Intervista politico-filosofica a Costanzo Preve

feb 20th, 2014 | Di | Categoria: Interviste

Riproponiamo questa Intervista del 2004 a Costanzo Preve per la Rivista Comunitarismo

Gli intervistatori, pur portatori di esigenze diverse, hanno ritenuto opportuno procedere alla formulazione comune delle domande all’intervistato piuttosto che con domande “nominative”. A porre le domande sono stati Maurizio Neri e Giancarlo Paciello. Le domande sono precedute da una D: e saranno in corsivo, le risposte da una R:.

D:: Vorremmo cominciare con alcune domande personali. Il “Corriere della Sera” del 3 settembre 2004 scrive testualmente: “A tirare le fila di un movimento nel quale convivono trotzkismo, anarchia, punte di nichilismo e di ribellismo, dove il principale propellente è l’antiamericanismo e la guida teorica è il filosofo marxista Costanzo Preve ci sono…Moreno Pasquinelli, Leonardo Mazzei e Mara Malavenda, eccetera”.Ti riconosci in questa definizione di guida teorica?

 

R: Troppo onore. Sulla questione del cosiddetto “antiamericanismo” e della sua corretta definizione tornerò più avanti con maggiore calma e precisione, data l’importanza cruciale della questione. Per ora mi limito a far notare che il circo mediatico è del tutto “incorporato” (in inglese si direbbe embedded) nelle scelte strategiche delle oligarchie finanziarie che dominano il pianeta, e parlare di “opinione pubblica” è del tutto illusorio. Il presupposto per l’esistenza della cosiddetta “opinione pubblica”, infatti, è la correttezza dell’informazione. Ora, che l’informazione sia assolutamente scorretta ce ne accorgiamo quando l’occhio dei potenti si ferma un attimo, sia pure distrattamente, sulle nostre insignificanti persone. Facciamo il mio caso. Per quanto riguarda il trotzkismo, io ne sono un critico politico e filosofico radicale, ho scritto alcuni testi analitici in proposito, ed infatti i trotzkisti professanti mi disprezzano, mi ignorano e mi tengono in disparte. Per quanto riguarda l’anarchismo, ho molto rispetto per i “vecchi” anarchici, ma non ne condivido per nulla la pratica e la dottrina, sono per una democratizzazione radicale dello stato politico, e non condivido neppure la teoria di Marx sull’estinzione dello stato, che considero del tutto “utopica”, almeno nell’attuale orizzonte storico. Per quanto riguarda il nichilismo, infine, ho scritto centinaia di pagine filosofiche per criticarlo.

Ed eccomi definito dal circo mediatico trotzkista, anarchico e nichilista! Ci sarebbe da piangere se non ci fosse da ridere. O viceversa. Qui non siamo sul piano del fraintendimento o della superficialità giornalistica soltanto. Qui siamo sul piano della diffamazione pura e della creazione di mostri. O se vogliamo minimizzare, dal momento che sono un mostro “piccolo”, di mostriciattoli.

D:: Ammetterai che la diffamazione del mondo borghese e capitalistico è certamente un progresso rispetto alla uccisione tipica del mondo religioso, signorile e feudale?

 

R:: Nonostante abbia delle serie riserve filosofiche sul concetto di “progresso”, che accetto nel campo della medicina e delle scienze della natura, ma che deve essere invece messo in discussione, problematizzato ed eventualmente criticato per quanto riguarda la vita umana e sociale oggi, devo ammettere che avete ragione. Il “Corriere della Sera” è indubbiamente meglio della Santa Inquisizione. La demonizzazione simbolica data in pasto al lettore distratto ed indifferente è certamente meglio delle tenaglie roventi. Il fatto che io sia definito trotzkista, anarchico e nichilista mentre ovviamente non sono né trotzkista, né anarchico né tantomeno nichilista, è comunque meglio della sorte di Giordano Bruno o della sorte di chi è stato messo in galera per cosiddetti “reati di opinione” dalle dittature anti-liberali novecentesche. Tuttavia, non bisogna cullarsi su illusioni insostenibili. Per il momento Preve non è penalmente perseguitato perché è del tutto innocuo e marginale. Se per caso non lo fosse, ed il potere delle oligarchie finanziarie fosse realmente messo in pericolo da Preve, cosa che per ora certo non avviene, vedremmo Berlusconi, Prodi, D’Alema e Bertinotti comportarsi esattamente come a suo tempo si comportarono il cardinale Bellarmino a Roma, il cardinale Ruffo a Napoli, Mussolini, Hitler, Stalin e Franco.

A mio avviso, chi non capisce questo elementare principio di filosofia politica ha sostituito il salmodiare buonista alla dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii. Lenin ha affermato molte cose inesatte, ma aveva a mio avviso completamente ragione quando scrisse che le classi dominanti metterebbero fuori legge anche la geometria euclidea se essa fosse incompatibile con il loro dominio. Il capitalismo ha (almeno provvisoriamente) stravinto contro il comunismo (quello reale, non quello ipotetico ed ideale di Marx) perché, detto in poche parole, un potere flessibile è darwinianamente più forte di un potere rigido. Ma in futuro momenti di “rigidità” potrebbero venire. Per fortuna (o se vogliamo per sfortuna) sono troppo anziano perché sia probabile che momenti di rigidità vengano durante la mia vita terrena. Se ne riparlerà nel 2030 o nel 2040. Per il momento mi sento in “libera uscita”, e mi godo questa libera uscita, almeno finché dura.

D:: Concordiamo con la tua posizione più “realistica” che “pessimistica”. Andiamo avanti però con le domande personali. Ci sembra che generalmente tu sia connotato come teorico del Campo Anti-imperialista e di Iraq Libero, come filosofo marxista ed infine come teorico del superamento integrale della dicotomia fra Destra e Sinistra. Perché non approfitti dell’occasione per chiarire, nell’ordine,  quanto tu ti riconosca in queste tre figure?

R:: Connotarmi come “ideologo” del Campo Anti-imperialista e di Iraq Libero è una semplificazione mediatica prodotta dalla irresistibile tendenza giornalistica a presentare i “filosofi” come degli spostati che in nome di ideologie fanatiche vogliono dominare il mondo. Si tratta di un modello di origine anglosassone, elaborato al tempo della guerra fredda USA-URSS, in cui il “filosofo pazzo” aveva studiato alta filosofia alla Sorbona di Parigi ed uso dei materiali esplosivi all’Università Lumumba di Mosca.

Questa connotazione è storicamente inesatta. Il Campo Anti-imperialista di Assisi si è aperto per la prima volta nell’estate 2000, ed io ne ignoravo addirittura l’esistenza, per cui ci partecipai per la prima volta nell’estate 2001. Venni a conoscenza casualmente della rivista “Praxis”, che non è distribuita nelle librerie, e notai che aveva preso una coraggiosa posizione controcorrente sulla guerra di Jugoslavia del 1999, che non era stata affatto un’operazione umanitaria di salvataggio del popolo kossovaro dal genocidio e dalla espulsione etnica (entrambi inesistenti, e la cui inesistenza era stata ripetutamente segnalata dagli osservatori internazionali OSCE), ma un’operazione di normalizzazione imperialistica dell’area balcanica, cui partecipò attivamente il governo D’Alema. Su questa base pensai: “Ecco un gruppo con cui si può lavorare insieme!”. E’ evidente che non avrei mai potuto lavorare con chi ha preso la posizione equidistante fra la guerra ed il cosiddetto “criminale genocida” Milosevic! Costoro (e costoro sono il 90% della sinistra “effettiva” in Italia) dicono no alla guerra, e poi avallano la giustificazione data alla guerra (c’era genocidio, c’era espulsione etnica), contribuendo attivamente a che ai loro seguaci vada il cervello in pappa!

Il mio incontro con Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei avvenne dunque in questo modo. Ci furono prima loro, e solo dopo arrivai io. Questo per la precisione storica, che non fa mai male.

 

D:: Apprezziamo la modestia, vista la moda corrente di sgomitare per farsi attribuire ruoli di Padri Fondatori. Tuttavia, se fonti diverse ti hanno attribuito l’ambiguo merito di essere il “teorico” del Campo Anti-imperialista qualche ragione ci sarà stata!

