionale”. Per reazione la morente Classe Intermedia che gravitava attorno allo Stato sviluppista, vasta e composita, si rifugiava nell’ordine sociale garantito dal suo pantheon tradizionale, “swadeshi” per definizione e meno astratto .
Fu questa la base della forza acquisita in pochi anni dal Bharatiya Janata Party (il BJP, partito nazionalista indù) che si presentò sulla scena politica come un vero ospite non invitato e sostituì al governo centrale il Congress Party dopo decenni d’incontrastato dominio.
Sono gli anni in cui in Italia l’operazione giudiziaria Mani Pulite porta il suo attacco ai partiti che si sono identificati con lo Stato interventista e assistenziale e che su di esso hanno prosperato con le loro clientele, mentre i “salotti buoni” puntano sul ceto politico post comunista rimasto ai margini di quel potere, anche se nell’economia “parakeynesiana” ha trovato il suo forte spazio politico. Ma come accadde anche in India col BJP, allo stesso modo la Lega Nord e Forza Italia, sbaragliando ogni previsione, si presentarono nello scenario politico italiano come prepotenti ospiti non invitati, scompaginando i piani dei “salotti buoni”, con le loro politiche ambigue e populiste.
Dopo un primo assestamento, così come il secondo governo Berlusconi anche il secondo governo di Atal Behari Vajpayee, leader del BJP, fu il primo a durare per tutta la legislatura dopo anni di elezioni anticipate. Ma una volta al potere il BJP pur continuando a predicare dal pulpito una resistenza swadeshi alla globalizzazione occidentale, continuò in realtà lungo la linea delle riforme liberiste. In particolare, in agricoltura Vajpayee lanciò la National Agricultural Policy (NAP) con l’obiettivo pubblicizzato di far diventare l’India il più grande esportatore di prodotti agricoli del mondo. La NAP istituiva due forme privilegiate di conduzione delle coltivazioni: il contract farming e il corporate farming che legavano l’agricoltore agli interessi dei grandi operatori dell’agri-business nazionale e internazionale e privilegiavano le grandi imprese agricole modernizzate.
Ma la sconsiderata e sanguinaria politica antimusulmana del BJP, la delusione popolare dovuta al suo sostanziale disinteressamento per le vastissime masse povere tagliate fuori dalla “Shining India” e, infine, l’inaffidabilità del BJP agli occhi del grande capitale nazionale e internazionale per portare a buon fine il compito di traghettare l’India nel nuovo contesto e nei nuovi meccanismi di accumulazione globale, decretarono nel 2004 la fine della prima parte del periodo di transizione e rimisero in sella il redivivo Congress Party guidato da Sonia Gandhi, stavolta protetto a sinistra da CPI e CPM, associati all’UPA (United Progressive Alliance) grazie alle sirene del potere e alla minaccia di un ritorno dell’aborrito BJP ritenuto poco meno che parafascista. Una versione indiana dell’antiberlusconismo, collante ideologico che permise di risalire la china anche alle coalizioni di centrosinistra italiane .
Ma anche in India l’iniziale entusiasmo degli strati popolari e degli intellettuali di sinistra per la sconfitta del BJP furono raffreddati in pochissimi giorni, come ci ricorda Arundhati Roy .
Il primo ministro Manmohan Singh, economista di casa alle istituzioni finanziarie internazionali e artefice dell’apertura liberista agli inizi degli anni ’90, ha infatti dato fin da subito un colpo all’acceleratore delle riforme mercatiste, solo parzialmente controbilanciate da misure solidaristiche e assistenzialistiche controllate da Sonia Gandhi. Dal canto loro le forze di sinistra, in primo luogo il CPM, alleate esterne del governo, si sono distinte, ove al potere, in politiche antipopolari di cui Singur e Nandigram sono state gli esempi più clamorosi.
