“Un giorno devi andare”, La comunità che è stata e quella che sarà

apr 3rd, 2013 | Di | Categoria: Recensioni

Recensione a cura di Piero Pagliani – Megachip.

se gli uomini potessero, cioè, non esser-così, in questa o in quella identità biografica particolare, ma esser soltanto il così, la loro esteriorità singolare e il loro volto, allora l’umanità accederebbe per la prima volta a una comunità senza presupposti e senza soggetti, a una comunicazione che non conoscerebbe più l’incomunicabile.
Giorgio Agamben, “La comunità che viene”

jasmine1. Il regista italiano Giorgio Diritti ci ha regalato un altro prodigioso lungometraggio, “Un giorno devi andare”, con la sensibile Jasmine Trinca. E lo ha fatto per Pasqua. Forse non è un del tutto un caso, anche se di certo in quel lavoro non si parla di Resurrezioni, ma al più, forse, di una piccola resurrezione esistenziale. Però nel film, protagoniste assolute sono le donne.

Proprio come nel racconto pasquale del vangelo di Giovanni lo è Maria Maddalena, la testimone della Resurrezione (quindi è una donna la testimone del punto cardinale del Cristianesimo, un fatto rivoluzionario per quei tempi, ma anche per i nostri).

Nel film di Giorgio Diritti le donne sono testimoni di vicende legate alla vita famigliare e ai suoi dolori, in parte naturali, in parte sociali. Come quello della protagonista, Augusta, abbandonata dal marito dopo la morte del loro bambino e la notizia che lei non potrà più avere figli (un marito imbecille e spregevole, diciamolo pure).

Augusta va in Brasile per cercare, lungo il Rio delle Amazzoni, e poi in una favela di Manaus, di ridare un senso alla propria vita e offrire un oblio al proprio dolore, dimenticandosi – ma solo apparentemente – dei dolori che ha lasciato alle altre due donne della sua famiglia, la mamma e la nonna, a Trento.

Giorgio Diritti è un “credente sociale”, per così dire, come Olmi. Nulla di strano quindi che si parli di missionari e di fede.

Può essere strano per chi non è credente per l’elementare motivo che “credere non è razionale”. Siamo d’accordo, comunque: credere non è razionale. Viceversa, non si crede a una dimostrazione matematica ma la si capisce o non la si capisce; non è una questione di fede. Nemmeno Kant e Gödel, sommi pensatori, riuscirono a dimostrare l’esistenza di Dio. Ci hanno solo lasciato interessanti esercizi di logica modale.

Quindi bisogna mettersi il cuore in pace e non pensare di vedere film come quelli di Olmi o di Diritti avendo come retropensiero, o meglio come rumore di fondo, la contrapposizione tra fede e ragione. Perché sarebbe come andare in montagna contrapponendo la passione per l’arrampicata alla dimostrazione di meccanica razionale che se cede un appiglio può finir male a causa della forza di gravità. Corre voce che gli alpinisti lo sappiano perfettamente.

2. Ma c’è di più; ed è un po’ il pensiero che, in modo confuso, mi avvolgeva mentre vedevo il film e che poi ha preso forma: chi non si pone il problema della divinità dell’uomo, anche se non lo risolve, non si può porre il problema dell’uomo.

Si porrà, eventualmente, quello del suo progresso, ma non della sua emancipazione, perché quello che vede, direbbe Montale, non è «che la scialbatura, la tonaca che riveste la nostra umana ventura». Anche se avvolto nell’epica e nei grandi progetti.

“Progresso” vuol dire molte cose. Ma anche molto ambigue.

La favela in cui vive Augusta, e dove i nodi vengono al pettine, è oggetto di un piano di risanamento del governo. Sia chiaro, è sempre meglio che una parte della ricchezza sociale fluisca verso le classi, i ceti e le popolazioni che non ce la fanno, piuttosto di rimanere nelle mai sazie mani del capitale.

Ma ecco qui, subito, scattare la grande ambiguità: quella ricchezza più equamente ripartita, è misurata attraverso il valore di scambio, l’unico metro nel sistema sociale capitalistico, laddove il metro della comunità (ovvero della società non rovesciata) è il valore d’uso. La ricchezza distribuita porta quindi il marchio indelebile, la lettera scarlatta, del feticismo capitalistico, della sua alienazione economicistica, anche se il suo valore d’uso tenta di avere fini sociali, grazie al programma governativo di rilocazione degli abitanti della favela.