R:: In effetti qualche ragione c’è. Gli intellettuali italiani, in particolare quelli giornalisticamente connotati come di “sinistra”, costituiscono oggi una sorta di Partito Unico Politicamente Corretto. La visibilità mediatica, sia quella altissima (praticamente solo Umberto Eco), sia quella alta (Massimo Cacciari), sia infine quella medio-alta (Gianni Vattimo, Marco Revelli, Toni Negri, eccetera), è riservata esclusivamente agli esponenti del Partito Unico Politicamente Corretto, fra cui poi si struttura una destra (Eco), un centro (Cacciari) ed una sinistra (Negri). Non esistono da noi pensatori veramente anti-sistemici, del tipo di Chomsky e Said negli USA e Bourdieu in Francia. Da noi chi è anti-sistema è cacciato nell’oscurità marginale. Al massimo si dà spazio a Severino, che ripete in modo sapienziale che la colpa di tutto è della Tecnica, che equivale ovviamente a dire che non è di nessuno, visto che la Tecnica è talmente generica ed onnicomprensiva che in essa ci stanno Bush e Bin Laden, Bertinotti e Berlusconi, Oriana Fallaci e Toni Negri.

Questa peculiare miseria italiana, a mio avviso, non deve solo essere rintracciata nella lunga durata del gesuitismo controriformistico (anche se a mio avviso anch’essa gioca la sua parte). Più vicini a noi stanno la dissoluzione intellettuale e morale del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS, già egemone fra gli intellettuali italiani intesi come gruppo sociale “gramscianamente” organizzato per la cosiddetta “egemonia”, ed anche fenomeni politici, come il pentitismo generazionale della banda di Lotta Continua, oggi sovrarappresentata nei media. In questo obitorio privo di impianto di refrigerazione chiunque non si adegui al lessico unico normalizzato viene emarginato. Più in generale, direi che oggi gli intellettuali italiani potrebbero essere divisi in tre grandi categorie, i crociati, i disincantati ed infine i salmodianti.

Vediamo il sommario profilo del Crociato. L’Occidente è in pericolo! L’Islam ci attacca! Bisogna difendere i nostri valori, che non sono solo cristiani, laici ed occidentali, ma sono universali. Comunque, se per caso qualcuno non fosse d’accordo sulla loro universalità, abbiamo abbastanza bombe e sistemi di puntamento computerizzato per convincerlo. Ci vuole un’unione nazionale bipartisan. Chi si dichiara “resistente” in realtà è un “terrorista”, e basta con le giustificazioni! Bush può avere anche mentito sull’esistenza delle famose armi di distruzione di massa, ma in fondo questo importa poco, perché non si può negare che il mondo oggi sia migliore senza Saddam!

Vediamo il sommario profilo del Cinico Disincantato. Tutto è merda! Il terrorismo non è che l’ultima incarnazione della merda eterna, frutto del lato irrazionale della natura umana (variante laica) o dell’influenza diabolica sugli eventi umani (variante cattolica). Basta con le illusioni, ed in particolare con l’ultima e più pericolosa di queste illusioni (l’illusione marxista, ndr). Vivi nascosto, se ovviamente ti puoi permettere il costo della protezione militare anti-terroristica. C’è sempre l’eterno ritorno del sempre uguale scenario del ripetersi delle miserie umane. Il mondo è solo un grande minestrone cosmico!

C’è infine, assolutamente prevalente nella cultura di “sinistra”, in cui il “buonismo” veltroniano ha sostituito il vecchio “cattivismo” staliniano (ma Hegel avrebbe avuto molto da dire sulla segreta continuità di questo rovesciamento dialettico), il Salmodiante. Il motto del Salmodiante è uno solo: salmodiare, salmodiare pur di non pensare. Il pensare divide, e rende cattivi, mentre il salmodiare insieme unisce, e rende buoni. Pace, pace, pace, pace. No alla guerra (ripetuto cinquecentotrentadue volte). Tutti gli adulti sono cattivi, solo i bambini sono buoni. Facciamo giocare a calcio insieme bambini palestinesi ed israeliani, e cosa importa se i coloni sionisti assassini occupano sempre più terre che non sono le loro! Facciamo pregare insieme ulema, rabbini, bonzi e pretoni. Salmodiare, salmodiare. Le processioni dei salmodianti sono la “seconda superpotenza mondiale”, lo dice persino il New York Times (ho dei dubbi che possano dirlo Dio o Allah, presupponendone o meno l’esistenza). Salmodiare, se possibile con cartelli e candele, e così ci sentiremo più buoni, mentre i resistenti iracheni e palestinesi che non si limitano a salmodiare come noi sono cattivi. Noi siamo democratici, mentre Saddam, Milosevic e Putin sono terroristi. In quanto a Bush, noi salmodianti non siamo così estremisti da dire che è un “terrorista”. E’ solo un neoconservatore, che una grande democrazia saprà certamente sostituire con qualcuno più buono. L’imperialismo non esiste, esiste la globalizzazione, che però si può migliorare salmodiando.

E’ evidente che, così come fra i ciechi l’orbo è re, in questo carnevale di crociati, cinici disincantati e salmodianti buonisti autoreferenziali perfino il modesto Preve può fare la sua figura.

D:: Abbiamo visto che respingi dunque l’attribuzione mediatica di “teorico” del Campo Anti-imperialista. Come ci hai detto al margine di questa intervista, se un teorico c’è, è l’ingegnere austriaco di Graz Wilhelm Langthaler, anti-imperialista puro privo di residui scolastici gruppettari. Passiamo ora alla seconda attribuzione mediatica che ti concerne, quella di “filosofo marxista”, la rivendichi oppure no?

R:: Bisogna distinguere le attribuzioni che ci diamo da noi stessi e le attribuzioni che ci danno gli altri. All’interno della piccolissima comunità di coloro che si definiscono “marxisti” in Italia io in generale non sono affatto stimato, in un ampio spettro di posizioni che vanno dal “superficiale” al vero e proprio “rinnegato”. Ci sono allora di fatto solo due possibilità. Primo, la disistima generale è giustificata, ed è la logica ricompensa di una mediocrità di analisi e di proposte. Secondo, la disistima generale, all’interno di un ambiente conservatore, ossificato e sterile, è in realtà la più grande delle lodi implicite ed indirette. A voi, naturalmente, “barrare” la casella giusta. A me, si permetta, per logiche ragioni di autoconservazione fisica ed intellettuale, barrare la seconda.

Che cosa voglia dire essere “marxisti” non è affatto univoco, e soprattutto non è come dichiararsi fisici, chimici,cardiologi o psicologi. Non esistono lauree e dottorati in “marxismo”. Per alcuni il marxismo è una dottrina corazzata. Per altri è un cantiere di ricerca aperto. Per altri ancora è un metodo. Infine, per i “settari”, che rappresentano circa il 90% dei marxisti che si dichiarano tali, “marxista” è solo colui che condivide i principi della loro specifica setta (togliattana, trotzkista, bordighista, operaista, e via inutilmente enumerando).

In questo museo degli orrori, o se volete in questa festa carnevalesca in maschera, bisogna rinunciare ad imporre una nozione univoca di “marxismo”. Si è anche spesso di fronte ad esempi di ignoranza pittoresca. In generale si prende la parola su di un argomento dopo essersi minimamente informati, ma questo no avviene per il “marxismo”, in cui ognuno si sente libero di sparare le proprie idiozie. La stragrande maggioranza dei dilettanti che parla di marxismo non sa neppure che Marx non ne fu per nulla il fondatore ed il sistematizzatore, ma lo furono Engels e Kautsky nel ventennio della grande depressione 1875-1895, in cui “marxismo” divenne sinonimo di credenza nell’imminente crollo endogeno della produzione capitalistica. Una maggioranza ancora più grande non è per nulla consapevole del fatto che il termine “marxismo” è una pura astrazione, o meglio la posta in gioco di posizioni configgenti reciprocamente del tutto incompatibili. In generale, il terreno teorico è consegnato alla più pittoresca confusione ed ignoranza.

Personalmente, non considero importante la dichiarazione di appartenenza, che lascia sempre il tempo che trova, ma considero importante solo la produzione di conoscenze sociali (alla luce del metodo di Marx), la proposta di concezioni filosofiche universalistiche (alla luce del metodo di Marx), ed infine la critica storica di forme di coscienza collettiva di tipo ideologico sfocianti in profili di falsa coscienza (alla luce del metodo di Marx). Come vedete, si tratta di tre diverse e distinte forme di conoscenza, laddove è per me del tutto privo di interesse il terreno sportivo dell’appartenenza identitaria.