E non c’è da stupirsi: l’opportunismo marxisteggiante dell’ortodossia dei fini, ovvero del passaggio necessario attraverso lo sviluppo capitalistico, che già Lenin aveva denunciato a suo tempo (il “rinnegato Kautsky”), è la foglia di fico ideologica con cui il CPM e gli altri partiti della sinistra non-naxalita cercano di motivare il proprio servilismo nei confronti delle multinazionali indiane e straniere. Inoltre, laddove il centralismo autoritario cinese è uno scoglio contro i ricatti di questi potentati economici, l’impianto federale indiano spinge gli stati a farsi concorrenza l’un l’altro e ad accettare ogni genere di diktat. E il caso di Singur è apodittico. La Tata Motors pretendeva quasi 1.000 acri di terra per assemblare la famosa Nano, la macchina più a buon mercato del mondo. Un’estensione esorbitante, che nascondeva progetti di altra natura, come la speculazione immobiliare. L’accordo accettato recentemente dal governo bengalese dopo un’estenuante trattativa coi contadini prevedeva la rinuncia da parte della Tata di 400 acri. Ma la risposta di questi “capitalisti con un’anima”, come vengono simpaticamente definiti dalla stampa italiana, è stata “O si fa come diciamo noi, oppure ce ne andiamo da un’altra parte: è una questione di principio – cioè di esercizio del potere”. E così è stato. Per questo motivo ritengo che il movimento dei contadini, appoggiato da pressoché tutta l’intellighenzia bengalese e indiana, abbia quanto meno conseguito una vittoria per la democrazia.
A livello di governo centrale, così come da noi in Italia nel governo Prodi II, gli unici mugugni da parte della sinistra sono derivati dalla politica internazionale, in particolare dall’accordo sull’energia nucleare che Manmohan Singh ha firmato con gli Stati Uniti.
La politica fellona e deludente del Congress e dei suoi alleati di sinistra ha così preparato, a quanto si prevede, un ritorno trionfale della destra indù alle prossime elezioni.
In questo, una volta tanto, l’Italia ha anticipato l’India.

Il problema dello “sviluppo”
Ma tuttavia l’India non è l’Italia, così come svilupparsi capitalisticamente tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo non è la stessa cosa che svilupparsi capitalisticamente nel XVIII e nel XIX secolo. Vediamo perché è così mentre ci avviamo alle conclusioni politiche.
Ma è necessario ritornare per un attimo alla situazione rurale in India.
Per quanto concerne il mondo agricolo nel suo complesso, che comprende più della metà della popolazione, possiamo sintetizzare i problemi come segue:
1. generale subordinazione dell’agricoltura allo sviluppo dell’industria e dei servizi,
2. accelerazione nelle campagne del processo di sussunzione reale del lavoro e delle forme di proprietà ai processi di accumulazione capitalistica,
3. accentuata dipendenza alimentare dall’estero.
Nelle ultime due decadi gli investimenti pubblici in agricoltura sono colati a picco mentre è cresciuta a dismisura la dipendenza dall’estero causata dalla conversione delle colture per il consumo in colture per l’esportazione e collegata direttamente anche a specifiche politiche di adozione di monoculture e di colture geneticamente modificate che richiedono basilari input esterni. Le politiche agricole di contract farming e di corporate farming hanno di fatto definitivamente bloccato a metà le riforme agrarie privilegiando le grandi e le grandissime tenute modernizzate (spesso ricomposte con metodi mafiosi) e facendo desistere i governi dal mettere in pratica la seconda parte delle riforme stesse, ovvero l’aiuto ai contadini poveri e marginali e il loro accesso al credito, necessarie per la loro stabilizzazione. La “via prussiana” al capitalismo agrario si è così trasformata da residuo “semi-feudale” a organico strumento dell’agri-business internazionale mostrando ancora una volta che una stessa forma può nascondere inaspettati contenuti . I fattori appena descritti congiunti alla sottrazione di terre all’agricoltura a favore delle attività industriali e delle infrastrutture per lo sviluppo, con molta probabilità non potranno che accentuare la dipendenza alimentare dell’India dall’estero e dalle multinazionali agro-chimiche e approfondire inoltre il processo di marginalizzazione e di espulsione delle masse contadine dovuto alla sussunzione reale del lavoro agricolo al capitale mondializzato. A ciò bisogna aggiungere la devastazione delle terre abitate dai tribali dovute a un rinnovato interesse per le attività estrattive e all’industria energetica. I prezzi dello sviluppo sono e saranno quindi ribaltati sulle masse contadine e sulle comunità più deboli e meno protette dalla politica istituzionale .
