Elezioni in Francia e in Grecia. L’Europa, la sinistra e il neo-liberalismo; l’estrema destra e il fenomeno Marine LePen (alcune note critiche in risposta alle recenti valutazioni di Costanzo Preve sulle elezioni francesi)

mag 9th, 2012 | Di | Categoria: Primo Piano

la Redazione

 

Due importanti momenti elettorali si sono susseguiti nel volgere di pochi giorni in Europa. Le elezioni presidenziali francesi e le elezioni politiche greche. Si aggiungono poi le regionali tedesche (limitate però allo Schleswig-Holstein) e le amministrative italiane, che commenteremo però a parte in altra sede.

Occupiamoci pertanto di Francia e Grecia approfittando dell’occasione per dare una risposta esauriente ed argomentata alle recenti considerazioni espresse da Costanzo Preve in relazione alle elezioni francesi.

In Francia al secondo turno delle presidenziali vince di misura François Hollande. E’ probabile che si tratti del male minore, non perché siamo di fronte ad un candidato autocertificato socialista o di sinistra (le distinzioni autocertificate in quest’Europa di servitori del neo-liberalismo bipolarista in salsa pesante valgono meno di zero), ma perché potrebbe (usiamo il condizionale per precauzione) smuovere di qualche centimetro la linea filo-UE e filo-USA suicida (e omicida verso gli altri paesi) che Sarkozy ha pedissequamente seguito nel suo mandato. Probabilmente Hollande smuoverà di pochissimo gli equilibri, ma, almeno sulla carta, alcune sue dichiarazioni di critica dell’assetto europeo, (ad esempio dello scellerato patto fiscale) se non restano pure parole, trattandosila Franciadi un paese di un certo peso, potrebbero scuotere minimamente le strutture della tecnocrazia di Brussels. Non c’è tuttavia da sperarci troppo! Sappiamo bene chi siano i socialisti francesi, quale sia stato il loro percorso storico verso la piena adesione al neo-liberalismo, al filo-europeismo di Maastricht e di Lisbona e alle guerre NATO-USA-UE. Tuttavia entro il PSF, vi sono componenti meno prone a tali dogmi che, forse, potrebbero trovare qualche spazio. Si vedrà.

In merito al primo turno, va giudicato positivamente, in prima battuta e senza scendere nel dettaglio della composizione di tali voti, il voto anti-liberista ed anti-UE palesato dalla sommatoria degli elettori di Melanchon, Marine LePen, Dupont-Aignan, Poutou e Atraud,  che assieme prendono i voti del 30% dell’elettorato francese votante. Fatto positivo semplicemente nella misura in cui si tratta di un voto non allineato con la normalizzazione assoluta capitalistica giocata entro il bipolarismo degli uguali. Il fatto che il Front National sia stato il partito di maggior peso internamente al variegato gruppo di “opposizione” al partito unico bipolare è invece un fatto negativo (senza con ciò affermare l’esistenza di candidati ideali entro tale gruppo) che impone riflessioni serie ed è quello che faremo nella seconda parte di questo articolo in risposta critica alle valutazioni espresse da Costanzo Preve.

Malgrado comunque un 30% di forze fuori dallo schema PS-UMP, rimane un enorme 60% di elettori francesi il cui voto è stato risucchiata nella consueta spirale del voto utile già al primo turno; e, soprattutto, come si rimarcherà poi, rimane l’inesistenza di una seria opposizione anticapitalistica di carattere non estremistico-residuale.

Per quanto riguarda le elezioni greche, il risultato mostra, in questo caso, un elemento senza dubbio positivo, ovvero il crollo di consensi dei due partiti compromessi con l’accettazione passiva del brutale piano di risanamento imposto dalla Troika in cambio degli aiuti finanziari. L’elettorato punisce in maniera netta i due partiti dell’alternanza neo-liberale e ultrafilo-europeista, artefici delle politiche recessive e socialmente distruttive dettate da servilismo e soggezione ai poteri della tecnocrazia UE appannaggio (oltre che del controllo USA) dei capitalismi continentali più forti (tedesco e francese in prima battuta). Ebbene tali forze irrimediabilmente compromesse con l’ordine di Brussels insieme ottengono solo il 30% dei consensi, il 13% al Pasok (partito di centro-sinistra) e il 17% a Nuova Democrazia (partito di centro-destra). Il resto dei voti se li spartiscono nell’ordine: Syriza, coalizione di sinistra su posizioni piuttosto morbide, contrarie al memorandum, ma di carattere filo-europeo, favorevoli alla permanenza della Grecia nella UE (con il 16,7%); Anel (scissione nazionalista di Nuova Democrazia) (10%); il KKE (Partito Comunista greco) (8,47%); Alba dorata (di estrazione espressamente neo-nazista) (6,97%) e infine la sinistra democratica (scissione centrista di Syriza) che prende il 6,10%.

Gli altri partiti non superano la soglia minima per entrare in parlamento.

Come appare evidente la composizione di tali forze è estremamente eterogenea e, stante il fatto che Pasok e Nuova Democrazia non hanno i numeri per governare in una grande coalizione filo-europea, è ben probabile che non si riesca a costituire un governo. E’ nelle mani di Syriza ora (secondo partito) il compito di tentare di costituire un governo che il primo partito (ND) non è riuscito a creare.