Posso allora considerarmi “marxista”? Basta intendersi. Il presupposto del marxismo è a mio avviso una considerazione unitaria, largamente intuitiva, della totalità sociale capitalistica (ed a maggior ragione imperialistica) come ontologicamente conoscibile ed assiologicamente negativa. Per dire la stessa cosa in linguaggio più comprensibile, come scientificamente conoscibile e moralmente negativa. Ma già questa definizione non sarà accettata dai seguaci di almeno venti scuole marxiste (da quella dellavolpiana a quella althusseriana, eccetera), che pensano che il vero marxismo è rigorosamente scientifico, e non ha bisogno di presupposti morali di tipo “umanistico”. Cosa che io considero una vera e propria sciocchezza.

Poi ci sono ovviamente una serie di posizioni teoriche personali considerate “eretiche” dai marxisti tradizionali. Che la teoria dell’estinzione dello stato è una pura utopia, e che basta ed avanza una teoria della democratizzazione radicale dello stato politico. Che non esiste, e non può esistere, una teoria del crollo economico interno della produzione capitalistica. Che la questione nazionale, o nazionalitaria che dir si voglia, è fondamentale, è che solo uno sciocco può augurarsi un minestrone sociologico monoclassista universale. Che la classe operaia è una classe capace di lotta e di resistenza, ma non certo capace di egemonia rivoluzionaria intermodale, e che prima ci si libera da questo mito infondato e meglio è. Che oggi ci si trova in una sorta di capitalismo inedito, ad un tempo post-borghese e post-proletario. Eccetera, eccetera, eccetera. Tutto questo, e molto altro ancora, è considerato come un insieme di orrende bestemmie revisioniste da ciò che resta del marxismo “tradizionale”. In ogni caso, il problema non sta nella sorte personale di Preve. Il problema sta nel fatto che prima o poi una rivoluzione copernicana nel marxismo dovrà avvenire, e che i morti dovranno essere lasciati a seppellire i loro morti.

D:: E’ chiaro che questo è l’argomento che più ti appassiona e per il quale rivendichi una notevole competenza. Ma lo spazio è tiranno ed è necessario passare alla terza attribuzione che ti viene quasi sempre appiccicata, quella di teorico del superamento della dicotomia Destra/Sinistra. Ti riconosci in questa attribuzione, o hai qualche importante precisazione da fare?

R:: Ci vuole infatti una precisazione preliminare. La tesi del superamento storico della dicotomia politica Destra/Sinistra, infatti, non è mai il frutto di un astuto complotto ideologico delle classi dominanti o la pensata estemporanea di qualche filosofo marginale, ma è sempre il prodotto di una congiuntura storica specifica, o se vogliamo di una “finestra storica” che si apre lungo una parete prima senza finestre. E questo, si noti bene, sia che la tesi sia giusta sia che invece sia sbagliata. Ad esempio, se all’inizio degli anni ottanta del novecento si aprì la “scandalosa” discussione sul superamento della dicotomia fra il “destro” Marco Tarchi ed il “sinistro” Massimo Cacciari, ciò fu dovuto non tanto al protagonismo dei due studiosi (come ritenni erroneamente anch’io a quei tempi, fuorviato dall’appartenenza identitaria rituale di schieramento che non avevo ancora messo in discussione, anche se poi mi pregio di avere recuperato largamente), quanto ad un insieme di fatti storici oggettivi, la progressiva incorporazione corporativa sia del PCI che del MSI, il craxismo come riformismo capitalistico “modernizzatore”, l’esaurimento dello storicismo gramsciano fra gli intellettuali di area PCI, la moda filosofica del pensiero negativo Nietzsche-Heidegger, l’avvento del post-moderno, il successo pentitista dei cosiddetti “nuovi filosofi” parigini, eccetera. Del resto, il vero banditore del superamento della dicotomia non è certamente il modesto filosofo Preve, ma il mio ben più noto concittadino Gianni Agnelli, che sostenne con lapidaria concisione che in Italia “solo la sinistra può fare riforme di destra”. Ultimamente lo stesso Spaventa, economista di riferimento del partito metamorfico PCI-PDS-DS, ha incitato nel settembre 2004 il governo Berlusconi a fare finalmente “qualcosa di destra”, cioè riforme ultraliberiste. L’economista Mario Monti, un liberista totale, è da tempo il guru economico di riferimento della cupola ulivista, da Rutelli a D’Alema. Ed infine, chi ha fatto negli ultimi cinquanta anni una cosa tanto di “destra” come il cinico pulcino togliattiano D’Alema, idolo dei friggitori plebei delle feste di partito PCI-PDS-DS, che ha portato nel 1999 l’Italia in una guerra fatta sulla base di una menzogna (un genocidio ed una espulsione etnica inesistenti), fatta contro le Nazioni Unite (il cui consiglio di sicurezza non l’avrebbe mai consentita), fatta contro la Costituzione Italiana (che la escludeva espressamente), e fatta persino contro la carta costitutiva della NATO, puramente difensiva? Se dunque qualcuno vuole prendersela contro i critici della dicotomia Sinistra/Destra se la prenda con il cinico baffetto PCI-PDS-DS, e non con il filosofo pensionato Preve.

Detto questo, non voglio fare come gli ipocriti che lanciano il sasso e poi ritirano la mano. Se vivessi nel Venezuela di Chavez, mi dichiarerei certamente di sinistra (sinistra chavista, ovviamente). Se vivessi negli USA, dovrei adeguarmi al lessico locale, e mi definirei di “sinistra radicale”. E potrei fare molti altri esempi. Ma non vivo in uno scenario indeterminato, dove le idee platoniche immutabili di Destra e di Sinistra splendono in un luminoso iperuranio. Vivo in coordinate spazio-temporali molto precise, e cioè nell’Italia del 2004, dove il bipolarismo Ulivo-Polo è continuamente imposto come scenario mediatico sistemico, e dove la “sinistra” è un agglomerato salmodiante del tutto privo di coscienza anti-imperialista, che ha fatto di una sorta di antiberlusconismo estetico e snobistico il suo miserabile profilo identitario. In questo quadro spazio-temporale specifico, è chiaro che considero del tutto superata la dicotomia Sinistra/Destra.

 

D:: L’argomentazione ci è parsa sufficientemente chiara. Ma cosa rispondi a chi dice, come Norberto Bobbio, che esiste pur sempre una differenza fra Sinistra e Destra sul tema dell’eguaglianza, ed a chi dice, come molti tuoi compagni anti-imperialisti con cui collabori,  che da tempo D’Alema (ed anche Bertinotti) non sono più “veramente” di sinistra, e che il problema è di fare allora finalmente una “vera”, “autentica” sinistra?

R:: Avete fatto benissimo a pormi queste due domande, ed allora cercherò di rispondere prima alla prima, e poi alla seconda.

Per quanto concerne Norberto Bobbio, è noto che questo studioso ha scritto un libro sulla dicotomia Sinistra /Destra che ha avuto un successo internazionale e traduzioni in quasi tutte le lingue del mondo. Questo successo è dovuto non tanto alla forza di questo libro, quanto proprio alla sua debolezza, in quanto la sua impostazione ideal-tipica e formalistica, per cui la Sinistra sarebbe costituita trascendentalmente dall’ideal-tipo dell’Eguaglianza, consente di sorvolare sulla realtà politica ed economica di oggi. Esaminare questa realtà consentirebbe di constatare che oggi la cosiddetta “sinistra” ha integralmente spostato il “pensiero unico” del neoliberismo economico, delle privatizzazioni scatenate, dell’interventismo militare imperialistico mascherato da difesa ed esportazioni dei cosiddetti “diritti umani”, eccetera. In realtà, il discorso di Bobbio è parzialmente valido per il periodo 1815-1975, in cui effettivamente la “sinistra” fu caratterizzata prima dalla democrazia rivoluzionaria, poi dal socialismo, ed infine dal keynesismo sociale europeo (parlo del keynesismo sociale europeo, perché in USA non ci fu mai nemmeno l’ombra di keynesismo sociale, ma solo keynesismo militare imperialistico). Ma dopo il 1975 il discorso di Bobbio non “morde” più sulla realtà storica e politica, ed appunto per questo piace. Oggi la “sinistra” ha bisogno soltanto di un senso narcisistico di superiorità sui cafoni berlusconiani, i quali avranno magari i rubinetti d’oro nei cessi delle loro settecentoventi ville, ma non leggono Kundera e le opere della Snobbish Jet-Set Bookshop Foundation. Su questo rimando, sebbene largamente insufficiente, al film di Virzì Caterina va in città.