Questo è quanto sta succedendo mentre l’India si sta avviando a diventare la terza potenza economica mondiale.
A questo punto bisogna domandarci se si tratta di un prezzo da pagare al “darwinismo sociale”, che, come alcuni sostengono, pur se drammatico porterà in tempi ragionevoli a un generalizzato miglioramento del tenore di vita (tralascio per adesso un’analisi, pur doverosa, di questo concetto), così come è successo in Europa nella sua fase di avvio dello sviluppo capitalistico e nelle successive fasi di ristrutturazione, oppure – ma in effetti è la prima domanda – se siamo in presenza di un quadro inedito al quale i vecchi modelli e le vecchie esperienze sono applicabili poco o nulla.
E’ un punto nodale che investe radicalmente le prospettive e le azioni politiche di chi si muove in un’ottica anticapitalista e comunista. Perché se sbagliamo la risposta potremmo finire senza accorgercene a replicare le invettive del viceré Lytton, che tacciava di “isteria umanitaria” i timidi tentativi del duca di Buckingham, governatore di Madras, di soccorrere i contadini indiani che morivano a milioni durante la carestia del 1876-1879 procurata proprio dalle misure liberistiche del viceré.
Sto portando il ragionamento al limite, ovviamente, secondo un usuale e fecondo procedimento matematico. Ma è bene tenere a mente i limiti, perché è qui che si intrecciano i due famosi piani, quello orizzontale delle contraddizioni tra agenti capitalistici e quello verticale tra classi dominanti e classi dominate. E’ qui che si intrecciano nodi già intricati, come la lotta al monocentrismo statunitense, la sovranità nazionale, lo sviluppo, lo sfruttamento classista, lo stress ecologico, le disuguaglianze sociali e forse, con la crisi che avanza, persino l’elementare diritto all’esistenza.
E se non si trova qualche bandolo, non dico il bandolo unico che tutto disbroglia, ma almeno qualche bandolo, non solo non avremo alcuna speranza di pensare razionalmente e non volontaristicamente ad una trasformazione anticapitalista, ma nemmeno di approntare resistenze di fase efficaci, durevoli e non campate per aria. Per non parlare del problema dell’egemonia e della soggettività antagonista, che invece di emergere, se ci si sbaglia, rischia di essere affossata.
La domanda che ho posto potrebbe sembrare cinica e persino inadeguata se non “indegna” per uno che si dichiara anticapitalista e comunista.
E infatti la risposta ingenuamente comunista dovrebbe essere “Non si paga nessun prezzo sociale allo sviluppo capitalistico, per nessun motivo. E men che meno per la sua crisi”, che però non è una risposta a quella domanda, ma a un’altra “Come ti piacerebbe che andasse?”.
Intanto bisogna chiarire che a far pagare prezzi sociali, se del caso, sarà chi detiene le capacità di decidere capitalisticamente e non chi si pone queste domande. E in secondo luogo è meglio ricordare che spesso le idee più “radicali” e “pure” nascondono in realtà il proprio contrario, cioè funzionano solo se funziona la loro polarità inversa. Se la crisi la devono “pagare i padroni”, ciò significa che i “padroni” devono avere i soldi per pagarla. Ora, o si pensa al “padrone” come a un Paperon de’ Paperoni nel suo deposito, ovvero si pensa al “capitale” come a una cosa (per cui anche l’euro che ho in tasca è “capitale”), cioè come a una data quantità da redistribuire e non come a un processo – e ciò va bene solo per Paperopoli -, oppure bisogna assicurarsi che il “padrone” continui a fare i soldi da redistribuire, eventualmente perché soggetto a una qualche forma di potere antagonista (quindi di fatto a un qualche forma di potere coercitivo). Oppure, ultima possibilità, si pensa che si possa saltare dall’oggi al domani (ripeto: dall’oggi al domani) al comunismo nella forma più compiuta, estinzione dello Stato compresa. Credo che non ci siano altre alternative.