L’elemento positivo, come si diceva, è il tracollo delle forze compromesse in maniera più diretta con la svendita del paese; il dato negativo è invece lo scarso (quasi nullo) rafforzamento del KKE (partito comunista di Grecia) l’unica forza autenticamente di opposizione. Syriza appare infatti la stampella sinistra del PASOK, similmente al ruolo che potrebbe avere SEL nel nostro paese (attrazione gravitazione verso alleanze di centro-sinistra asservite al peggior capitalismo). La crescita esponenziale dei neo-nazisti passati dal nulla al 7% è un fattore senza dubbio molto  inquietante. Alba dorata, da quel che al momento è dato sapere, ha i caratteri di una formazione fortemente xenofoba, ultra-identitaria che come fulcro del proprio programma politico ha i temi puri e semplici della cacciata degli immigrati e della sicurezza, oltre a richiami di carattere para-nazista. Forze di questo tipo, in tempi di crisi e sflilacciamento del tessuto sociale, trovano purtroppo terreno fertilissimo tra tutti i ceti e le classi sociali. Soltanto una seria proposta politica sovranista e anticapitalistica coerente espressa tramite modalità e linguaggio comprensibile alle classi popolari, ai loro bisogni e al loro immaginario culturale potrà sottrarre seriamente terreno all’avanzata di forze reazionarie. Ciò che accadrà in Grecia a questo punto è difficile prevederlo. Come detto, la formazione di un governo “normale” sembra un’ipotesi molto improbabile. Possibile un nuovo governo tecnico (ma appoggiato da chi?). Un ritorno al voto, quasi di sicuro sostenuto da una martellante propaganda sul rischio di ingovernabilità, avrebbe forse un effetto terrorizzante capace di spostare nuovamente verso il centro i voti. Ma non è affatto scontato. Quel che è certo è che i greci, anche se in maniera confusa e senza appigli forti, hanno comunque dato un segnale di stanchezza verso l’esito catastrofico espresso dal neo-liberalismo europeo (in particolare nei paesi periferici colonizzati).

 

Il fenomeno Marine LePen. Alcune note critiche sulla recenti valutazioni di Costanzo Preve

 

E veniamo ora ad un’analisi del fenomeno Marine LePen in Francia, sotto forma di  risposta critica a quanto dichiarato di recente da Costanzo Preve.

Recentemente, in vista del primo turno delle elezioni francesi, Costanzo Preve ha dichiarato, in un articolo intitolato “se fossi francese” che, in Francia, avrebbe votato al primo turno per Marine LePen e poi, al secondo turno, per François Hollande.

La redazione di comunismo e comunità, ha ritenuto tale posizione non soltanto profondamente sbagliata, ma anche del tutto fuori strada rispetto al percorso filosofilo-politico che Preve stesso ha impostato nell’ultimo ventennio.

Per questa ragione riteniamo utile scrivere qualcosa al riguardo, per spiegare le ragioni del nostro dissenso in maniera argomentata.

Esprimere un dissenso in termini puramente formalistici, affermando semplicemente che Marine Le Pen e il Front National sono di estrema destra o neo-fascisti, sarebbe, oltre che un’operazione di indebita banalizzazione di un fenomeno meritevole di essere indagato approfonditamente, anche una maniera di eludere il confronto sostanziale.

Ebbene, la nostra risposta critica a Preve non sarà sul terreno delle etichettature, ma della sostanza del programma e del messaggio del Front National.

Il fatto in sé che il Front National abbia un’etichettatura storica “di destra sociale”  e che sia stato a lungo, in passato, il luogo politico dove ha prosperato una parte del neo-fascismo francese, pur trattandosi di un dato incontestabile e già di per sé eloquente, non sarebbe neanche il punto essenziale se realmente, per ipotesi, liberatasi di alcuni inaccettabili tratti reazionari, tale forza politica esprimesse, oggi, guidata da Marine LePen, un programma di sostanziale e complessiva opposizione alle dinamiche fondamentali dell’attuale sistema capitalistico. Non certo un programma rivoluzionario di rottura anti-capitalistica (cosa che da un tale partito ovviamente, per sua stessa natura, non potremmo aspettarci), ma una sostanziale opposizione alle sue dinamiche fondamentali. Ma così non è affatto e vedremo perché! Lo facciamo ragionando dapprima in generale sul ruolo delle destre sociali e poi scendendo nel vivo della natura del Front National.

 

La natura delle destri sociali

La natura delle destre sociali (o con un termine più onnicomprensivo e ancor più vago “destre estreme”), è, ed è stata, dal dopoguerra ad oggi, una natura non sempre facile da indagare, poiché si è trattato e si tratta di un enorme calderone di istanze poco definite in cui si alternano elementi ultra-capitalistici (tipico il caso delle destre xenofobe liberali e liberiste di diversi paesi europei), ad elementi di critica delle dinamiche più distruttive del sistema capitalistico, in alcuni casi in nome di una concezione puramente nazionalistica di difesa dell’interesse nazionale (spesso di carattere aggressivo, ultra-identitario, esclusivista e financo razzista), in altri casi in nome di istanze più universali, fino a casi di realtà che si autocertificano oltre alla destra e alla sinistra. Si tratta, in quest’ultimo caso, se vogliamo, proprio di quella galassia di rossobrunismo, genericamente intesa (su cui abbiamo recentemente discusso in risposta ad un articolo diffamatorio di Daniele Maffione), che cavalca confusamente istanze sociali forti spingendosi a reclamare forme di socialismo, di radicale riacquisizione del controllo del sistema economico sotto la sfera politica, di redistribuzione del reddito a favore dei salariati e dei ceti più deboli; in alcuni casi, peraltro, senza la tipica vocazione imperialistica e colonialistica espressa dai fascismi storici e dai neofascismi sorti nel dopoguerra.

