Per una critica a David Harvey

dic 17th, 2012 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

Lo scopo di questo breve discorso è fornire l’inizio di una critica alla teoria della crisi di David Harvey. Ma devo cominciare dicendo che approccio questo compito in maniera molto umile. Come molte altre persone, sono davvero in debito verso David Harvey. In molti modi, Harvey è stato il mio primo canale d’accesso nel mondo di Marx. Il suo linguaggio chiaro e articolato, la sua passione per la materia, e la sua paziente dedizione alla pedagogia sono stati di grande influenza per me, spingendomi a scavare più profondamente nel mondo di Marx e del Marxismo. La critica che faccio qui è fatta con il più profondo e sincero rispetto per il suo lavoro.

La mia è una critica di 3 aspetti interrelati del lavoro di Harvey: il suo rifiuto della teoria di Marx sulla Caduta tendenziale del saggio di profitto (Tendency of the Rate of Profit to Fall, TRPF), la sua teoria della “sovraccumulazione” e il suo uso di sovraccumulazione come quadro analitico per la sua analisi geografica.

Molto del Marxismo del XX Secolo è definito dalle sue sconfitte, sia teoretiche che politiche. Per quanto dobbiamo imparare dai nostri “vecchi”, dobbiamo anche ricordare che essi hanno avuto le proprie origini in un certo tempo e luogo e che il loro approccio a Marx è influenzato da questa origine. Per Harvey il tempo sono gli anni ’70 e il luogo l’università/l’accademia occidentale. É un luogo e un tempo in cui i Marxisti stavano affrontando alcune disfide teoriche a cui non erano in grado di rispondere, forzandoli a rivisitare o a cambiare aspetti centrali della Teoria del Valore di Marx. Essi erano anche messi di fronte alla necessità di distanziarsi politicamente dagli orrori del Marxismo Sovietico e del Maoismo. Questo portò a una serie di caratteristiche peculiari di quello che io chiamo “il Marxista degli anni ’70”.

Prima caratteristica: L’anti-ortodossia

Gli anni ’70 furono un periodo di sfida e sconfitta per i Marxisti, ma queste esperienze aprirono anche spazio per nuovi approcci a Marx e a rivalutazioni. La fine amara dell’era Stalin (segnata dal rapporto segreto di Krusciof nel 1956) fornì uno spazio per una critica del cosiddetto “Marxismo ortodosso”, permettendo una rivalutazione di Marx stesso, non filtrato attraverso la politica dell’era sovietica. Ciò si combinò con una tendenza del Marxismo accademico, che si può far risalire a figure come quelle di Paul Sweeney, che lavorò per stabilire più spazio per le idee Marxiane nell’accademia, tramite lo sviluppo di una tradizione Marxista non settaria che spesso prendeva in prestito linguaggi e strumenti dell’economia neo-classica. L’aspetto positivo di ciò è che questo aveva portato ad alcuni grandi studi e dibattiti su molti argomenti, dalla dialettica alla teoria del valore fino al processo di lavoro, rivelando la grande profondità e ricchezza dell’analisi di Marx, e liberando Marx dal pesante determinismo della Cortina di Ferro. D’altro canto, è avvenuta una corsa troppo rapida e spesso troppo superficiale per distanziarsi dalla c.d. “ortodossia” , spesso confondendo questa “ortodossia” con Marx stesso (gettando via il bambino-Marx con l’acqua sporca-Ortodossia). I dibattiti pubblici richiedono un rimprovero ritualistico e sottosviluppato di alcuni aspetti di Marx, allo scopo di provare al pubblico che il relatore non era uno Stalinista. Il peso del “Marxismo ortodosso” è stato usato troppo spesso come un’arma retorica per mettere a tacere la critiche. Pensatori che hanno cercato di difendere aspetti chiave di Marx dalla revisione sono stati accusati di dogmatismo, rigidità e settarismo. Una falsa dicotomia fra “re-interpretazioni a mente aperta” e “ortodossia deterministica” è stata troppo spesso posta come sostituto per un qualche reale argomento.

