La Rivoluzione impossibile

nov 11th, 2013 | Di | Categoria: Dibattito Politico

Eugenio Orso & Anatolio Anatoli

Una domanda ricorrente, che si sente ripetere sempre più spesso e che, apparentemente, non trova una risposta, è “perché non scoppia una rivoluzione?”. La situazione sociale è a precipizio, i soprusi del potere neoliberista, tradotti in manovre finanziarie d’esproprio dai governi nazionali collaborazionisti, continuano senza soste, gli apparati produttivi e l’occupazione in paesi come l’Italia sono già alla corda, i redditi popolari si contraggono di giorno in giorno, ma non vi è alcun cenno di una reazione politica e sociale organizzata, per fermare la mano dei massacratori finanziari, mercatisti ed europoidi. La domanda “perché non scoppia una rivoluzione?”, essendoci tutti i presupposti, è più che giustificata e non solo in relazione alla situazione italiana.

Nel presente post cercheremo di rispondere in estrema sintesi a questa domanda, articolando la risposta in quattro punti principali, corrispondenti ad altrettante concause che hanno portato la situazione politica e sociale a questo estremo, neutralizzando il dissenso all’interno della società.

1)    La flessibilizzazione e l’idiotizzazione di massa socialmente organizzate hanno avuto pieno successo. Il processo ultraventennale di distruzione delle sicurezze materiali, per i dominati (lavoro precario sottopagato in luogo di lavoro stabile tutelato), e di azzeramento della coscienza politica e sociale nelle masse, ha rappresentato e rappresenta un elemento strutturale del neocapitalismo, un presupposto irrinunciabile per la sua affermazione. Al punto tale che il pd – il più importante cartello elettorale italiano liberaldemocratico al servizio della classe globale dominante – si permette, stando al governo, di estendere il blocco delle retribuzioni al pubblico impiego fino alla fine del prossimo anno, per il taglio ineludibile della spesa pubblica, affamando la sua stessa base di consenso. Sappiamo bene qual è il peso elettorale del pd nel pubblico impiego e, in particolare, in settori come quello della scuola, molto penalizzati in questi ultimi anni. Eppure, i sondaggi rivelano incrementi di consensi percentuali di questo partito-servo delle eurocrazie globaliste, che non possono essere dovuti soltanto al probabile collasso dell’altro socio politico all’interno del sistema, cioè del pdl, o all’altrettanto probabile perdita di consensi di m5s. Ancor peggio, perché Matteo Renzi, l’astro nascente del collaborazionismo politico italiano filo europoide, filo tedesco e filo globalista, molto probabilmente guiderà l’annientamento finale dell’Italia con i voti di coloro che dovrebbero avversarlo. Il suddetto non è un idiota semi-visionario che pontifica alla Leopolda (una specie di San Sepolcro a rovescio, come programma), come mostrano di credere alcuni, ma un neoliberista per convenienza, abile “performer” sulla scena politica, incaricato della demolizione finale del paese. Fra Berlusconi e Mendella (chi se lo ricorda Giorgio di Rete Mia, il Berlusconi mancato, nonché venditore di case in Romania?), fra la politica televisiva che alimenta lo Spettacolo e il messianesimo spicciolo, ecco spuntare un nuovo “salvatore dell’Italia”, un paio d’anni dopo il non eletto Mario Monti. Il sindaco di Firenze rappresenta la sintesi del berlusconismo, del lib-lab, del neoliberismo “di sinistra” e della politica-Spettacolo (in senso debordiano). Infatti, fidando sull’efficace idiotizzazione di massa, che fa digerire al popolo politiche contrarie ai suoi interessi vitali, i “poteri esterni” hanno scelto Renzi per i motivi anzidetti e perché è un traditore in vendita, disposto a completare il saccheggio dell’Italia occupata. Lo farà pienamente cosciente di farlo, con il sorriso sulle labbra, e quindi è doppiamente colpevole. Dopo di lui il deserto più totale. Questo farabutto è stato in “joint venture” con l’infame Ichino (l’apostata del pci che ha scritto i nullafacenti, definendo lo stipendio del dipendente “odiosa rendita parassitaria”) contro il lavoro dipendente e, in particolare, contro il suo ultimo santuario di stabilità e diritti, cioè l’impiego pubblico. Questo farabutto (Renzi) vuole demolire completamente uno stato sociale che già non funziona, inoculando germi come quello della “flexsecurity”. E’ un sostenitore delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni (ben oltre la celebre “lenzuolata” di Bersani!) per svendere all’incanto gli asset produttivi nazionali e in generale il patrimonio pubblico. Nello stesso tempo, Renzi vorrebbe diminuire il costo del lavoro (e quindi il potere d’acquisto degli italiani) per rianimare la tanto santificata competitività. Il suddetto è un pubblicista del denaro elettronico e della limitazione estrema della circolazione del contante, soluzione ottimale non tanto per “combattere l’evasione”, come si millanta, ma per un efficace e capillare controllo della popolazione. Eppure possiamo essere sicuri che la base elettorale del pd lo sosterrà, forse in grande maggioranza. Pensionati, impiegati pubblici, insegnati e altri soggetti voteranno in massa, “fiduciosi”, per Matteo Renzi, acclamandolo come il “nuovo che avanza” e seguendolo come si segue un pifferaio magico che ti porta verso il baratro. La probabile ascesa politica di Renzi, in un’Italia “terminale”, costituirà la miglior prova del successo elitistico, conseguito flessibilizzando e idiotizzando le masse popolari.