Per quanto concerne l’interminabile corsa verso la “vera sinistra” rimando non a Lenin, ma a quanto scrisse il poeta italiano Metastasio sull’araba fenice, e cioè: “Che ci sia/ciascun lo dice/ove sia/nessun lo sa”. Nella corsa arbitraria verso la “vera sinistra” tutti i gruppetti sgomitano insultandosi reciprocamente. Ma questo sgomitarsi è del tutto grottesco e insensato, perché sembra di capire che la “vera sinistra” sia quella “anticapitalistica”. Ma dal momento che su che cosa sia oggi il capitalismo, la sua natura sociale, la sua riproduzione economica, la sua legittimazione culturale, eccetera, non c’è il minimo accordo, siamo di fronte ad un teatro degli equivoci, perché ci si dichiara contro il capitalismo senza assolutamente sapere che cos’è e con che cosa si potrebbe sostituirlo. Conosco coglioni anticapitalistici che pensano che abolendo il latino, il greco, la scuola gentiliana, eccetera, si fanno passi avanti verso il socialismo, mentre chiunque non sia accecato dal fanatismo gruppettaro vede che oggi i capitalisti vogliono solo impresa, inglese e informatica. E potrei continuare a fare esilaranti esemplificazioni.

D:: Per stringere, tu pensi che oggi, nell’Italia del 2004-2005, siamo oltre la dicotomia Sinistra/Destra?

R:: Non voglio correre assolutamente il rischio di nascondermi dietro l’alibi ipocrita della “complessità” e smetto di traccheggiare. Ebbene si, credo che nell’Italia del 2004-2005 siamo ormai oltre questa dicotomia. Siamo però oltre solo “idealmente”, perché milioni di persone, in preda a forme di falsa coscienza socialmente organizzate, continuano a pensarsi in termini di schieramento di appartenenza identitaria dicotomica. Questo dà ad una vera e propria tragedia storica, già avvenuta spesso in passato. La tragedia storica sta in ciò che sarebbe oggettivamente necessario che grandi gruppi di persone acquisissero una nuova percezione intellettuale e morale che li mettesse in grado di comprendere le nuove contraddizioni storiche, laddove l’inerzia socialmente organizzata da sistemi intellettuali e mediatici di potere (o di falsa opposizione neocorporativa) li costringe a pensarsi all’interno di quadri concettuali e morali già integralmente trascorsi. Lo ripeto, questo nella storia è già avvenuto molto spesso. Si tratta di una sorta di Linea Maginot Culturale. Si deve fare la guerra del 1939, e si pensa di poterla fare con la mentalità del 1914. Il caso di De Gaulle è esemplare. Gli innovatori, anziché essere premiati, vengono puniti. Il marcio non sta nel nemico, ma nello Stato Maggiore.

D:: A questo punto, pensiamo di avere esaurito la prima parte dell’intervista, in cui hai potuto ampiamente chiarire gli equivoci ed i fraintendimenti cui è andata in contro la tua attività culturale e politica degli ultimi cinque anni, in cui hai deciso di “rompere” con quello che restava del politicamente corretto di “sinistra”, spazio nel quale ti eri formato ormai quasi quarant’anni fa, all’inizio degli anni sessanta del novecento. Passiamo ora alla seconda parte di questa intervista, in cui cominceremo a porti una domanda importante di orientamento storico, e cioè quali sono le caratteristiche del periodo storico in cui viviamo. Ci sembra infatti che senza questa diagnosi preliminare, sia del tutto velleitario ipotizzare una strategia storica ed una tattica politica.

R:: Il discorso sarebbe lungo. Ma per non perderci nei mille meandri dell’attualità, limitiamoci solo a tre ipotesi strategiche di fondo. Primo, siamo nell’epoca in cui l’Occidente è sotto il tiro del Terrorismo, ed del terrorismo islamico in particolare, nemico mortale della nostra civiltà razionalistica, laica, cristiana, liberale, democratica, eccetera. Secondo, siamo nell’epoca della spirale perversa fra Guerra e Terrorismo, in cui i due malvagi demoni complementari si nutrono reciprocamente, e cui è possibile oggi solo opporre la Non-Violenza del Movimento No Global. Terzo, infine, siamo nell’epoca in cui il tentativo di stabilizzare nel mondo un nuovo Impero Americano provoca varie forme di Resistenza, alcune pacifiche, altre armate, e tutte comunque da sostenere, con l’inevitabile diritto alla critica caso per caso che questo sostegno di massima comporta. Ovviamente, io sono per la terza variante. Ma se non analizziamo le caratteristiche delle prime due non possiamo neppure mettere a fuoco la terza.

D:: Cominciamo allora dalla prima. Alludi forse all’isterico invito alla crociata di Oriana Fallaci ed alla proclamazione della “guerra di civiltà” di Marcello Pera?

R:: Ovviamente si, ma metto in guardia dall’illusione che si tratta solo di alcune isolate voci fanatiche da considerare come un’aberrazione pittoresca della provincia italiana, da Libero di Feltri alla Padania di Borghezio. Chi sottovaluta in questo modo questa prima posizione non capisce che essa, sia pure in forma ovviamente più sfumata, sofisticata ed ingannatrice, rappresenta la linea culturale strategica principale delle oligarchie imperiali e dei loro servi intellettuali, universitari e mediatici. Altro che Feltri, Fallaci, Borghezio, Baget Bozzo ed altri pittoreschi personaggi da commedia dei burattini! Qui si ha a che fare con una visione del mondo forte, organica e coerente, che deve essere presa sul serio. Cerchiamo allora, sia pure brevemente, di costruirne un profilo sommario, ma comprensibile.

Per potersi costituire, un impero ha bisogno di alcuni elementi indispensabili: una forza militare soverchiante, un’ideologia identitaria almeno parzialmente credibile, ed infine dei nemici, che possono cambiare di volta in volta, ma che non possono mai sparire completamente, perché senza la forza centripeta della necessità di combatterli potrebbero svilupparsi forze centrifughe di dissolvimento. Questa è esattamente la situazione attuale. In una prima fase di costituzione (1945-1991) l’impero americano aveva assoluto bisogno del nemico comunista, ed una volta che quest’ultimo si è dissolto da solo, a causa della patetica incapacità egemonica della classe operaia organizzata, la classe sociale meno egemonica della storia dall’epoca degli imperi mesopotamici, ed a partire dal 1991, anno in cui Bush Senior proclamò l’avvento di un Nuovo Ordine, il nemico è diventato il terrorismo. E siccome alcuni terrorismi, come quello brigatista, tamil o hutu, eccetera, sono troppo piccoli per essere credibili, si è ripiegato su quello islamico, abbastanza forte, petrolifero, antipatico, maschilista, barbuto e velato, e pertanto ideale per una vera “guerra di civiltà”.

D:: Quando si parla di impero, è istintivo pensare all’impero romano. Credi che sia utile ricorrere a questa analogia, oppure non ne vale la pena?

R:: Ogni analogia è fuorviante, se viene impiegata a dosi eccessive. Le analogie sono come il vino in un banchetto. Ne bevi una bottiglia, e sei euforico e felice. Ne bevi tre bottiglie, e ti rotoli sotto il tavolo come un maiale vomitando tutto quello che hai mangiato. E questo vale anche per le analogie. D’altronde, questo era noto anche a grandi utilizzatori dell’analogia come Machiavelli, Gibbon e Montesquieu.

L’impero romano si impose sulla base di tecniche di guerra vincenti (allora l’uso delle legioni in battaglia, oggi il bombardamento strategico annientatore), della ideologia della pax romana (oggi della pace americana, i cui bombardieri strategici portano la scritta peace is our profession), ed infine dei barbari da annientare militarmente e poi da colonizzare. Anche in quel caso, però, vi era una differenza nelle tecniche di assoggettamento dei barbari, da un lato, e degli stati ellenisti dall’altro. Nei confronti delle tribù degli Illiri, dei Celti della Gallia, dei Celtiberi dell’Iberia e dei Britanni c’era il semplice sterminio ed il trionfo in cui i Milosevic ed i Saddam dell’epoca erano trascinati dietro il carro del vincitore. Nei confronti delle oligarchie ellenistiche di cultura greca c’era invece una proposta di sottomissione soft, che è quella che oggi gli USA fanno all’Europa ed al Giappone. Sia allora che oggi, in ogni caso, venivano stanziate le legioni romane o le basi americane.