Cose simili succedono in tutti i Paesi ormai emersi. In Brasile, come in India o in Cina. Ovviamente, se l’ideologia del progresso accomuna tanti, i metodi tuttavia non sono gli stessi e disegnano una corposa linea di demarcazione. Ad esempio tra chi fa offerte come a Manaus e chi, come il Partito Comunista (Marxista) del Bengala Occidentale lo scorso decennio, compie eccidi contro chi non accetta i diktat. È una demarcazione semplice ma netta tra democrazia e non democrazia, come l’intellighenzia di sinistra bengalese ad un certo punto capì, togliendo infine la sua fiducia al governo che per decenni aveva eletto (anche in questo caso, l’India è un’Italia di dimensioni asiatiche, come diceva Marx, anche se c’è da dire che i nostri supporter della sinistra sono un po’ più “testoni”, forse perché invece di omicidi lo scorso anno la nostra sinistra ha sostenuto un governo di suicidi, e quindi la situazione sembra grave ma come al solito non seria, mentre invece lo è, eccome).

Tornando in Brasile, il governo di Lula e del suo successore ricolloca dunque una parte della ricchezza accumulata ricollocando gli abitanti delle favelas in posti più dignitosi, più igienici e più sicuri. In fondo sembra uno scambio più che equo: qualche decina di migliaia di reali contro la disponibilità a trasferirsi e a farsi demolire la baracca. La famiglia che accetta sembra avere tutti i vantaggi.

E invece, ci fa capire Giorgio Diritti, si offrono denari in cambio della perdita della comunità, che è forse il concetto chiave del film

3. Per tutta la storia assistiamo al contrappunto tra la comunità delle suore arroccata nel bell’Eremo di San Romedio, in Trentino (e chi c’è stato sa quanto sia “fuori dal mondo”), e la comunità della favela su palafitte di Manaus, coi suoi abitanti stretti tra l’alettante promessa del governo e l’attaccamento, addirittura la fedeltà, alla loro vita comunitaria, con la preoccupazione di perderla per sempre.

Qui si opera l’inversione. L’emancipazione comunitaria del disastro, se così possiamo approssimativamente definirla con un evidente ossimoro, borderline sia per le condizioni igieniche sia per quelle legali (mi tornava prepotentemente in mente Pasolini), mantiene unite le sue persone in condizioni che a noi, “progrediti” che assistiamo alla vicenda nella sala cinematografica romana, sembrano spaventose (e il regista non cerca per nulla di far finta che non sia così, anzi).

Dall’altra parte del fiume – che diventa assassino di bambini con l’inondazione, unico momento in cui la natura spaventa, e guarda caso lo fa nella città non nella rigogliosa giungla amazzonica – al di là di quel confine naturale e sociale, c’è il progresso. Il progresso dei singoli. Possibilmente di molti, anche se non di tutti; ma tante singolarità, senza legami di comunità, che accresceranno con la loro sommatoria una società di atomi disaggregati, ancorché progrediti. Una condizione descritta in modo mirabile dai piano-sequenza nella palestra privata che alla chiusura Augusta e i suoi amici della favela hanno il compito di pulire e lucidare, con tutte le sue multistazioni e cyclette uguali e allineate perfettamente, ad aspettare indifferenziati cultori del mito del corpo perfetto e astratto.

4. C’è dunque da riflettere su questa dialettica tra progresso ed emancipazione, tra società atomizzata e comunità.

Una riflessione cruciale, perché la comunità può diventare, se minacciata dall’aut aut del progresso, il luogo della reazione anche in senso politico.

Ne abbiamo visti alcuni esempi in Bolivia, che l’imperialismo ha cercato di giocare contro Morales. Le si videro in Nicaragua, dove poche “comunità” indie si unirono per qualche tempo alla delinquenziale guerriglia antisandinista dei Contras, sempre al soldo nordamericano. Per non parlare di alcuni specifici aspetti delle attuali “rivoluzioni colorate” e della strategia di esportazione del caos imperiale nel Medio Oriente allargato.