Se, per ipotesi, una “destra” sociale vicina ad istanze “socialistiche” e libera da razzismo ,identitarismo esclusivista e vocazione suprematista e imperialista esistesse, essa si identificherebbe di fatto, concettualmente, con una sorta di social-democrazia economica a vocazione però conservatrice e tradizionalista nei tratti culturali e di costume e quindi apertamente polemica con il progressismo culturale della sinistra. Il punto di divario tra una destra sociale e una sinistra sociale (non rivoluzionaria), entro tali ipotesi, starebbe nell’orizzonte culturale e simbolico progressista o tradizional-conservatore

Mettiamo poi anche da parte (non certo per “non rilevanza”, ma per comprendere la natura profonda del fenomeno) il ruolo oggettivo svolto dalle destre estreme “sociali” reali dal dopoguerra ad oggi (collusione con i poteri forti capitalistici, ruolo di stampella della strategia della tensione atlantica fino allo stragismo per conto terzi). Sforziamoci di rimanere nei termini puramente ideali. In questi termini si potrebbe dire che il tratto determinante di tutte le destre sociali e socialisteggianti (laddove, sempre per ipotesi, libere ed estranee alla triade razzismo-autoritarismo-imperialismo) è  in ogni caso la refrattarietà verso una chiara comprensione della centralità degli aspetti marxianamente strutturali della società. Se il rischio di una tendenza ad esasperare la univoca centralità di questi aspetti è un tratto e difetto tipico di un determinato marxismo (difetto di economicismo), il rischio opposto è tipico proprio di tutti quei pensieri (entro cui vi sono anche le estreme destre sociali, ma anche molte altre correnti di pensiero, opposte per altri versi, ivi incluse le sinistre post-moderne) che spostano l’ago della bilancia verso un’integrale sottovalutazione della forza sistemica delle strutture economiche, fino all’estremo di una prevalenza assoluta del volontarismo politico-culturale. Da tale aspetto nasce spesso una forte contraddittorietà scivolosissima che in molti casi si rovescia in tragedia storica, come nel caso del fascismo e del neo-fascismo stampella del capitalismo; in altri casi si rovescia in depotenziamento o tragica farsa storica, come nel caso delle furono-sinistre social-democratiche convertitesi in forze al servizio del grande capitale.

Se poi, per assurdo, una destra “socialista” (libera dalla triade razzismo-autoritarismo-imperialismo) abbracciasse una schietta analisi strutturale dei rapporti di produzione e aderisse all’idea di un superamento del sistema capitalistico in tutti i suoi aspetti, e continuasse a definirsi “destra” solo nella misura in cui si presenta come forza culturalmente tradizional-conservatrice (in opposizione al progressismo-libertarismo-scientismo acritico della sinistra), allora semplicemente smetterebbe de facto di essere una “destra”  e andrebbe identificata semplicemente come una forza socialista e anticapitalista di carattere filosoficamente non progressista (cosa ben diversa dalla “destra sociale”).  Ma la storia ci dice che questo non è mai accaduto. La destra sociale  non ha mai espresso concretamente istanze universalistiche ed egualitarie di superamento o forte trasformazione del modo di produzione capitalistico.

Il terreno di scontro culturale tra progressismo e tradizionalismo è quindi un terreno che si muove parallelamente e diversamente rispetto al terreno di scontro tra egualitarismo e anti-egualitarismo economico-sociale. Una destra tradizionalista ed egualitarista non è mai esistita: non perché una cultura “tradizionale” (nel senso di non immersa nel mito, peraltro tutto borghese, del progresso) non sia conciliabile con una critica radicale  ed egualitaria del modo di produzione capitalistico (al contrario sarebbe del tutto conciliabile ed è tutto qui il problema fondamentale del profilo culturale di sinistra che è interno al progressismo capitalistico). Una destra tradizionalista ed egualitarista non è mai esistita perché semplicemente nel concetto e nell’immaginario “di destra” non può rientrare per definizione  l’egualitarismo socio-economico sostanziale inteso in maniera esaustiva e strutturale.  E, nel caso in cui vi rientrasse, non si potrebbe più parlare di destra, perché si avrebbe una destra monca, con la tradizione, ma senza disuguaglianza gerarchica. D’altro canto i profili storici novecenteschi di destra e di sinsitra, si sono oggi dissolti, materialmente, nella generale adesione al liberalismo, che è progressista nei costumi, individualista, ed anti-egualitario (ma non gerarchico) e quindi per sua stessa natura né di destra, né di sinistra.

In definitiva, la destra sociale, è, nel suo aspetto ideale, un conglomerato ideologico che lascia ricadere l’insofferenza culturale verso il caos dissolutivo capitalistico e verso la disuguaglianza del denaro, entro modalità alternative fondamentalmente sistemiche incapaci di una reale rottura con gli aspetti strutturali del capitalismo stesso.