D:: Lasciamo le considerazioni dotte. Vorremmo che ci risponda francamente: c’è qualcosa di vero nella tesi per cui oggi il terrorismo islamico, o se si vuole l’islam politico, ha attaccato l’Occidente (vedi Torri Gemelle e Pentagono dell’11 settembre 2001), e che perciò l’Occidente debba difendersi?

R:: Questa è una domanda storica e politica, e non filosofica, ed è allora possibile cercare di rispondere sulla base di fatti storici e politici concreti ed accertabili. Ebbene no. La tesi per cui l’Islam ha attaccato per primo, e l’Occidente deve difendersi, è semplicemente falsa e non corrisponde alla realtà dei fatti. Vediamo.

Facciamo l’ipotesi che esistano realtà unitarie chiamate da un lato Islam o Mondo Musulmano e dall’altro Occidente, non importa se laico o cristiano. Io non credo che esistano queste due realtà unitarie, conflittuali e polari, e la storia ci dice anzi che sono prevalsi momenti di dialogo e di integrazione reciproca sui momenti di scontro militare. Parlare solo di Lepanto, e non della Toledo dei traduttori cristiani, ebrei e musulmani è puro fanatismo unilaterale alla Fallaci. Ma facciamo pure l’ipotesi, anche se inesatta, del confronto fra Occidente e Islam. Vediamo allora, schematicamente, che ci sono stati quattro cicli storici diversi. In un primo ciclo (650 circa-1000 circa) l’Islam era all’attacco, ha avuto un’enorme espansione territoriale, e l’Occidente era sulla difensiva (ma non solo l’Occidente, anche la Persia, l’India, la Cina, eccetera). In un secondo momento (1000 circa-1300 circa) c’è stata una controffensiva occidentale, la cosiddetta epoca delle Crociate, senza dimenticare mai che la crociata fondamentale dei banditi assassini occidentali fu la presa di Costantinopoli del 1204 e la distruzione della potenza bizantina (e dunque cristiano-ortodossa) nel mediterraneo. In un terzo momento (1300-1800 circa), che corrisponde grosso modo alla fase espansiva dell’impero ottomano, che era dunque turco e non arabo-persiano, l’Islam riprende l’offensiva e giunge fino a Vienna. In un quarto momento, infine, che inizia verso il 1800 e che non è ancora finito oggi, è l’Occidente (o presunto tale) che attacca militarmente il mondo turco, arabo e persiano, e questo attacco dura ancora oggi fino all’occupazione dell’Iraq del 2003.

Di tutto questo ciclo di occupazioni non esiste nel lamentoso e salmodiante Occidente nessuna consapevolezza. La Francia si prese il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, il Libano e la Siria. L’Italia si prese la Libia. L’Inghilterra si prese la Palestina, che poi consegnò impacchettata ai sionisti, la Giordania e l’Iraq. Come si faccia allora a dire che sono gli arabiche attaccano l’Occidente, quando la storia dell’ultimo secolo dice l’esatto contrario, è cosa che solo una cultura corrotta, ipocrita ed ignorante può dire seriamente. Ci sono gli italiani a Nassirya, non gli iracheni a Bari.

Ma, si dirà, è stato Bin Laden ad attaccare per primo le Torri Gemelle, non il contrario. Anche su questo punto, però, una onesta riflessione storica non sarà di troppo.

 

D:: Dunque sei d’accordo che le azioni di Bin Laden, o di chi per lui, devono essere considerate “terrorismo”, e non “resistenza legittima”?

R:: Bisogna evitare in primo luogo il nominalismo. Da un punto di vista di diritto internazionale, Bin Laden ed il suo gruppo non sono soggetti di diritto internazionale, e quindi hanno violato un diritto interno, e non un diritto internazionale, di cui non sono soggetti legittimi. Nella finzione che Bin Laden fosse un soggetto di diritto internazionale, sarebbe colpevole di crimini di guerra, perché ha attaccato due obiettivi civili e non militari (le Torri Gemelle, appunto), uccidendo civili inermi. Se i crimini di guerra sono “terrorismo”, gli USA sono i più grandi terroristi del mondo. Essi hanno commesso crimini contro la pace, attaccando l’Iraq nel 2003, sulla base di menzogne palesi ed evidenti (armi di distruzione di massa inesistenti, eccetera), ed i loro bombardamenti strategici sono crimini di guerra quotidiani, insistiti e recidivi.

Come è noto, l’ONU non è ancora riuscito a concordare una definizione giuridica di “terrorismo”. E questo non è un caso, perché sarebbe impossibile definire “terrorismo” la lotta di resistenza alle espropriazioni di terre dei palestinesi e non definire “terrorismo” il continuo insediamento militare di colonie sioniste in Palestina. Ho detto “sioniste”, e non “ebraiche”, anche se si tratta di ebrei al 100%, perché la distinzione fra sionismo ed ebraismo resta il solo antidoto contro l’antisemitismo e contro le sguaiate e strumentali accuse di antisemitismo. Ripeterlo, ripeterlo, e non stancarsi di ripeterlo. Vi sono certo degli antisemiti che criticano strumentalmente il sionismo, ma chi critica il sionismo politico e territoriale sulla base di argomentazioni democratiche ed anti-colonialistiche non è antisemita.

I sostenitori di una interpretazione “complottistica” delle Torri Gemelle insistono sul fatto che Bin Laden è militarmente parlando una creazione degli USA nella loro lotta contro l’URSS in Afghanistan. Esatto, ma a mio avviso non decisivo per avallare interpretazioni “complottistiche”. Contro il morente comunismo storico novecentesco in dissoluzione irreversibile si muovevano forze diverse con strategie diverse, dall’imperialismo americano alle nazionalità secessioniste, dal nuovo ceto medio sovietico affamato di dollari ai gruppi integralisti islamici, eccetera. Anche Roosevelt e Stalin lottavano contro Hitler come loro comune nemico, ma lo facevano con strategie ben diverse.

Bin Laden è un integralista saudita, sunnita e wahabista, sostenitore del califfato islamico sopranazionale. Se gli USA aggredissero Cuba non gliene fregherebbe niente. Nulla gli è più estraneo dell’universalismo democratico. Il suo problema è che a partire dal 1991 gli USA hanno installato basi militari in Arabia Saudita, il che per un musulmano pio e praticante è come se i cosacchi di Stalin avessero messo una base militare in Vaticano. Lungi dall’essere espressione di un “attacco globale” dell’Islam contro l’Occidente, si tratta di una lotta interna all’Islam fra patrioti islamismi e fantocci collaborazionisti degli USA.

Da questa lotta, sia chiaro, bisogna tenersene fuori. Questa lotta non ci riguarda. E’ insensato “tifare” per l’uno o per l’altro. La Francia, Dio la benedica, lo ha capito perfettamente. La Germania e la Russia lo hanno purtroppo capito solo a metà. L’Italia, l’imperialismo straccione per antonomasia, non lo ha capito, perché la sua sorte è sempre quella di capire per ultima le cose elementari (ad esempio, che Hitler era più debole di Stalin, Churchill e Roosevelt messi insieme). Il fatto è che a pagare il conto sono sempre le casalinghe lettrici di fotoromanzi e gli uomini di mezza età il cui unico interesse ossessivo è il calcio parlato. E’ successo già nel 1940, e purtroppo può succedere ancora.

D:: Per riassumere su questo primo punto, ti senti di rifiutare totalmente la teoria dell’Occidente che si difende da un attacco del Terrorismo?

R:: Da tutto quanto ho finora detto è chiaro che rifiuto totalmente questa concezione. L’aspetto più pericoloso di questa concezione sta nel fatto che essa si presenta in due diverse dimensioni, la prima dura e hard, apertamente razzista, e la seconda flessibile e soft, che si rivolge ai cosiddetti “islamici moderati”, in cui viene implicitamente definito “moderatismo” l’accettazione dell’occupazione militare USA in Iraq e di quella sionista in Palestina. Ma persino il patriota più disposto ad accettare leggi di tipo “laico” (come quella della proibizione del velo islamico nelle scuole francesi, legge che comunque io trovo egualmente inopportuna), e a porsi apertamente sul piano della coesistenza amichevole e solidale con laici, cristiani, ebrei, eccetera, non può giungere a livelli di servilismo, umiliazione e collaborazionismo tali da fargli accettare ed approvare le guerre americane e sioniste in Medio Oriente.