2)    Il mito degli “stati uniti d’Europa”, dietro il quale si nasconde l’unione monetaria europoide quale strumento di dominazione delle élite neocapitalistiche, è stato truffaldinamente diffuso, con successo, a livello di massa. Il fine è di imprigionare interi popoli nell’eurolager e di togliere l’acqua al pesce del dissenso “euroscettico”. Berlusconi e parte del pdl che lo segue stanno pagando caro il loro cauto “euroscetticismo”, in buona parte elettoralistico, la loro relativa inaffidabilità e per questo motivo le élite europoidi hanno deciso di marginalizzarli, o addirittura di eliminarli dalla scena. Meglio non rischiare, anche se Berlusconi, alla fine, ha sempre abbassato vigliaccamente la testa davanti ai grandi “poteri esterni” (come nel caso macroscopico dell’avvento di Monti o in quello dei bombardamenti sulla Libia). Il pd, invece, e soprattutto la sua “ala liberal”, insiste con l’europeismo più sfrenato, con le mitologie fasulle dell’unione dei popoli “democratica”, “dal basso”, con il necessitarismo degli “stati uniti” a moneta unica privata. Tutta propaganda becera e vuota che il pd può permettersi, essenzialmente perché la sua base di consenso è completamente idiotizzata e perciò consenziente, nonostante la prospettiva futura di subire i morsi della fame. Inoltre, ci sono le “regole europee” da rispettare acriticamente, devolvendo “spontaneamente” anche i residui di sovranità nazionale agli organi sopranazionali euroglobalizzanti. La prospettiva del dominio del mercato, cioè della sottomissione agli interessi della classe global-finanziaria deterritorializzata, è quella espressa dai collaborazionisti piddini, confortati dal fatto che la loro base è ormai una congerie d’idioti politici e sociali, orfani della classe di appartenenza e disposti a bere qualsivoglia fandonia. In sostanza, è sempre la diminuzione dell’essere umano, provocata artificialmente nel passaggio dal capitalismo del secondo millennio a quello del terzo, che favorisce l’accettazione del truffaldino mito degli “stati uniti d’Europa” (di natura elitistica), impedendo ai dominati di ribellarsi. In Italia, possiamo notare come il pd, oltre ad agire politicamente recependo sempre e comunque i diktat del potere euroglobale, riesce a propinare alla sua base le fandonie europeiste con un certo successo, non mettendo mai in discussione la moneta unica privata.  Temiamo che se continuerà il “cammino europeo” del paese, senza scossoni politici e sociali, l’internamento nell’eurolager sarà la sola prospettiva che avranno gli italiani per i prossimi anni. 