Siamo dunque di fronte a contraddizioni immense che la sinistra non si è mai attrezzata per affrontare (stupendosi magari che la comunità Valsusina le abbia preferito di gran lunga il Movimento 5 Stelle). La destra invece si è in parte attrezzata, ma per imprimere un marchio reazionario, dove la lotta contro il progresso non è per l’emancipazione, ma per garantire quel progresso a pochi, disposti lungo una gerarchia ramificata, in cui agli ultimi posti c’è chi non avrà né progresso né emancipazione, ma qualche spicciolo e tante torve chiacchiere sui miti del Blut und Boden.

Anche i film precedenti di Diritti avevano come tema la comunità.

Nel sorprendente “Il vento fa il suo giro” era quella di «contadini che … si sono inurbati portandosi dietro miti identitari rancorosi e fossilizzati. Anzi, rancorosi proprio perché fossilizzati, non più vitali, solo pensati e rinchiusi in una sorta di mausoleo».

Nel magnifico “L’uomo che verrà”, protagonista è la comunità contadina di Marzabotto «descritta senza stucchevolezze bucoliche. Non c’è nulla di romantico nella vita contadina. C’è solo la realtà del lavoro che segue le strette regolarità di una natura non mitizzata ma vissuta, e la stessa riproduzione degli uomini segue dei ritmi imposti da ciò che viene visto come un disegno più alto e accettato con amore e letizia»; dove «anche la guerra partigiana e la solidarietà degli abitanti sembrano far parte di scelte naturali, non ideologiche» e all’eccidio ci si avvicina «scandendo le stagioni»[1].

Anche in quei film la comunità è in bilico tra essere soggetto e oggetto. In quest’ultimo lavoro gli interrogativi si espandono e in qualche misura chiarificano anche quelli precedenti.

La superposizione della comunità dell’Eremo su quelle indie, attraverso la sua missionaria inviata in Amazzonia, getta sul tappeto, con gentilezza ma senza infingimenti, il grande problema di tutti questi tipi di azioni, siano esse fatte da cristiani o da laici: il problema epistemologico-politico riassunto da Gayatri Chakravorty Spivak nella famosa domanda “Can the subaltern speak?”[2].

Il subalterno può parlare, o ha bisogno sempre del “traduttore”, di chi “capisce” quel che vorrebbe dire ma non riesce ad esprimere, sia esso un missionario, un funzionari di partito, un intellettuale?

È una domanda che dobbiamo porci sentendo le dichiarazioni progressiste del funzionario governativo alla TV sul destino della favela delle palafitte e i commenti dei suoi abitanti. Ed è un problema che ci aggredisce quando sentiamo e vediamo il telepredicatore evangelical nella capanna della comunità del villaggio indio, che dalla TV parla, predica, predica e parla, ordinando purificazioni a persone che non vede, che non vedrà mai e che non ha nessun interesse a vedere.

Forse, stringi stringi, questo figuro fa cose non molto diverse da quelle della missionaria cattolica che distribuisce santini e statuine di Gesù bambino. Ma ancora una volta il mezzo discrimina. Almeno la suora, laggiù, nei villaggi, c’è davvero, in carne ed ossa. Così avrà la possibilità di riflettere sulle critiche che le avanza Augusta (attenzione, dunque, al mito della democrazia tramite tecnologia, foss’anche interattiva, senza occhi che s’incontrano).

La domanda riemerge in continuazione, dunque, grande come un edificio, come classi (se l’era posta anche Lenin), popoli e nazioni, come fiumi e oceani.

Non abbiamo certo una risposta (sarebbe poi possibile una risposta intellettuale?). Però, e qui torniamo all’inizio della chiacchierata, un primo suggerimento ce lo offre Giorgio Diritti, fin dal titolo: Occorre “andare”, mettersi comunque in cammino, perché se si vuole cambiare occorre cambiare là dove le cose devono essere cambiate. E se non si riesce a fare altro, almeno saremo testimoni.


[1] Le citazioni sono tratte dal mio “L’Uomo che verrà. Decisamente sì

[2] Per il suo significato si vedano Mahasweta Devi, “Trilogia del seno” con saggi di Gayatri Chakravor.

Tags: , , , , , , , ,

Lascia un commento