Mentre ammiro molto del lavoro di Harvey come pedagogo Marxista, penso anche che egli qualche volta soffra dell’ atmosfera di anti-ortodossia degli anni ’70; i “Limiti al Capitale”, per esempio, è pieno di vicoli ciechi e digressioni inutili passati a criticare Marx dove non c’è alcuna critica da fare (per esempio, le pagine e pagine spese a pontificare riguardo al trasferimento di valore dal capitale fisso, nessuna delle quali raggiunge nulla). Inoltre, e più rilevante al nostro discorso, Harvey sembra escludere il dibattito dei tempi riguardo al TRPF, tacciando queste idee come il lavoro di ortodossi dogmatici piuttosto che confrontarsi con esse.

Seconda caratteristica: Ritirata teorica

I Marxisti degli anni ’70 lottarono con la propria identità nell’era post-staliniana così come  dovettero fronteggiare l’attacco teorico degli Sraffiani, il problema della trasformazione e il teorema di Okishio. L’incapacità dei Marxisti del tempo di difendere il processo di trasformazione Marxiano o la teoria del TRPF (vedi sotto) produssero una miriade di approcci teorici, i quali cercavano tutti di salvare alcuni aspetti di Marx dal naufragio del Marxismo, mentre costruivano scappatoie, sintesi con altre tradizioni, etc. Il risultato finale di questi sforzi fu spesso patetico, forzando molti ad abbandonare del tutto Marx. Coloro che cercarono di rimanere all’interno della tradizione spesso furono soltanto capaci di fare ciò riducendo drasticamente l’estensione radicale del progetto Marxista, adottando un quadro analitico interamente a-Marxista, focalizzandosi su aspetti non-economici di Marx, o creando vaghe riformulazioni che schivano questi problemi in giochi di prestigio dialettici: “Marxiano” rimpiazzò “Marxista”.

Io considero la teoria della crisi di Harvey come una di queste vaghe riformulazioni. Ma la riformulazione vaga, il girare attorno, non è il risultato di qualche politica riformista. Piuttosto, mostra la fedeltà di molti pensatori al progetto Marxista nonostante gli ostacoli teorici sul loro cammino. Ma quando manteniamo fedeltà all’essenza di Marx, mentre abbandoniamo la sua logica, otteniamo “Marxiness” (Marxismo senza Marx).


Terza Caratteristica: lo faccio a modo mio

Sembra che almeno ogni libro scritto su Marx negli ultimi 40 anni debba avere come sottotitolo “una reinterpretazione”, “una riformulazione” o “una valutazione critica”. Intere carriere accademiche si sono basate sulla unicità di una re-interpretazione. Mettere una distanza fra Marx e se stessi certamente rende più “appetibili” per l’accademia. Ma sospetto che il fattore più importante è nella natura delle carriere accademiche in generale, che tende a incoraggiare l’individualismo e l’originalità nelle teorie. La teoria della crisi di Harvey è uno di questi contributi originali. Gran parte della sua carriera è basata sulla riformulazione della teoria della crisi di Marx che ha sviluppato nel suo “I limiti del Capitale” del 1981. Tuttavia, non è una teoria del tutto originale. Comincia provando a riformulare vagamente la Caduta Tendenziale del Saggio di Profitto marxiana, allo scopo di eludere il Teorema di Okishio. Ma prova anche ad usare il linguaggio e gli strumenti della scuola del Monopolio (quella di Baran e Sweezy, ndr) ma senza il sottoconsumismo solitamente associato con questa scuola. Quello che è emerge è una distinta teoria “Harveyiana” della crisi, altamente originale, ma qualche volta confusa.

Non penso che questa teoria funzioni per le seguenti ragioni: il linguaggio della “sovraaccumulazione”, che Harvey prende in prestito dalla scuola del Monopolio non può effettivamente spiegare la natura ciclica delle crisi capitalistiche. La mancanza di un meccanismo nella sua teoria che crei questo movimento ciclico forza Harvey a dare troppo potere di spiegazione all’intervento degli attori politici. Senza il TRPF non c’è una teoria che possa spiegare perché il capitale, in primo luogo, si dovrebbe mai sovra-accumulare. Vale a dire, perché mai ci dovrebbe essere una mancanza di potenziali opportunità di investimento profittevoli. Penso che questi problemi depotenzino la sua ricerca geografica. Vediamo perché.