 

Proposta anticapitalistica e orizzonte culturale

A priori non riteniamo in alcun modo che una sensibilità autenticamente anticapitalistica, incline alla critica radicale dei rapporti di forza, di alienazione e mercificazione generati da questo sistema socio-economico, debba inquadrarsi, per essere accettata e accolta, in un quadro genericamente “di sinistra” inteso nel senso di un codice culturale complessivo e variegato che include, oltre ai benemeriti aspetti di critica sociale delle disuguaglianze e dello sfruttamento  (in cui ci identifichiamo integralmente), anche un profilo culturale di carattere progressista, scientista, libertario, laicista, filosoficamente e politicamente pseudo-liberale e per lo più relativista (il codice “di sinistra” occidentale moderno, piaccia o no, è oggettivamente condito da tali elementi) etc etc.

Riteniamo anzi che un profilo anticapitalistico all’altezza dello scontro in atto contro il blocco di potere dominante non possa non tenere conto del fatto che progressismo, libertarismo individualistico, laicismo, liberalismo in tutte le sue forme, e i corollari profili filosofici relativistici e debolisti sono l’essenza ultima delle mura che il blocco di potere capitalistico ha eretto attorno a sé, rappresentandone soltanto la variante estetica “di sinistra”. L’autocertificazione “di sinistra” richiederebbe, vista l’estrema vaghezza e scivolosità della definizione, per lo meno una seria di ulteriori infinite specificazioni che costituirebbero una lunghissima lista di aggettivazioni di sostanza qualificanti, finendo, in ultimo, per rendere persino superflua l’aggettivazione iniziale “di sinistra”.

Pertanto il punto non è l’adesione ad un codice culturale e simbolico che riteniamo, anche in molte (non tutte, ma molte) sua ali “radicali” per lo più del tutto interno al blocco culturale e simbolico dominante, non essendone altro che una variante protestataria che ne ha però totalmente introiettato l’immaginario e la filosofia.

Nemmeno il punto fondamentale è l’adesione di un profilo anticapitalistico (anche solo moderatamente anticapitalistico) ad un codice univocamente marxista. Seppur profondamente e indissolubilmente legati (come d’altronde lo è Preve) al pensiero di Marx e alle sue intuizioni fondamentali, riteniamo che una sensibilità anticapitalistica e anti-individualista possa trovare origine da variegate sensibilità culturali. Basti pensare alle esperienze sud-americane ad esempio o a forme di anticapitalismo forte di ispirazione cristiana o semplicemente a tante culture non –marxiste di ispirazione umanistica che hanno nel novecento portato avanti una critica altrettanto radicale del sistema socio-economico capitalistico e del liberalismo politico ed economico. Noi di Marx non facciamo a meno e non possiamo farne a meno perché costituisce senza alcun dubbio uno degli assi irrinunciabili per un’impostazione filosofica esaustiva  e per un’analisi generale della società capitalistica in tutti i suoi aspetti. E tuttavia non snobbiamo né riteniamo “di serie B” ogni contributo valido di anticapitalismo conseguente e universalista, proveniente da diverse sensibilità filosofiche e culturali.

In sostanza l’anticapitalismo chiaro e conseguente, definito su contenuti forti, umanistici, egualitari e universalisti, su una chiara concezione dei rapporti economici, sociali e politici è un sentimento che può associarsi, sul piano culturale, a sensibilità anche divergenti che non rientrino necessariamente in codici simbolici pre-definiti e chiusi.

Tale premessa, utile per aver chiari i punti di partenza, rimane ancora sul piano delle definizioni.  Seppur utile dal punto di vista politologico e filosofico (le definizione sono importanti e non vanno lasciate al caso) e  meritevole di ulteriori approfondimenti, deve però lasciare spazio all’analisi sostanziale.

Tanto più, dal momento che viviamo in tempi in cui le definizioni e le etichettature categoriali sono divenute il lasciapassare per una collocazione nel mondo di carattere puramente emotivo (nel migliore dei casi) e opportunistico (nel peggiore), ci sembra molto importante (fino a che le definizioni non abbiano trovato un accordo ragionato circa il loro significato reale)  puntare solo ed esclusivamente sui contenuti, lasciando da parte i riferimenti pre-confezionati e badando alla sostanza. E’ solo ed esclusivamente su una sostanza argomentata che si esprime la nostra avversione al Front National.

 

La natura del Front National

Qual è la dunque la natura del Front National guidato da Marine LePen.?

Il programma di LePen a nostro avviso spiega tutto. Anche se nel suo libro potrà aver scritto cose senza dubbio interessanti in merito ad una critica radicale della globalizzazione capitalistica e della mercificazione (non lo abbiamo letto perciò ci rimettiamo alle citazioni di Preve), il programma del suo partito non può che essere un buon punto di partenza per discuterne i contenuti.

Nel proprio programma il Front National esprime, in termini di politica economica, una decisa opposizione all’indiscriminata apertura globale del capitalismo nazionale, a partire da una critica forte dell’Unione Europea, causa prima (formale) della perdita di sovranità degli Stati, della loro deindustrializzazione forzata, delle delocalizzazioni produttive e dell’impoverimento di larghi strati di popolazione che includono lavoro salariato e, più in generali i ceti più deboli. Un’analisi di per sé totalmente condivisibile che troppo spesso le forze di sinistra hanno voluto evitare in nome di un cieco europeismo scambiato per internazionalismo. I risultati di questo atteggiamento sono sotto gli occhi di tutti!