D:: Passiamo ora alla seconda teoria, quella della spirale perversa Terrorismo-Guerra e Guerra- Terrorismo, da cui si può solo uscire con la cosiddetta Non–Violenza assunta a principio metafisico universale. Che cosa ne pensi?

R:: Se ci mettiamo nell’ottica minimalistica del “meno peggio”, è chiaro che questa concezione è migliore di quella razzistica e bellica precedente. Almeno qui non siamo nell’ottica della guerra di religione e dello scontro di civiltà. Meglio processioni salmodianti con candele buoniste veltroniane che rauchi incitamenti fallaciani e pannelliani alla guerra preventiva contro i dittatori.

Se invece ci mettiamo, come è necessario, in un’ottica culturale più vasta ed universalistica, allora le cose cambiano. Questa concezione della spirale è un alibi opportunistico (ed anche vile), che fotografa l’estremo grado di confusione e di degradazione morale della cosiddetta “sinistra istituzionale” italiana ed europea. Mi spiace di dover dare un giudizio tanto duro, ma purtroppo ci sono buone ragioni per essere così severi.

D:: Trattandosi di un punto molto delicato, perché non ci spieghi brevemente le ragioni di un giudizio tanto severo?

R:: Volentieri. La teoria della spirale è una tipica non-teoria, perché rifiuta a priori di esercitare il compito primario della ragione storica. Cioè la conoscenza dei fatti e la loro valutazione morale sulla base di una scala di responsabilità differenziata. Il serpente che si morde la coda è l’animale più ipocrita e confusionario del meraviglioso mondo della natura. I babilonesi che invadono la Giudea non provocano il terrorismo degli ebrei, ma la loro resistenza, che accidentalmente può comprendere anche atti di cosiddetto “terrorismo” contro civili, donne e bambini babilonesi inermi. I romani che invadono la Gallia non provocano il terrorismo dei galli, ma la loro resistenza, che accidentalmente può comprendere anche atti di cosiddetto “terrorismo” contro civili, donne e bambini romani inermi. Gli esempi storici potrebbero essere moltiplicati. Se i tedeschi durante la resistenza italiana fra il 1943 e il 1945 avessero avuto organizzazioni umanitarie tedesche non governative per aiutare i bambini bombardati di Padova e i vecchi senza medicine di Cremona, all’interno di un contesto in cui la “sicurezza” fosse delegata a reparti di SS armate, sono sicuro che queste organizzazioni umanitarie sarebbero state attaccate in modo assolutamente simile (ed a mio avviso ancora più bestiale) di quanto avviene oggi in Iraq. Come ha detto correttamente Tarek Ramadan, ed io sottoscrivo integralmente, “colpire civili innocenti in un contesto di resistenza legittima contro un’aggressione criminale è moralmente condannabile ma contestualmente comprensibile”, e questa pacata e sensata dichiarazione prende atto della inestirpabile tragicità delle azioni umane.

La teoria della spirale, oltre al suo principale “danno collaterale”, quello di impedire di distinguere fra Resistenza (legittima) e Terrorismo (deprecabile, sconsigliabile e condannabile), si basa sulla rimozione della tragicità della storia. Qui sta il vero punto “filosofico” da chiarire.

D:: E allora cerca di chiarirlo. La teoria della “spirale”, infatti, è talmente ipocrita, farisaica ed assurda che sembra necessario rintracciarne le ragioni storiche e filosofiche.

R:: E’ facile spiegare le teorie sensate ed intelligenti, ivi comprese le più reazionarie, come ad esempio la teoria del dominio occidentale sul mondo, mentre le teorie ipocrite e stupide sono le più difficili, perché qui ci si muove sul terreno del dilettantismo puro, che si incarna in Italia nella tragicomica figura di Fausto Bertinotti. Tuttavia ci proverò.

Non dimentichiamo che l’Italia è storicamente la terra dell’ipocrisia, dove ciò che seppe dire il socialismo nel 1915 fu: “Né aderire, né sabotare”. A suo tempo il grande filosofo Hegel chiarì che la parola d’ordine delle cosiddette “anime belle” è quella di “non sporcarsi le mani con i mali del mondo”. Ma quando i mali arrivano le anime belle improvvisamente si trasformano dialetticamente (ed esteticamente) nelle anime più brutte del mondo, perché non distinguono più fra le mani sporche dell’aggressore e le mani pulite dell’aggredito. Tutto il comunismo moderno (1917-1991), al di là del giudizio differenziato che ne possiamo dare, si basa sul principio inverso: “Non aderire, ed anzi sabotare attivamente ciò che si ritiene ingiusto e malvagio”. Mentre il primo principio non ha fatto la storia, il secondo invece l’ha fatta. Turati è sparito nella nebbia della storia minore, mentre di Lenin se ne parlerà ancora tra mille anni.

Ora, se teniamo ben presente questo fatto, vediamo che la teoria gesuitica della spirale trova il suo brodo di elaborazione nella dissoluzione della cultura di sinistra, che deve continuare a “prendere” le distanze dal comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991). Il solo modo di prenderne le distanze per essere accettati nel mondo del Politicamente Corretto Occidentale (mondo unico, anche se teatralmente diviso in una destra, un centro ed una sinistra che possano intrattenere piacevolmente la società mediatica dello spettacolo manipolato) è quello della Demonizzazione del Novecento, secolo folle della violenza e del totalitarismo. Dal momento che gli italiani sono sempre più feroci e buffoni, in Italia questa demonizzazione integrale del Novecento ha preso la forma epocale del Pentimento della banda anarcoide ed operista di Lotta Continua, un cui esponente (Marco Revelli, tanto per non far nomi) ha scritto un libro demenziale in cui afferma che il Novecento è stato il secolo maledetto del Fordismo, di cui il comunismo è stato solo l’applicazione politico-sociale. E’ evidente che la demonizzazione del novecento è solo l’involucro ideologico del passaggio di campo nel politicamente corretto imperialistico. E non è un caso che Fausto Bertinotti, personaggio esemplare del dilettantismo culturale della sinistra italiana, ci si sia buttato a pesce con l’ingenua golosità di un bambino davanti ad un vassoio di pasticcini o di un cane davanti ad una pozza di urina.

D:: Molto duro, ma anche molto chiaro. Passiamo allora alla terza posizione, quella che tu sostieni, per cui non è vero che c’è un Occidente aggredito dall’Islamismo, ed è ipocrita dire che c’è una spirale Guerra-Terrorismo, ma la caratteristica principale della situazione storica attuale è quella del progetto di costituzione di un Impero Mondiale, che fisiologicamente provoca varie forma di Resistenza.

R:: Se si rifiutano le teorie dell’aggressione e della spirale, come io faccio, è inevitabile che si sia gravitazionalmente attirati verso questo terzo modello. Ovviamente, esso non è perfetto, come mai nulla è perfetto in questo mondo, ma almeno ci dà un quadro della situazione attuale. Questo quadro è migliorabile e correggibile, ma è sul suo terreno che a mio avviso bisogna muoversi.

Da Tucidide in poi, il presupposto per una comprensione storica e razionale del mondo è la sua analisi in termini di forze storiche, politiche e geopolitiche. Da questo punto di vista, non esiste e non può esistere una differenza di principio fra Sparta ed Atene, la Germania e l’Inghilterra, l’USA e l’URSS, eccetera. L’unica novità dal tempo di Tucidide è stata a mio avviso portata da Marx, per cui alla conoscenza oggettiva dei fenomeni storici si aggiunge una proposta universalistica dell’emancipazione umana. La novità di Marx è però solo filosofica, perché dal punto di vista della scienza storica propriamente detta Tucidide è tuttora insuperato. Solo la regressione intellettuale e morale di tipo buonista-bambinista, oggi egemone in Italia, può pensare di sostituire a Tucidide immagini di bambini spaventati con gli occhioni sbarrati. In questo modo, fra parentesi, non si fa neppure l’interesse degli stessi bambini, perché ci si rifiuta di esaminare razionalmente la catena di cause storiche che ne provocano lo spavento. La sostituzione della coppia Veltroni-Bertinotti alla coppia Tucidide-Marx da un lato fa ridere, data la grottesca sproporzione intellettuale e morale, ma dall’altro fa spavento, perché ci consegna ad una delle regressioni intellettuali e morali più spaventose della storia italiana dai tempi di Dante ad oggi.