A mio modo di vedere, dobbiamo invece cercare di rispondere valutando quali sono le possibili mosse e le prevedibili contromosse sistemiche, come in una partita a scacchi, evitando di mangiare soddisfatti una torre, un cavallo e un alfiere per poi farsi soffiare la regina e magari finire sotto scacco in continuazione. La storia del capitalismo non è avara di esempi di soluzioni sociali legittime che si sono tramutate in disastri quando non sono riuscite a stare al passo col cambiamento.
Paradigmatica è la storia della legislazione inglese per i poveri del Seicento e del Settecento. In teoria le leggi erano “ottime”, garantivano il “diritto di vivere” a tutti: chiunque doveva raggiungere un reddito minimo X agganciato a un meccanismo di scala mobile (tarato sul prezzo del pane). Se ti davano un salario minore di X, la differenza la dava lo Stato. Se non percepivi nemmeno un salario, l’X te lo dava per intero lo Stato. A lungo andare, con lo sviluppo del lavoro salariato, il non adeguamento delle leggi per i poveri alle nuove dinamiche si rivelò una trappola micidiale proprio per quelli che doveva salvaguardare. Il problema era che queste “buonissime intenzioni” iniziarono a dover convivere con le regole di una società di mercato che ormai stava occupando tutta la società; e ciò non era possibile, perché non avendo impedito il funzionamento di quelle regole in generale ma solo nel settore del lavoro, e non essendo in grado di scardinarle, quelle “buone leggi” finirono per diventarne complici inintenzionali. Il risultato fu che i capitalisti tenevano bassi i salari perché tanto ci pensava lo Stato, i salariati s’impoverivano e, in aggiunta, non sentivano nemmeno la necessità di autorganizzarsi in sindacati. E’ un solo esempio di come le buone intenzioni possano indurre drammatici risultati contrari, se non tengono in conto i meccanismi reali o non sono in grado di cambiarli radicalmente. E’ un esempio storico, ma quanto di questo atteggiamento superficialmente buono, ma in realtà buonista e paternalista, è presente ancora oggi nella sinistra in modo acritico e incurante dei meccanismi politico-economici in atto? Un approccio che nulla ha più di marxista perché nasconde la polvere sotto il tappeto delle contraddizioni reali che continuano imperterrite ad operare fino a ribaltare nel loro contrario anche le migliori, ma superficiali, intenzioni. Senza contare – e qui arriviamo al peggio – gli interessi e le rendite di posizione politiche ed economiche che trovano rifugio nelle “buone intenzioni”, a danno persino di chi ne dovrebbe realmente usufruire. Un fenomeno che ricorda quelle potenti ONG che spendono nei progetti ai loro assistiti il rimasuglio di quanto spendono in struttura. Ma guai a dirlo! Perché solo il denunciarlo è un attacco ai presunti loro “protetti”.
Ben differente è un discorso sul contrasto dei ritmi dello sviluppo capitalistico – ove, nei termini e con le modalità in cui ciò ha un senso -, e quello sui suoi limiti.
Il primo non si racconta storie di antagonismo o di prefigurazione del socialismo (o addirittura del comunismo), e cosa più importante, non le racconta ad altri. Lo possiamo sintetizzare con le parole di Karl Polanyi, che in questo caso si adattano molto bene perché ciò che è successo a Singur ricorda da vicino le recinzioni, le enclosures, descritte da Marx nel “Capitale” nel capitolo sull’accumulazione originaria, ovvero l’espulsione dei contadini dalle terre da loro coltivate e dalle terre demaniali a favore dell’espansione dell’industria laniera nel XVI, XVII e XVIII secolo. Secondo Polanyi:

“Per quanto riguarda l’Inghilterra è certo che lo sviluppo dell’industria laniera rappresentava una risorsa per il paese che doveva condurre all’istituzione dell’industria del cotone, veicolo della rivoluzione industriale. [...] Tuttavia se non fosse stato per la politica coerente degli statisti del periodo dei Tudor e dei primi Stuart, il ritmo di quel progresso avrebbe potuto essere rovinoso ed avrebbe trasformato il processo stesso da un fatto costruttivo in un avvenimento degenerativo. Da questo ritmo infatti dipendeva soprattutto la possibilità per coloro che venivano spossessati di adattarsi alle mutate condizioni senza danni fatali per la loro sostanza umana ed economica, fisica e morale [...].”