La geografia

Ripensando al mio primo incontro con gli scritti di Harvey, leggendo “The Condition of Postmodernity” come studente universitario, mi ricordo l’esaltazione che la sua ricerca geografica aveva provocato su di me. In un ambiente universitario di “identity politics” (politica dell’identità, ossia fare politica basandosi su un connotato specifico: genere, etnia,ecc, ndr) e postmodernismo, dove la cultura veniva usata per spiegare la politica, dove le “meta narrazioni” erano affini al totalitarismo, l’abilità di David Harvey di offrire una nuova analisi materialista della cultura fu davvero una boccata d’aria fresca. Focalizzandosi su come l’accumulazione di capitale costruisce la sua propria versione dello spazio e del tempo, il suo lavoro era capace di penetrare attraverso la frammentazione e il nichilismo della narrativa postmoderna dominante, e fornire una cornice materialista con la quale comprendere la viva esperienza del capitalismo in tutte le sue diversità e complessità

Spesso da studente mi è stato detto che l’analisi Marxista era riduttiva, che predicava una esperienza di vita uniforme, che prescriveva una politica che ignorava le differenze fra le persone, rigettando molte forme di lotta per focalizzarsi solamente sulle lotte nei luoghi di lavoro. Harvey mostrò come fosse possibile teorizzare una grande diversità di esperienze del capitalismo così come una grande diversità di lotte contro il capitalismo, nell’ambito di una cornice analitica marxista.

Questa è la vera forza della sua ricerca. Rappresenta alcuni degli aspetti migliori del Marxismo degli anni ’70. Il marxismo degli anni ’70 sentiva il bisogno di scappare dal determinismo e dalla politica ristretta del cosiddetto “marxismo ortodosso” della II e III internazionale. Aveva bisogno di mostrare che il Marxismo era un organismo teorico aperto in via di sviluppo, capace di teorizzare la continua evoluzione del capitalismo in tutte le sue complessità e diversità.

Ma i Marxisti degli anni ’70 troppo spesso hanno gettato il bambino-marx con l’acqua sporca dell’ortodossia. Spesso questo è stato il meglio che si potesse fare al tempo in cui una difesa teorica di alcuni aspetti chiave della teoria del valore Marxiana non era ancora stata sviluppata (vedi sotto). La cosa migliore che si potesse fare era mettere da parte queste criticità di Marx, sviluppare approcci alternativi. La soluzione di Harvey a ciò è questa teoria della sovra-accumulazione.

Che cosa manca in questa teoria?

Per Harvey, i capitalisti sono in un constante state di ansia perché devono tramutare il loro denaro in più denaro. Devono costantemente trovare nuove destinazioni per investimenti profittevoli.

Ma l’ammontare di valore che ha bisogno di essere valorizzato cresce costantemente, e così il loro compito diventa sempre più complicato. Alla fine questa crescita raggiunge dei limiti. Si comincia non solo ad accumulare capitale, ma a sovra-accumularlo. I tentativi dei capitalisti di superare questi limiti sono ciò che interessa maggiormente ad Harvey. Investimenti in capitale fisso, lavori pubblici, infrastrutture, ecc. L’intera costruzione dello spazio fisico e l’organizzazione del tempo sono collegati in questo tentativo di fronteggiare la sovra-accumulazione.

“L’argomentazione marxista è, allora, che la tendenza verso una sovra-accumulazione non può mai essere eliminata nel capitalismo. È un problema senza fine per ogni modo di produzione capitalista. L’unica questione è quindi come la tendenza alla sovraaccumulazione può essere espressa, contenuta, assorbita o gestita in modi che non minaccino l’ordine sociale capitalista” (The Condition of Postmodernity, pg. 181).

Questo è un potente strumento per Harvey, perché gli permette di spiegare tutto lo spazio e il tempo, più o meno, in termini del problema di sovra-accumulazione, o assorbimento del plus-valore, o come dice nell‘Enigma del Capitale, il problema del surplus. Tuttavia il problema è che la sua teoria spiega troppo. Come la sua teoria dell’accumulazione tramite espropriazione (accumulation by dispossession), le categorie sono troppo estese; viene spiegato troppo, è troppo facile.