Ma andiamo avanti con il Front National. A fronte di una critica radicale dell’indiscriminata apertura del sistema socio-economico nazionale, il programma del partito non pone in alcun modo la questione sociale del capitalismo sul piano interno, se non in termini di eccessivo strapotere delle grandi imprese, in questo mostrando una vocazione puramente nazionalistica (senza ulteriori aggettivi). L’unico conflitto più volte evocato nelle righe del programma è quello tra le grandi imprese quotate nel Cac 40 (la borsa francese rappresentativa delle imprese più capitalizzate)  contro il tessuto produttivo delle medie e piccole imprese. Naturalmente tale conflitto esiste, ma, se estraniato dai rapporti sociali capitalistici intesi in tutta la loro complessa e gerarchica stratificazione (sia nel senso dei rapporti di classe, sia nel senso dei rapporti di censo, sia nel senso dei rapporti di subalternità economica in termini di sicurezza e stabilità del lavoro), perde totalmente di interesse in senso emancipativo.  Il Front National non parla di un blocco sociale del lavoro (ivi compresa parte del lavoro autonomo, professionista e della piccola imprenditoria lavoratrice) contrapposto ad un blocco del capitale (inteso come aggregato di capitali e rendite che vivono di sé stessi in parziale o totale scissione dal lavoro). Se lo facesse avrebbe avanzato una seria analisi dei blocchi sociali (oltre il purismo classista del rapporto formale con i mezzi di produzione)  nell’attuale capitalismo e delle flagranti contraddizioni espresse dalla divisione in classi e in ceti della società. Ma non lo fa in alcun modo, limitandosi a denunciare lo strapotere delle grandi imprese contrapposto al capitalismo sano delle piccole e medie.

Di una minima critica del capitalismo in sé neanche l’ombra, essendo il nemico il mondialismo; soltanto una critica apprezzabile, ma da sola del tutto insufficiente (se non come profilo strategico di breve periodo), delle indiscriminate aperture globali che hanno messo in concorrenza al ribasso i paesi gli uni contro gli altri penalizzando i diritti e le fasce più deboli della popolazione. Che tale punto, fatto proprio dalla LePen, sia decisivo e propedeutico logicamente a qualsiasi altra istanza sociale è assolutamente fuori di dubbio. Che il 95% delle forze politiche europee non ne parli è parte di una tragedia continentale che vede il trionfo del neo-liberalismo a frontiere aperte come orizzonte politico abbracciato a 360° da partiti, sindacati e movimenti di opinione. Bene quindi che il Front National ponga il problema in maniera radicale! Ma di certo, da solo, questo punto, pur ineludibile, non può condurre assolutamente ad una adesione al profilo programmatico del partito di Marine LePen che come visto, non contempla affatto una critica del capitalismo in quanto tale.

La politica economica interna del programma del Front National è inoltre del tutto priva di una seria rivalutazione del ruolo dello Stato come attore economico. Lo Stato sarebbe limitato esclusivamente a supervisionare il processo economico privato regolandone l’andamento, oltre che con dosi di protezionismo verso l’esterno, con sussidi all’agricoltura, alle imprese nazionali a maggior vocazione occupazionale e a maggior grado di innovazione tecnologica. Nessun programma di nazionalizzazione in nessun settore (neanche finanziario, bancario, assicurativo, energetico) o di ritorno dell’impresa pubblica spodestata da anni di privatizzazioni selvagge.

Nessuna seria considerazione del problema distributivo; nessuna seria considerazione della sfera della produzione come sfera di riacquisizione della sovranità popolare effettiva e di graduale sottrazione di terreno al capitale privato. Nessuna esplicita previsione di divieto di determinati tipi di produzione privata particolarmente odiosa ed immorale; nessuna vera de-mercificazione della vita socio-economica.

Un programma quindi assai debole in politica economica e sociale, condito da proclami (giusti in sé) alla direzione dello Stato dell’economia non suffragati però da alcun elemento programmatico esplicito.

E veniamo ora agli altri due aspetti più controversi: la politica migratoria e la politica estera.