Quindi, “Se noi crediamo che questo ritmo sia inalterabile, o ancor peggio se noi crediamo che sia un sacrilegio interferire con esso, allora non rimane naturalmente alcuno spazio per un intervento.” E ciò è inammissibile, esattamente come lo sono le “consuete considerazioni di ‘lungo periodo’ della teoria economica” perché “se l’effetto immediato è deleterio, allora, fino a prova contraria, lo è anche l’effetto finale.”
Proprio per considerazioni simili, io ritengo che la lotta dei contadini di Singur e di Nandigram non sia stata una resistenza residuale, più o meno feudale, destinata ad essere spazzata via dal progresso come è avvenuto finora nella storia dello sviluppo capitalistico. E sintetizzo l’argomento in due punti:
- in primo luogo perché ogni individuo e ogni comunità sono legittimati a proteggere il proprio benessere fisico e morale e quindi ad interferire col ritmo dei cambiamenti;
- poi perché non possiamo applicare un ragionamento che sarebbe giustificato, eventualmente, solo dal senno di poi che avremmo tra venti o trent’anni, cioè una sorta di giustificazionismo storicista preventivo.
Infine c’è una ragione più generale: non possiamo applicare meccanicamente l’esperienza passata a una realtà che si dà in termini molto differenti, perché lo spazio dei problemi e quello delle soluzioni non si ripresentano mai nello stesso modo.
Vediamo allora di definire le caratteristiche generali di questi spazi. Sarà un paragrafo breve perché per me è ancora tutto un rebus: non solo le soluzioni ma la stessa impostazione corretta dei problemi.

Spazio dei problemi e spazio delle soluzioni
La Storia è maestra in quanto ci mostra il percorso compiuto da certe forze per arrivare alla situazione in cui siamo e le analogie quindi servono solo se vengono filtrate dalle differenze. Perché è proprio il percorso storico che ci obbliga più a un’analisi differenziale che non a un’analisi comparata, dato che esso modifica per definizione ciò che incontra sul suo cammino.
Lo sviluppo capitalistico dell’India non avviene nelle stesse condizioni storiche in cui ha avuto luogo quello occidentale.
In Occidente la base della popolazione era molto minore, andavano creati mercati nazionali i più ampi possibili, singole innovazioni tecnologiche come la macchina a vapore, il motore a scoppio e l’energia elettrica poterono dar luogo allo sviluppo imponente legato alle ferrovie, alle navi di ferro, alle nuove tecnologie belliche, alle automobili, cioè allo sviluppo basato sul carbone, sul ferro e sul petrolio; uno sviluppo che, a mia conoscenza, non è stato ancora superato da quello indotto dalle tecnologie elettroniche e di telecomunicazione (benché il ritmo d’innovazione in questi settori sia molto più alto) e che, a mio avviso, difficilmente sarà uguagliato da quello indotto dalle biotecnologie.
E, in aggiunta, ora si sta parlando della “ricollocazione” di almeno un miliardo e mezzo di persone, se si pensa alla popolazione rurale asiatica nel suo complesso. I settori sociali che venivano emarginati dallo sviluppo capitalistico occidentale avevano a disposizione interi continenti (le Americhe e l’Australia) dove emigrare, eppure erano incomparabilmente meno numerosi. Cosa succederà ora, con un miliardo e mezzo di persone in “esubero” o in “mobilità”?