Come possono il boom nel settore delle costruzione all’inizio di un boom economico (ad esempio negli anni ’50 negli USA) e il boom nel settore delle costruzioni che accompagna una bolla del credito proprio prima di una crisi (ad es. negli anni 2000) essere entrambe il risultato di una sovra-accumulazione? Qui lo stesso fenomeno geografico, la rapida costruzione dello spazio, esiste in due fasi totalmente differenti del ciclo di accumulazione. La forza dominante di un boom non può essere la stessa di un crollo. Abbiamo bisogno di una teoria capace di spiegare i movimenti ciclici.

Harvey parla molto riguardo alla creazione di differenze dovuta allo sviluppo diseguale del capitale nello spazio. Queste differenze sono spesso dovute ad aspetti contingenti del flusso di capitale attraverso lo spazio, vantaggi locali e barriere, irregolarità del capitale fisso, etc. Tutto molto bello e utile. Ma la teoria di Harvey sulla sovra-accumulazione ha anch’essa una componente monotona, cioè che non può teorizzare altri tipi di differenza. Mi sto ancora una volta riferendo ai movimenti ciclici di lungo periodo dei tassi di profitto, e i relativi boom e crolli che sono accaduti regolarmente attraverso la storia del capitale. Se la sovra-accumulazione è una condizione cronica, questo suggerisce una stagnazione costante, e non un movimento ciclico. Perciò, non penso che la sovra-accumulazione possa spiegare il movimento ciclico della crisi. Ma penso anche che la sovraaccumulazione possa spiegare la sovra-accumulazione.

Se il capitale si sta sovra-accumulando a causa della mancanza di investimenti profittevoli abbiamo bisogno di una teoria della crescita del capitale relativa alle opportunità di investimento o, per meglio dire, relativa alle opportunità di investimento profittevoli.

Storicamente le teoria della sovra-accumulazione sono associate con la scuola del sottoconsumo, che afferma che i bassi salari creano una situazione di domanda insufficiente, il che significa che ciò che è prodotto non può essere venduta, il capitala si sovra-accumula, etc. Harvey sembra favorire questa tesi ne “l’Enigma del Capitale”, nonostante egli critichi la teoria sotto-consumista poco prima nel libro, e in molti suoi lavori precedenti (il che, lo devo confessare, mi confonde). Io sono d’accordo con la sua critica: il capitale ha la capacità di generare la sua stessa domanda tramite l’espansione dei beni capitali (vedi l’ultimo libro di Kliman). Se Harvey rigetta la tesi sotto-consumista, allora qual è la causa della sovra-accumulazione? Nei suoi picchi peggiori, Harvey sembra talvolta suggerire che la sovra-accumulazione è al contempo sua causa ed effetto. Il semplice fatto che il capitalismo debba costantemente crescere è usato per suggerire che questa crescita raggiungerà un limite ad un certo punto. Questo aspetto della sua teoria sembra essere divenuto più vistoso dallo scoppio della crisi. Emerge in maniera forte in certi punti de l’Enigma e in alcuni recenti dibattiti. Penso sia perlopiù il risultato del tentativo di comunicare le sue idee ad una platea “profana”. Ma questo ha il danno di evocare un’estetica “anti-crescita” simile al “piccolo è bello” dei primitivisti, anarco-libertari, ambientalisti apolitici e hippies. É al limite del populismo volgare. E non ha sostanza teorica: egli deve fornire una ragione sul perché il capitalismo non si può espandere per sempre.

Ora, Harvey ha una risposta migliore a questa domanda. Spesso ha argomentato che ci sono vari Limiti alla produzione capitalistica. Questo, per lui, significa che lo specifico limite operante in un certo luogo in un certo momento è contingente. Molti dei limiti di cui Harvey parla hanno a che fare con le barriere temporali alla produzione, generate dal complesso sovrapporsi dei differenti tempi di turn-over, trasporto, e l’uso del sistema di credito per superare questi limiti, sistema che genera i suoi propri impulsi speculativi.