Dopo che il progetto di germanesimo razzista di Hitler fu sconfitto nel 1945, si aprì un periodo storico di mezzo secolo caratterizzato dalla contrapposizione globale fra USA ed URSS. Alla fine il principio della libertà senza eguaglianza sconfisse il principio dell’eguaglianza senza libertà. E questo non dovrebbe stupire un analista oggettivo dei fenomeni storici, e neppure un filosofo dialettico, che dovrebbe rifiutare sia il nesso libertà/arbitrio sia il nesso eguaglianza/risentimento, ma che nello stesso tempo sa che il primo è più forte del secondo. Comunque, rimandiamo ad altra sede l’analisi filosofica della questione. Da un punto di vista storico, si può consentire che Hobsbawm che il “secolo breve” finisce con la dissoluzione epocale del comunismo storico novecentesco, e con Fukuyama e Huntington che per avere una vera fine capitalistica ed occidentalistica della storia bisogna prima vincere il conflitto di civiltà con quelle culture che rifiutano di essere assimilate al modello anglosassone dell’individualismo possessivo.

Non è un caso che il 1989 abbia coinciso con il bicentenario della rivoluzione francese (1789) e con il centenario della fondazione dell’internazionale socialista (1889). Ideologicamente parlando, il 1989 è segnato dall’attacco simultaneo, ossessivo e totalitario al giacobinismo di Robespierre ed al comunismo di Lenin. Il 1991, anno a mio avviso ancora più significativo dell’eurocentrico 1989, vede simultaneamente la dissoluzione politico-militare dell’URSS (quella ideologica era già avvenuta da tempo, ed aveva coinciso dopo il 1956 con lo smantellamento del sistema staliniano), la guerra del Golfo del 1991 e l’aperta proclamazione da parte di Bush Senior di un Nuovo Ordine Mondiale. Per questa ragione il 1991 è l’anno della “estensione mondiale” del fenomeno che nel 1989 era ancora e solo del tutto “europeo” (crollo del muro di Berlino, eccetera).

Il 1991 non è certo l’anno di inizio dell’imperialismo americano, come del resto non lo è neppure il 1898, anno in cui gli USA rapinarono alla Spagna Cuba, Portorico e le Filippine. La “missione speciale”, protestantico-veterotestamentaria comincia molto prima, ed è iscritta nel DNA della pretesa di superiorità morale a fondamento biblico (e quindi non occidentale, come credono tutti i confusionari, ignari del fatto che l’Occidente, ammesso che esista, è la filosofia razionalistica greca, e non il patto esclusivo con il proprio Dio protettore di origine mesopotamica) che caratterizza gli Stati Uniti d’America.

Se il 1991 non è l’anno di inizio dell’imperialismo americano, è però l’anno di inizio della realizzabilità possibile di un impero americano mondiale. Certo, la Russia e la Cina non sono più “comuniste”, il comunismo propriamente detto resta un fenomeno marginale a Cuba ed in Corea del Nord, ma la Russia e la Cina continuano ad essere  potenze geopolitiche nucleari, e non basta certo minacciarle e tormentarle con la Cecenia (Russia) e con il Tibet (Cina). L’Europa è in potenza un concorrente economico temibile, ma è occupata da basi americane, e soprattutto è spiritualmente morta, perché è occupata da queste basi che ne eliminano la sovranità e sembra che non se ne accorga neppure e lo trovi normale (sessanta anni dopo la fine della seconda guerra mondiale – sembra incredibile solo a pensarlo!). L’Africa non è un dato geopolitico, ma solo assistenziale, e l’America Latina, anche se percorsa da pittoreschi barbuti armati di armi leggere, è per il momento ancora solo un “cortile di casa”.

Dal 1991 il progetto di costituzione di un impero mondiale americano non è solo una malvagia e fanatica fissazione del cosiddetto “anti-americanismo”, come cerca di far credere l’imbonimento mediatico da Sharon a Veltroni, cioè dal sionismo espansivo al buonismo bambinista regredito, ma è un dato di fatto che è ammesso apertamente dalla classe politica ed intellettuale degli USA, che vi hanno già dedicato centinaia di libri di sintesi e migliaia di articoli di analisi.

E’ allora curioso che, da un lato, si ammetta apertamente che questa costituzione di un impero mondiale americano è un fatto, e dall’altro si tenti di negare che di fronte a questo progetto è legittima una resistenza. Il vecchio giusnaturalismo europeo del seicento, concorde sul fatto intuitivo che la sola guerra “giusta” è la guerra di resistenza contro un’aggressione, non avrebbe avuto dubbi.

 

D:: Bene. Ora però ti poniamo la domanda da un milione di dollari. Ammesso (e concesso) che ci sia l’Impero, è possibile distinguere fra una resistenza giusta contro l’impero, chiamata convenzionalmente Resistenza, ed una resistenza ingiusta verso di esso, chiamata convenzionalmente Terrorismo? Detto in modo telegrafico, è possibile distinguere fra Resistenza e Terrorismo?

R:: E’ difficile rispondere gratis a domande da un milione di dollari, ma proverò egualmente a farlo. Non bisogna però lasciarsi paralizzare dalla dittatura mediatica del linguaggio politicamente corretto, che finge ipocritamente di non sapere che non esiste in diritto internazionale una definizione univoca e condivisa di “terrorismo”, e neppure lasciarsi sfibrare da interminabili casistiche avvocatesche. In questo modo, Spartaco sarebbe stato “resistente” quando uccideva i soldati di Crasso e di Pompeo, ed invece “terrorista” quando uccideva civili romani proprietari di schiavi e magari anche i loro schiavi fedeli. Su questa strada non si può arrivare da nessuna parte.

La via giusta, a mio avviso, è partire dai primi grandi sistemi etici dell’umanità oggettivati nelle grandi religioni, sia monoteistiche che panteistiche. E’ quasi generale la posizione per cui è consentito uccidere nemici armati in battaglia, mentre non è consentito uccidere gli inermi, e cioè bambini, donne, anziani e malati. In questa concezione c’è già la soluzione implicita per distinguere fra “resistenza” e “terrorismo”. Il fatto che essa fosse sistematicamente violata nella pratica, fino alla giustificazione di veri e propri genocidi (come gli Amaleciti nell’orribile Antico Testamento), non elimina il principio etico in sé. A mia conoscenza (e mi occupo di filosofia da quaranta anni) nessun sistema etico, religioso, naturalistico o laico, giustifica l’uccisione di inermi, ed in particolare di donne, anziani e soprattutto bambini, i riproduttori futuri della specie per eccellenza, e per di più simbolo di innocenza.

Tutto questo è compatibile con gli scontri armati a base di pietre, spade ed armi da fuoco individuali. Diventa già più difficile con le grandi artiglierie moderne, i bombardieri strategici e soprattutto le armi atomiche. In questo senso specifico, il primo fenomeno di “terrorismo” sono le armi moderne, unite ai sistemi ideologici di giustificazione per l’annientamento collettivo. Il novecento ha conosciuto due grandi modelli di “terrorismo”, il modello del terrorismo ideologico (Auschwitz), ed il modello del terrorismo tecnologico (Hiroshima). E’ tipico degli imbecilli condannare il primo e giustificare il secondo, ed in questo si è distinto ovviamente il principe degli imbecilli italiani, il politico narcisista Fausto Bertinotti.

Una volta diradata la cortina fumogena artificialmente sollevata dal circo mediatico e dalle truppe universitarie di rinforzo, il senso comune educato è in grado abbastanza facilmente di orientarsi con chiarezza. La resistenza del popolo iracheno nel suo complesso (non scendo qui nei particolari delle differenze fra sanniti, sciiti, laici, baathisti, eccetera, perché non sono iracheno e non è mio compiti dare i voti di condotta) è Resistenza, mentre i massacri di Atocha a Madrid e di Beslan in Ossezia sono Terrorismo. E’ allora chiaro, in via di principio, che il primo fenomeno è buono, ed i secondi sono cattivi ed inaccettabili. Su questo possono concordare i monoteismi cristiano, musulmano ed ebraico, il panteismo buddista, il politeismo induista, il naturalismo confuciano, il giusnaturalismo europeo, il laicismo illuministico, l’umanesimo marxista, eccetera.

D:: Ci sembra molto chiaro. Purtroppo quanto dici è valido solo in un paradiso ideale di filosofi razionalisti, mentre in pratica la gente è politicamente schierata, e chiama “resistenti” i nostri e “terroristi” i loro. Come si può uscire da questo vicolo cieco?