Il primo è un punto estremamente difficile. L’idea che un paese possa esercitare un controllo sui flussi migratori e non debba semplicemente assecondarne in toto le dinamiche è giusta. I proclami “no border, no nation” di una certa estrema sinistra sono semplicemente irresponsabili e fanno finta di non vedere quale sia l’effettivo destino degli immigrati nei paesi capitalistici europei e l’inevitabile (per lo più) effetto di conflitto sociale tra poveri difficilmente gestibile da forze sociali non reazionarie e quindi mercé della stessa propaganda dell’estrema destra. Inoltre, neanche è condivisibile l’idea di appoggiare una sorta di diritto assoluto allo spostamento della forza lavoro mondiale che in realtà non ha alcun fondamento giuridico né etico. Che poi l’immigrazione di massa sia il frutto, in buona parte, della spoliazione imperialistica e che quindi lo sbuffare irritato di chi non vorrebbe gli squilibri sociali che l’immigrazione crea, ma non discute le politiche imperialiste sia semplicemente disgustoso è un punto fermo. Non c’è proposta di controllo dell’immigrazione possibile e coerente senza un conseguente antimperialismo e anticolonialismo!! Ma ammettere questo non significa credere che, fino a che non raggiungeremo il comunismo mondiale, l’immigrazione sarà semplicemente un fenomeno incontrollabile che sfugge integralmente alla sovranità degli Stati. Sappiamo peraltro che così non è, poiché nei fatti l’immigrazione è gestita eccome (la sua non gestibilità è un falso mito capitalistico utile a naturalizzare un fenomeno che è totalmente sociale), ma è gestita nel puro interesse capitalistico. Ed è gestita da parte di ciniche forze politiche che alternativamente (secondo la dialettica consolidata centro-destra, centro-sinistra) giocano allo spauracchio reazionario anti-immigrato per fomentare la guerra tra poveri o, al rovescio, al buonismo immigrazionista della globalizzazione buona che permette la libera circolazione di merci, capitali ed esseri umani (che ci consentono pure la sostenibilità del sistema pensionistico in società decadenti senza più figli!!).

L’immigrazione è oggi gestita dal capitale, tramite i suoi sicari politici, in funzione delle proprie esigenze di sfruttamento intensivo di manodopera, sia per sfruttare quella immigrata sia per depotenziare la forza contrattuale di quella interna.

Questo Marine LePen non solo lo ha capito, ma lo dice esplicitamente, affermando, diversamente dagli ipocriti di centro-destra e centro-sinistra, che la funzione dell’immigrazione altro non è che quella di poter liberamente sfruttare manodopera a basso costo mettendo peraltro i lavoratori francesi in concorrenza con i lavoratori stranieri propensi (per ovvie ragioni) a lavorare per un salario infinitamente più basso (non solo perché sono più sfruttati nei loro paesi, ma anche per un problema di diverso potere d’acquisto relativo delle monete).

Il concetto di controllo dei flussi migratori perciò, in un programma politico anticapitalistico, non andrebbe rovesciato (come vuole l’estrema sinistra) nel “basta controlli, flussi liberi per i migranti!”, ma andrebbe semplicemente subordinato non più alle esigenze brutali del capitale, ma alle generali esigenze socio-economiche di una società solidaristica, ai suoi difficili equilibri culturali e, soprattutto ad un concetto assolutamente prioritario che è il diritto naturale di ogni uomo di vivere e lavorare dignitosamente non dove desidera, ma nel paese in cui è nato e in cui ha costruito la propria esistenza (proposizione da cui deve scaturire un coerente antimperialismo e coerenti programmi di internazionalismo militante- che è l’esatto opposto del globalismo ideologico-).

La proposta del Front National di rimettere sotto controllo politico i flussi migratori sottraendoli alla pura valorizzazione del capitale, presa di per sé, non deve perciò suscitare particolare scandalo (il vero scandalo lo suscitano le politiche migratorie criminali del “entri chi vuole, quando ci serve a noi, e poi capitalisti liberi di sfruttare e bastonare i soggetti per definizione più indifesi”). Altro discorso è analizzare la coerenza o meno di una posizione di questo tipo rispetto a due fattori fondamentali: la politica estera e soprattutto la politica dei diritti sociali interni. Ed è qui che casca l’asino e che il Front National si rivela una forza reazionaria e antisociale.

Cominciamo dal secondo fattore, che è quello in cui il programma del Front National mostra il suo volto più nero e pericoloso. In tema sia di politica per la casa che di politica per l’occupazione, il partito di Marine LePen afferma il concetto, gravissimo e di stampo più che razzista esplicitamente classista, di priorità nazionale nella concessione del diritto alla casa e nell’allocazione dei posti di lavoro. Ora, se è logicamente ed eticamente del tutto congruo che uno Stato eserciti la propria sovranità politica sulla permeabilità dei propri confini, è invece assolutamente disgustoso che preveda regimi discriminatori in termini di diritti sociali tra residenti non cittadini e residenti cittadini nel proprio territorio.

Il concetto di cittadinanza è, naturalmente, un concetto importantissimo, di enorme significato etico-politico che è giusto valorizzare anche giuridicamente per quello che rappresenta. Tuttavia, quando si parla di diritti sociali (quali quelli alla casa e al lavoro), si parla della struttura materiale che mantiene integra la coesione di una società. Credere che tali diritti possano essere subordinati alla cittadinanza e nel contempo prevedere (come fa il programma del Front National) una disciplina più restrittiva per la concessione della cittadinanza, nel concreto significa accettare che vi siano centinaia di migliaia di lavoratori stranieri residenti che pagano le tasse nel paese, che educano i propri figli nel paese e che partecipano alla vita sociale e culturale del paese, relegati per anni ad una condizione di serie B: una sorta di previsione esplicita di società giuridicamente e socialmente ghettizzata.

Da questa dicotomia e strettoia non si può scappare: da una parte è lecito stabilire sovranamente se possano esservi e quanti possano essere i residenti stranieri che lavorano nel proprio paese (e lo si può decidere  per le più svariate ragioni che rientrano nella sovranità di uno Stato); dall’altra si devono però garantire pienissimi diritti sociali ai residenti lavoratori che si è accettato di accogliere nel proprio paese. La via di mezzo (ovvero l’accoglienza senza diritti) è esattamente la linea delle politiche migratorie classiste-buoniste messe in campo dai governi capitalistici. E’ una linea criminale, antiuniversalista e prodromo della guerra tra poveri. Si tratta di un punto decisivo che fa cadere bruscamente la maschera “sociale” del Front National.