Questa idea di pluralità di limiti può sembrare attrattiva ad un primo momento. Guadagna dei punti in termini di anti-ortodossia grazie alla sua capacità di abbracciare molte differenti interpretazioni della crisi. Ma temo che essa ignori il meccanismo tramite il quale il capitale supera i suoi limiti: il profitto. Il profitto riposiziona investimenti verso area con alti rendimenti, e porta via investimenti da aree non profittevoli. Ora, certamente questo non sempre funziona per ogni singolo capitalista. E certamente c’è molta diversità a causa di tutti i fattori che Harvey discute. Ma non è utile sottolineare soltanto i limiti e ignorare l’elefante nella stanza: il tasso di profitto.

Si scopre che il capitalismo è davvero bravo nel superare barriere. É un superamento segnato da ogni sorta di violenza e diversità, ma è pur sempre un superamento. Ora, quando una crisi scoppia, ciò è qualitativamente differente dai tipi di fluttuazioni minori e diversità che io ritengo che i “limiti” di Harvey implichino.

Se il profitto è il meccanismo per il superamento di questi “piccoli limiti”, abbiamo bisogno di una teoria riguardo ai tassi di profitto per spigare il “grande limite” che una crisi rappresenta. Certamente, questa è la teoria di Marx della Caduta Tendenziale del Saggio di Profitto (TRPF): i cambiamenti tecnologici eliminano il lavoro umano in proporzione agli investimenti totali, il che causa una caduta di lungo periodo dei tassi di profitto. Quando i profitti cadono, ci sono meno opportunità per investimenti profittevoli, il capitale si concentra..si “sovra-accumula”, e la crisi scoppia.

Harvey non desidera utilizzare l’approccio di Marx riguardo al problema, nonostante la sua cornice analitica sembri richiedere di essere completata da una teoria dei tassi di profitto.

Perchè Harvey rifiuta il TRPF?

Sospetto che la gravitazione di Harvet attorno lo sviluppo di alcune versioni di una teoria della sovra-accumulazione sia in vari modi il risultato della sua incapacità di trovare un modo per far funzionare il TRPF marxiano. I Marxisti si sono confrontati con il TRPF e la conclusione spesso è stata il rifiuto della teoria. Essi erano contro la logica del teoria di Okishio, che dichiarava l’esatto opposto di ciò che Marx aveva dichiarato: Okishio affermava che le tecnologie che permettevano un risparmio di lavoro causavano un innalzamento del tasso di profitto, piuttosto che una sua caduta.

L’incapacità dei Marxisti di quel periodo di salvare il TRPF da Okishio portò molti, Harvey incluso, a sviluppare teorie alternative della crisi. La matematica è matematica, e non puoi scontrarti con lei. Ma puoi scontrarti con i presupposti che stanno dietro la matematica. Questo è quello che il TSSI (Temporal Single System Interpretation, un’interpretazione della teoria del valore marxiana sviluppata negli anni ’80 da autori come Kliman e Freeman, ndt) fa nei confronti del teorema di Okishio. Mette in questione le assunzioni dietro il teorema e mostra che la teoria Marxiana del TRPF è del tutto consistente. Siccome oggi esiste un rifiuto del Teorema di Okishio, non credo sia che sia difendibile la semplice eliminazione del TRPF dai libri odierni sulla crisi. Questo richiede anche che ritorniamo al dibattito sulla crisi che accadde negli anni ’70, e rivalutiamo le conclusioni che persone come Harvey trassero da esso.

Ho una critica piuttosto dettagliata che ho fatto alla posizione di Harvey circa il TRPF nei “Limiti al Capitale”, ma la sintetizzerò come segue.