Quest’ultimo è un punto centrale che si ricollega a ciò che sulla scia del francese Henri Lefebre e di David Harvey possiamo chiamare “produzione di spazio” e “riorganizzazione spaziale”, un meccanismo imprescindibile dello sviluppo capitalistico come l’abbiamo conosciuto finora . E’ impossibile affrontare ora questo tema in maniera adeguata. Ricordo solo che nello sviluppo capitalistico occidentale del XVIII-XIX secolo, un ruolo chiave fu giocato dall’espansione coloniale britannica, che è una forma basilare di “produzione di spazio”. E’ l’esempio più più clamoroso. Ma altri ce ne sono stati, come l’espansione imperiale delle ex-colonie inglesi in America .
A questo punto possiamo notare che per molti versi il tentativo degli Stati Uniti di risolvere a proprio favore la crisi sistemica in corso ha cercato di ricalcare le dinamiche imperiali britanniche, che prevedevano un libero mercato tra alcuni partner (allora esclusivamente occidentali) e un controllo-coordinamento delle risorse e degli scambi mondiali sia per questioni economiche (controllo dei prezzi e della disponibilità), sia per ribadire urbi et orbi qual’era la nazione egemone. E’ da qui che nascevano le discriminazioni giustificate culturalmente dall’Orientalismo e riprese nel 2002 da Robert Cooper, consigliere personale per gli affari esteri del premier britannico Blair (laburista, cioè “di sinistra”, per chi se lo fosse scordato, e alleato di ferro di George Dubia Bush), il quale sosteneva che:

“dobbiamo abituarsi ad applicare due pesi e due misure [...] dobbiamo, tra di noi, agire secondo le leggi e nel quadro di un (sistema) di sicurezza aperto e cooperativo. Altrove, quando si tratta di stati collocati al di fuori del continente post-moderno europeo, dobbiamo tornare ai metodi più duri di un’epoca che ci ha preceduto: la forza, l’attacco preventivo, lo stratagemma [...] anche se in Europa le parole impero e imperialismo sono divenute obbrobri, le opportunità, se non proprio la necessità di una colonizzazione, sono tanto forti quanto lo erano nel XIX secolo [...] è una nuova forma di imperialismo, accettabile dal punto di vista dei diritti umani e dei valori universali [...]. Un imperialismo che abbia per scopo, come ogni imperialismo, di portare l’ordine e l’organizzazione [...]. Come Roma [l'Occidente] trasmetterà ai cittadini dell’impero alcune sue leggi, gli assicurerà un po’ di denaro e costruirà qualche strada”.

Ma la possibilità imperiale di risoluzione della crisi sistemica al pari delle possibilità di sviluppo capitalistico delle nazioni emergenti, si è molto modificata rispetto alle condizioni in cui si è sviluppato il capitalismo in Occidente. Perché, ad esempio, non sono più le stesse in termini di disponibilità sociale di spazio, come abbiamo fatto notare. E quindi non lo sono nemmeno in termini di disponibilità geopolitica di esso. Questi argomenti – tutti da sviluppare – portano al problema della disponibilità ecologica (al quale è strettamente legata la questione dell’agricoltura contadina). Su questo tema posso solo sottolineare che così come la disponibilità sociale di spazio è subordinata alla gestione del potere, allo stesso modo lo è la disponibilità ecologica. In altri termini, non penso abbia senso separare la questione ecologica dalla questione del potere e del conflitto. Anzi, ripeto, la prima è da subordinare logicamente alla seconda. Per il semplice fatto che se non si risolve la seconda non si risolve nemmeno la prima .
Se quindi nello spazio dei problemi si ripropongono in parte situazioni già note in nuove vesti (questa “riproposizione” è tutta dovuta al “nocciolo duro” del modo di produzione capitalistico), lo spazio delle soluzioni si è molto modificato e, io ipotizzo, si è ristretto.

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  1. [...] conosciuto Piero Pagliani per via di alcuni suoi notevoli saggi sui grandi movimenti di resistenza contadina in India, noti come [...]

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