3)    Il tradimento della sinistra, nei confronti della sua stessa base di consenso, e l’estinzione dei comunisti hanno favorito la schiacciante vittoria del neoliberismo, in particolare in Europa e in modo molto particolare in Italia, paese in cui esisteva il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. Scriveremo solo l’indispensabile su questo punto, avendo già trattato diffusamente l’argomento in passato. Dopo la fine del mondo bipolare Usa-Urss, all’internazionalismo proletario, caduto in disuso, si è sostituito “il villaggio globale”, cioè il mito della globalizzazione unificante per l’umanità. Ancor peggio, lo stato nazionale sovrano è stato avversato per legittimare il governo sopranazionale (nella sostanza non di natura elettiva e “democratica”) e gli organi della mondializzazione (fra i quali la uem, la bce e la commissione europea), secondo i peggiori incubi spinelliani, o meglio “spinellati”. In certi casi la classe, e con lei il vecchio mito dell’operaio-massa, è stata sostituita da una vaga moltitudine, di natura filosofica, inesistente da un punto di vista sociologico e inserita, guarda caso, in un contesto sociale nuovo, squisitamente a-classista, caratterizzato dall’atomizzazione e dall’isolamento dei singoli. Il monopolio della lotta di classe è stato consegnato alle élite globaliste, inibendo la protesta sociale. Tutto questo con la fattiva collaborazione della sinistra e degli apostati del comunismo, in posizione subordinata rispetto ai centri di interesse sopranazionali del neocapitalismo. L’accettazione delle dinamiche mercatiste “a sinistra” è completa, pur temperata da tracce, sempre più sparute, di laburismo. Il testimone della protesta sociale e dell’antagonismo, un tempo nelle mani della sinistra e soprattutto dei comunisti, non l’ha raccolto nessuno, come possiamo facilmente constatare in Italia. Così è stato mandato definitivamente in soffitta, a far compagnia alla Rivoluzione. Sinistra neoliberista, componente essenziale del partito unico neocapitalistico, e residui di comunismo individualistico post sovietico, completamente rifluito negli immaginari nuovo-capitalistici, oggi dominano incontrastati, turlupinando le masse pauperizzate. Renzi, Letta, Bersani e Vendola, nonostante gli screzi a scopo elettoral-propagandistico e qualche rivalità reciproca, sono dalla stessa parte e la loro politica è unica, come il pensiero dell’epoca. In conclusione, precisiamo che un discorso simile riguarda i sindacati (cisl a suo tempo con Monti e scelta civica, cgil con il pd, fiom con il sel) i quali soffocano la protesta con scioperetti inani e remano bellamente contro i lavoratori, firmando accordi-capestro. Quello che abbiamo definito (forse un po’ semplicisticamente per essere compresi) “il tradimento della sinistra e l’estinzione dei comunisti”, sul piano politico è un fenomeno evidente, che si accompagna al “tradimento del sindacato”, al “tradimento degli intellettuali”, dei giornalisti e via elencando.

4)    L’assenza di gruppi politici (e di economisti, di sociologi, di politologi) con un piede dentro il sistema, inseriti nelle sue logiche, ma nello stesso tempo ribelli, portatori di nuove istanze e di nuovi programmi strategici economico-politici, disposti a rischiare mettendosi contro gli interessi sovrani della classe globale dominante, è un’evidenza. La strada scelta, nel caso tali gruppi compaiono sulla scena della storia, potrà essere quella dell’affermazione elettorale, giocando secondo le regole liberaldemocratiche. Nell’Italia desertificata questi gruppi mancano completamente, mentre in Francia – potenza nucleare e paese chiave dell’Europa continentale, escludendo la Russia – qualche sorpresa potrebbe forse riservarla il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, anche se noi siamo piuttosto scettici in proposito. L’unica alternativa alla lotta armata rivoluzionaria (oggi purtroppo impensabile) è la formazione e la significativa presenza, all’interno del sistema, di gruppi e partiti politici che “remano contro” il sistema stesso, per la riacquisizione della sovranità nazionale e la subordinazione dell’economia alla politica, capaci di coagulare intorno a sé un vasto consenso popolare. Questi gruppi non seguirebbero la via rischiosa dell’insubordinazione nei confronti delle oligarchie euroglobaliste per etica e buoni sentimenti (mettendo in pericolo la loro stessa incolumità fisica), ma per appropriarsi la sovranità e la decisione politico-strategica all’interno dei vecchi stati nazionali.