Il Capitolo di Harvey (di fatto un sotto-capitolo) sul TRPF potrebbe essere la rappresentazione simbolica dei Marxisti degli anni ’70. Comincia con il suggerimento che ci sia qualcosa di sbagliato nella teoria di Marx, tuttavia è molto difficile capire dal capitolo che cosa sia sbagliato. Comincia con una descrizione davvero dettagliata di tutte le possibili critiche della teoria, di tutte le contro-tendenze che potrebbero innalzare il saggio di profitto, etc. Ad una ad una Harvey respinge queste critiche, argomentando che non sono adeguate per prevenire una caduta del saggio di profitto. Dopo di che, fa un’interessante affermazione:

“Van Parijs (1980) utilizza una prova di Okishio (1961) per mostrare che i capitalisti, in un regime di competizione, sceglieranno le tecniche che necessariamente riducono il valore unitario delle merce (includendo la forza lavoro) e incrementano il tasso di transizione di profitto per se stessi così come il tasso sociale di profitto, non tendendo conto di ciò che accade alla composizione del valore, a condizione solamente che la quantità fisica di lavoro vivo rimanga costante (pg. 185)”

Ora, Harvey non spiega da nessuna parte che cosa questo significhi o come questo argomento sia provato. Dobbiamo, mi sembra, accettare l’argomentazione di Van Parijs secondo cui dobbiamo accettare l’argomentazione di Okishio. Per un lettore nuovo a Marx, come ero io quando per la prima volta ho letto i “Limiti al capitale”, questo paragrafo produce una certa confusione. Abbiamo appena letto pagine di elaborati dettagli riguardo al TRPF che risultano essere vicoli ciechi (critiche fallimentari, contro-tendenze, etc). E ora che ci viene infine data una affermazione secondo cui il TRPF è sbagliato e David Harvey, il pedagogo marxista, non offre al lettore alcuna spiegazione.

Questo fantasma di Okishio diviene un punto di svolta nel testo. Okishio sembra infestare il testo. Harvey non vuole confrontarsi direttamente con Okishio. Invece, egli sviluppa un binario secondario complicato ed ottuso riguardo ai tempi di turn-over, il credito e il capitale costante che cerca di salvare ciò che si può della teoria Marxiana della crisi. Alla fine Harvey conclude che:

“i capitalisti individuali, agendo nel proprio interesse all’interno delle relazioni sociali della produzione e dello scambio capitalisti, generano un mix tecnologico che minaccia una ulteriore accumulazione, distrugge le potenzialità per una crescita bilanciata e mette in pericolo la riproduzione della classe capitalista nel suo insieme.” (pg. 188)

Questo sembra non essere altro che una vaga ri-affermazione della caduta tendenziale del saggio di profitto. L’unica differenza è che Harvey mette in questione il linguaggio degli stati di equilibrio. É difficile vedere come una riformulazione in un linguaggio più vago della stessa teoria possa salvarla da Okishio. Se Harvey ha semplicemente lasciato le cose così il suo lavoro non sarebbe stato probabilmente così degno di nota. Tuttavia, Harvey non lascia semplicemente le cose così. Egli utilizza questa vaga difesa di Marx come trampolino di lancio per la propria interpretazione teoretica: nel capitolo successivo la macchina da presa si sposta dalla discussione dei limiti alla profittabilità e si focalizza sul problema del surplus crescente. Qui comincia il linguaggio della sovra-accumulazione.

Conclusioni

Questo strano, spettrale incontro con lo spirito rimosso di Okishio ci fornisce un modello per i Marxisti degli anni ’70:

1. Le critiche Sraffiane di Marx sono schivate essendo vaghi/poco chiari nel tentativo di salvare Marx
2. Questa vaghezza diviene una piattaforma per erigere riformulazioni originali

3. Le riformulazioni prendono una propria vita, e la relazione con il dibattito originale è dimenticata

4. La riformulazione è fusa o confusa con la teoria della crisi di Marx

Al fine di discutere queste teorie dobbiamo mettere in questione ciascuna di esse:

4. Dobbiamo separare la teoria di Marx da quelle dei “Marxisti”, “Marxiani”, “Marxoidi”, etc
3. Dobbiamo riconoscere e capire i dibattiti originali che diedero luogo a queste riformulazioni

2. Dobbiamo questionare le riformulazioni e sfidarle ad essere chiare, non evasive

1. Dobbiamo sfidare i Marxisti a trattare direttamente con le accuse di inconsistenza che sono state scagliate contro Marx nell’accademia.

Tratto da Kapitalism101

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