Che vi siano oggettivi problemi di ordine sociale scatenati dal fatto che le politiche sociali vincolate al livello di reddito e al numero di figli, finiscono concretamente per avvantaggiare (in termini relativi) i residenti stranieri più dei residenti nazionali questo è innegabile. Per la semplice ragione che i primi hanno un reddito mediamente minore ed un numero di figli mediamente maggiore. Un residente nazionale che vive da cinquant’anni in un paese, lavoratore vessato e sfruttato, contribuente onesto che si vede sottrarre alcuni benefici sociali a vantaggio dei nuovi venuti, più poveri tra i poveri, può assumere, senza dubbio, un atteggiamento di ostilità e di rabbia mal indirizzata contro l’anello più debole della catena, confuso per la causa oggettiva della propria condizione e dei torti subiti. Ma questa condizione di rabbia e frustrazione dei ceti popolari non trova certo la propria soluzione nell’alimentazione del fuoco già acceso tramite politiche giuridicamente discriminatorie.

La soluzione non può che essere, ancora una volta, interna a quella strettoia sopra delineata: o non si accetta a priori la presenza di lavoratori stranieri; oppure se la si accetta si devono concedere loro pienissimi diritti; e soprattutto, i diritti sociali concessi non devono essere subordinati ai livelli di bisogno relativi, centellinandone la concessione e relegandola agli ultimi della società (che, naturalmente, in presenza di immigrati, saranno proprio gli immigrati), ma devono essere concessi in base ai tenori di vita assoluti, aumentando il numero degli inclusi e non selezionandolo in base alla retorica (tutta capitalistica) delle risorse sociali scarse. Ed è proprio su questo punto che il Front National conferma il proprio volto reazionario e per giunta del tutto sistemico. L’insistenza sulle risorse scarse che andrebbero distribuite seguendo criteri nazionali è infatti cruciale all’interno del programma del partito che dimostra in tal senso un perfetto allineamento con l’ideologica dominante della scarsità sociale dei diritti e delle “elargizioni”.

 

Veniamo ora all’ultimo punto, quello che concerne la politica estera del Front National.

Si tratta di un punto controverso e fortemente ambiguo. Da una parte il partito di Marine LePen si è oggettivamente distinto per posizioni di opposizione alle guerre imperialiste “umanitarie” contro l’Iraq,la Libiae, da ultimo, contro la campagna di diffamazione e destabilizzazione della Siria. Si è inoltre dichiarata a favore di un ritiro dei soldati francesi dall’Afghanistan. Tuttavia tali posizioni, sicuramente apprezzabili nel panorama scandalosamente guerrafondaio dell’Europa di oggi- mascherato dal disgustoso codice di copertura democratico e dei diritti umani- sono fortemente annacquate da un resistente nazionalismo non puramente a carattere difensivo (assimilabile a quello dei benemeriti sovranismi sudamericani), ma di stampo invece sciovinista, in linea con l’idea di ritorno della Francia non solo ad una posizione di indipendenza (legittima), ma di protagonismo internazionale e capacità decisionale nei destini degli altri paesi (elementi esplicitamente dichiarati tra le righe del programma politico del Front National). Prova di questa direzione sia il comunicato di opposizione alla guerra in Libia, estremamente ambiguo, in cui da una parte si denuncia la guerra francese controla Libia(come violazione della sovranità dello Stato libico e del diritto internazionale); dall’altra, però, si afferma che, essendo ormai la guerra iniziata, il partito presta piena fedeltà alle forze armate francesi. Inoltre si sottolinea l’incoerenza di Sarkozy che avrebbe avuto, prima della guerra, legami politici con il “cattivo Gheddafi” (adesione piena al mantra guerrafondaio Gheddafi=dittatore) e sottolineando, ripetutamente, la sua attività terroristica esercitata contro l’occidente negli anni 80 (anche qui in piena sintonia con la vulgata occidentalista). Infine (disgustosamente) si enfatizzano, similmente a quanto fecela Lega Nordin Italia, gli enormi rischi di un’esplosione dell’immigrazione come problema degli Stati che la dovranno ricevere e non come dramma umano di decine di migliaia di profughi di guerra.

Insomma un mix indigesto che di certo non mostra un posizionamento chiaro e coerente di opposizione alla guerra in quanto pura guerra imperialista di spartizione di un paese sovrano.

 

In definitiva, per tutte le ragioni indicate, riteniamo che la semplice presenza di una critica ideale della mondializzazione capitalistica, di un programma di politica commerciale protezionistico e di un profilo in politica estera contrario all’egemonia nord-americana, contrario alle guerra neo-coloniali USA-NATO-UE, ed anti-europeista, per quanto in sé per sé positivo, non possa assolutamente occultare il contenuto profondo del programma di un partito come il Front National, generico in politica economica, totalmente insensibile alle contraddizioni sociali determinanti del capitalismo, gravemente discriminatorio nelle politiche sociali e migratorie ed estremamente ambiguo in politica estera.

 

Vediamo ora, in ultimo, di contestualizzare il giudizio sul Front National e Marine LePen all’interno del gruppo di candidati presentatisi alle elezioni presidenziali in Francia.