Il punto 4 ci porge l’occasione per delineare possibili, futuri scenari del tutto nuovi. Nel caso i predetti gruppi dovessero comparire, in situazioni di forte tensione sociale e di precipitazione verticale degli eventi, sarà forse possibile sottrarsi definitivamente al giogo neocapitalistico (ed europoide) in due fasi, sintetizzabili in poche righe come segue:

1)    Fase “propedeutica” alla Rivoluzione vera e propria, dirigista, sovranista, keynesiana, di rigetto del libero mercato (globale) e dell’eurolager. Le forze che la domineranno – non propriamente definibili rivoluzionarie, ma, al più, “protorivoluzionarie” – avranno un piede dentro il sistema, pur ribelli, e guideranno la transizione. In Italia potrebbero manifestare qualche lineamento spiccatamente nazionalista, definibile “di destra”.

2)    Fase rivoluzionaria vera e propria. Emergeranno in contesti culturali, politici e sociali “rimessisi in movimento”, liberati dal giogo neocapitalistico, sopranazionale e neoliberale, le vere forze rivoluzionarie. Si ricomporrà il quadro del conflitto sociale non più sbilanciato da una parte sola, emergeranno nuove élite antagoniste, per la fuoriuscita dal capitalismo. Un po’ come i bolscevichi di Lenin dopo la (breve) fase menscevica, solo con tempi presumibilmente più lunghi. 

Ne consegue che se anche all’inizio le idee socializzanti e neocollettivistiche non troveranno uno sbocco concreto, lo troveranno in seguito quando, alla fine della transizione, si manifesterà una nuova spinta rivoluzionaria nella società. La chiave di tutto questo processo storico sarà la riacquisizione della piena sovranità, monetaria e politica. Solo così la Rivoluzione impossibile potrà ridiventare possibile.

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2 commenti
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  1. Nel 1929, il primo ministro francese, Aristide Briand fece un discorso all’assemblea della società delle nazioni nel quale propose l’idea di una federazione di nazioni europee basate sulla solidarietà e sul raggiungimento della prosperità economica e cooperazione politica e sociale. Molti illustri economisti, tra cui John Maynard Keynes , appoggiavano quest’idea. Nel 1930 sotto richiesta della società delle nazioni Briand presentò un “Memorandum sull’organizzazione di un sistema di Unione Federale Europea”.

  2. Ultima considerazione è sulle città oltre un milione di abitanti ormai totalmente multi etniche e globalizzate. Faccio l’esempio del Piemonte: se si chiede alla maggioranza dei torinesi qualcosa sull’identità culturale piemontese essi non sapranno rispondere, mentre se si va nel resto del Piemonte è probabile il contrario. Quindi nel caso dovessero nascere nuovi stati credo che sia anche necessario che queste città così globalizzate diventino delle città-stato a se perché hanno più in comune con le altre città globalizzate europee che con la cultura del territorio circostante. Quindi seguire in questo senso la proposta avanzata in Europa per il Belgio con la divisione in Fiandre, Vallonia e città stato di Bruxelles. Come ultimo fattore pensiamo che nell’eventuale referendum separatista ci sia anche la richiesta sulla matrice culturale da adottare ad esempio, se rimanere nella matrice culturale italiana (quindi rimanere culturalmente uguali anche se separati), oppure adottare una doppia matrice ad esempio italiana e piemontese (quindi introduzione della lingua piemontese nelle scuole) oppure una matrice italiana e francese oppure come potrebbe essere nel caso dell’Alto Adige, adottare esclusivamente la matrice locale o addirittura una differente dall’ex stato di appartenenza come quella tedesca. Questi quesiti dovranno accompagnare un eventuale referendum secessionista. Invece in caso di richieste unioniste ( quindi un’area che vuole abbandonare il suo stato per passare ad un altro) crediamo che requisiti imprescindibili siano la contiguità territoriale e una forte vicinanza culturale allo stato con cui ci si vuole unire, per evitare opportunismi di semplice natura politica ed economica.

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