Che nelle elezioni francesi non vi sia stato un candidato ideale è cosa abbastanza ovvia. Mettendo da parte i candidati da prefisso telefonico di estrema sinistra (auto-relegati a priori ad un ruolo di marginalità e testimonianza) l’unico candidato potenzialmente interessante poteva essere Melenchon per le sue posizioni ispirate da una concezione tendenzialmente sociale ed anti-liberista; per la comprensione della centralità di una critica forte dell’Unione Europea e dell’importanza (espressa in chiave neo-giacobina) del recupero della sovranità nazionale e cittadina; per le sue posizioni di amicizia e vicinanza alle rivoluzioni sociali sud-americane e la sua coraggiosa solidarietà verso Cuba (indicibile negli ambienti politici dominanti e politicamente corretti).

Tuttavia l’alto rischio di subalternità al partito socialista francese (da cui peraltro proviene); una certa difficoltà a tracciare un discorso duro ed esplicito contro i meccanismi perversi dell’Unione europea; e, soprattutto, la sua vergognosa e scandalosa adesione alla guerra controla Libianon possono che mutare gravemente in negativo il giudizio nei suoi confronti. In particolare l’ultimo punto è di inaudita gravita. Melanchon, ebbe modo di aderire entusiasticamente all’intervento umanitario benedetto dall’ONU contro il Gheddafi sanguinario, ripetendo più volte che il fine dell’intervento non aveva alcuno scopo neo-coloniale di spoliazione della Libia, ma era realmente inteso a promuovere la democrazia e la primavera araba. E’ abbastanza chiaro che una simile posizione, tanto più se proveniente da chi dovrebbe militare per la giustizia sociale contro l’oppressione, non può che essere frutto o di un’allucinazione ideologica o di una gravissima mala fede al servizio degli interessi dei belligeranti.

Per queste ragioni Melanchon non era un candidato votabile.

In un simile quadro desolante riteniamo che la posizione più corretta sulla base di una chiara gerarchia tra il male maggiore e il male minore avrebbe potuto inquadrare, all’interno dei cinque candidati più rappresentativi, l’asse Sarkozy-Bayrou-Hollande come il male maggiore (al cui interno Bayrou-Sarkozy rappresentano gli elementi più pericolosi e Hollande per via della sua tiepida posizione di critica della UE l’elemento meno pericoloso); e i partiti ad essi alternativi (Melanchon-LePen) il male minore (al cui interno Melanchon, per una più spiccata sensibilità alla questione sociale sarebbe rimasto comunque preferibile alla LePen).

Un giudizio, questo, che non implica alcuna adesione di voto, ma solo una valutazione fredda, a distanza, della gerarchia dei pericoli rappresentata da candidati in ogni caso non votabili.

In conclusione, se si condivide un asse di orientamento che includa:

1- la massima attenzione alla questione sociale posta dai rapporti di produzione capitalistici (produzione e distribuzione del reddito) che implica in primis una posizione anti-liberista in ogni ambito della politica economica, favorevole ad un rilancio dell’economia pubblica, dello Stato sociale, ad una redistribuzione progressiva del reddito e a una de mercificazione della vita socio-economica;

2- la massima attenzione alla questione internazionale, ad una politica antimperialista di pace, di chiara denuncia di tutte le guerre di spoliazione, di individuazione dell’imperialismo principale negli USA e nei suoi sicari europei riuniti nella NATO;

3- l’attenzione alla sovranità nazionale come precondizioni politica e culturale per una riappropriazione dell’agibilità politica con conseguente critica della tecnocrazia europea;

4- il mantenimento, entro una radicale opposizione alla logica sovranazionale del globalismo e delle sue imposture pseudo-naturali (tra cui il mito dell’immigrazione incontrollabile) di un profilo sociale e giuridico in ogni caso radicalmente universalistico senza la concessione del benché minimo spazio ad aberrazioni discriminatorie.

Se si condivide, dicevamo, un simile asse di orientamento (e siamo certo che Preve lo condivide) crediamo davvero che sia stato frutto di un grave errore di valutazione e, forse di una evitabile intenzione provocatoria, la dichiarazione ipotetica di voto al Front National al primo turno.

Ben più in linea con l’analisi previana, a nostro avviso, sarebbe stata una semplice e schietta analisi senza peli sulla lingua del male maggiore e minore espresso dai diversi candidati nelle elezioni francesi.

 

La Redazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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  1. Io non abbraccerei per utile e per buona neanche la designazione del male minore alla quale avete fatto un (triste) riferimento alla fine.

    E ho sintetizzato anch’io brevemente le mie posizioni sulle valutazioni di Preve riguardo alla Pen qui, nei miei commenti al suo articolo “La bussola si è rotta”:
    http://zecchinellistefano.blogspot.ro/2012/03/la-bussola-si-e-rotta-di-costanzo-preve.html?spref=fb

    Sono stata intrigata soprattutto dall’omaggio retroattivo reso dalla Le Pen, nel suo libro, al campo avversario – Georges Marchais e il Partito comunista francese – e salutato da Preve nell’articolo “La bussola si è rotta”, e poi però scoprii perché non era un omaggio così incredibile. Si leggano i miei commenti sul sito di Stefano Zecchinelli.

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