R:: Per ora, ovviamente, non se ne può uscire. Se uno infatti si muove sulla base del principio aprioristico di appartenenza identitaria presupposta, in cui Noi siamo i Buoni e Loro i Cattivi, è chiaro che non se ne esce, e infatti per la banda radicale filo-americana ed ultrasionista di Sofri, Deaglio, Pannella e la Bonino i ceceni sono resistenti ed i palestinesi sono terroristi, i tibetani che vogliono l’indipendenza sono resistenti ed invece i baschi che la vogliono sono terroristi, eccetera. Ma noi non dobbiamo metterci sullo stesso piano di questa gentaglia. Noi dobbiamo sempre ragionare non di “rimessa”, ma ragionare con la mentalità di chi ha la prima mossa agli scacchi.

Farò un semplice esempio, la Russia e la Cecenia. Io sono del tutto avverso all’indipendentismo ceceno, e dunque sono con Putin contro gli indipendentisti ceceni, e questo per molte ragioni, che qui compendierò brevemente in tre, di cui la terza è la più importante. Primo, i russi non perseguono assolutamente il genocidio della nazione cecena, e neppure l’espropriazione delle sue terre, come ad esempio fanno i sionisti in Palestina, ma lottano solo contro un progetto indipendentista (probabilmente condiviso da gran parte della popolazione cecena). Secondo, non vedo perché i ceceni non possano comportarsi esattamente come gli osseti, gli inguscezi, i daghestani, i tartari del Volga, i calmucchi, i baschiri, i ciuvasci, i mongoli buriati, ed altre decine di etnie non russe, nessuna delle quali è a rischio di estinzione, genocidio, eccetera. Terzo, solo un amico dell’impero americano può veramente auspicare che la Russia, non più comunista ma pur sempre (grazie a Dio!) grande potenza geopolitica e militare, possa disintegrarsi in cento staterelli combattenti. Anzi, così com’è è fin troppo piccola. Chi scrive, in compagnia di Solzenitsin, auspicherebbe una riunificazione almeno fra Russia, Ucraina e Bielorussia e la parte russa del Kazakistan, ed anche un impedimento a mettere basi americane nei paesi baltici, caucasici e centro-asiatici. In proposito, ritengo che Putin non pecchi di militarismo eccessivo, ma purtroppo di eccessiva debolezza.

Detto questo, e messe così le carte in tavola, il fatto che io non sia d’accordo con Mashkadov e gli indipendentisti ceceni non significa che non sia in grado di distinguere. I partigiani indipendentisti ceceni che si battono sulle montagne della cecenia, pur essendomi politicamente sgradevoli, sono indubbiamente combattenti, partigiani e “resistenti”. Ma coloro che hanno assalito il teatro Dubrovka di Mosca, fatto saltare aerei di linea con innocenti passeggeri e massacrato i bambini di Beslan in Ossezia sono invece terroristi criminali. Torniamo dunque a dove eravamo partiti, e cioè che è sempre possibile fare una distinzione Combattenti/Inermi che c’è in tutti i sistemi filosofici e religiosi.

D:: Ci sembra che la tua posizione sulla Cecenia si ispiri ad esigenze geopolitiche, ad una sorta di ragion di Stato mondiale in opposizione all’impero americano. Comunque, alla luce della distinzione esplicitata alla fine della tua ultima risposta, ritieni che in Iraq, a partire dal 2003, ci sia Resistenza o Terrorismo? Forse si tratta di una domanda retorica, ma riteniamo che, data l’importanza del tema, un chiarimento ulteriore sia sempre utile.

R:: E’ ovvio che c’è Resistenza e non Terrorismo. E non voglio farmi invischiare nella casistica sulla differenza fra colpi di mortaio ed autobombe, sabotaggio di oleodotti e sequestro di camionisti, eccetera. Alcune forme di lotte mi piacciono, altre non mi piacciono. Ma il popolo iracheno non ha l’obbligo di prendere in considerazione le preferenze personali del signor Costanzo Preve, quanto di praticare le forme di lotta più efficaci per fare il vuoto intorno alle truppe di occupazione ed ai loro collaborazionisti. L’Iraq non è un insensato “minestrone cosmico”, in cui si contrappongono frontalmente il mondo della violenza insensata ed il mondo degli innocenti occhioni dei bambini. L’Iraq è una nazione aggredita da un imperatore criminale ed alcolizzato che ha fatto strame del diritto internazionale moderno. Non c’erano armi di distruzione di massa, e non c’erano ovviamente prove di coinvolgimento diretto o indiretto con l’11 settembre 2001. Ci mancherebbe ancora che il cosiddetto “abbattimento di un dittatore” fosse una fattispecie legittima per una aggressione militare! A questo punto, chiunque potrebbe definire “dittatore” il suo nemico per impadronirsi del suo petrolio e delle sue ricchezze naturali. Il piano di “privatizzazione economica integrale” dell’Iraq è ovviamente il peggior crimine storico di questo inizio secolo. Pensare che una resistenza contro questo progetto, e cioè aggressione criminale + privatizzazione economica, sia ingiustificata, significa cadere in una crisi morale senza fondo.

Citiamo allora il nostro cretino per antonomasia, Fausto Bertinotti (cfr. “Repubblica”, 9-9-04). Dice il cretino: “Non ho mai usato il termine di resistenza irachena. C’è una resistenza con la R maiuscola come quella italiana del 1943-45. E ci sono le resistenze con la r minuscola. La prima ha sconfitto il fascismo e dato una costituzione all’Italia. Quella irachena, e mi riferisco a chi è fuori dal terrorismo, può essere legittima perché lì si vive una occupazione, ma non contiene in sé la soluzione del problema”.

Questa affermazione è più idiota che infame, anche se viene fatta in giorni in cui in Iraq si hanno battaglie campali fra partigiani e forze di occupazione con decine di morti al giorno. In realtà, tutte le resistenze hanno la R maiuscola, come nella lingua tedesca, in cui si scrivono in maiuscolo tutti i sostantivi. E’ superfluo dire che la “soluzione del problema” c’è, e consiste nell’integrale cacciata degli invasori, in quanto toccherà al popolo iracheno, e non al fatuo sindacalista star dei salotti romani radical-chic, decidere autonomamente se vuole i baffuti baathisti o i barbuti islamici, o probabilmente un equo compromesso fra i due.

Se tutte le resistenze sono maiuscole dal punto di vista del coraggio morale dei loro combattenti, è indubbio che da un punto di vista storico universale quella irachena iniziata nel 2003 è mille volte più importante di quella italiana del 1943-45. Anche se questo può sembrare blasfemo nel nostro ambiente provinciale, ombelicale ed autoreferenziale, è chiaro che gli americani sarebbero arrivati a Milano il 25 aprile 1945 anche se per ipotesi i partigiani non fossero mai esistiti, e l’Italia non sarebbe neanche stata punita maggiormente nei trattati di pace, perché ciò che diplomaticamente contava era soltanto al 100% il regno del Sud. Con questo non contesto la grandezza politica del movimento partigiano all’interno della guerra civile fra italiani dell’epoca, ma faccio solo rilevare che esso è stato solo un momento interno alla nostra storia nazionale, senza nessun significato geopolitico universale. In Iraq a partire dal 2003 non si gioca solo una questione di onore per il popolo iracheno, ma una cruciale questione geopolitica universale. Se infatti l’impero assassino non viene sconfitto nell’antica Mesopotamia, può riprovarci in Siria, Iran, Cuba, eccetera, ed in un secondo momento fra qualche decennio può riprovarci in Russia ed in Cina, non più per ragioni ideologiche di “lotta al comunismo” ormai defunto, ma per ragioni di competizione economica e geopolitica di tipo imperialistico. Qualunque osservatore onesto dotato di coscienza storica ne trae la conclusione che le resistenze italiana 1943 ed irachena 2003, eguali sul piano soggettivo e morale, sono diseguali sul piano geopolitico mondiale, e quella irachena vale mille volte di più. Le cose, dunque, stanno esattamente al contrario di come sostiene lo stonato concerto dei Barenghi, Ingrao, Bertinotti e compagnia cantante, prodotto dalla dissoluzione conoscitiva e morale della “sinistra italiana”.

D:: Queste tue affermazioni, del resto assai coraggiose, possono sembrare “anti-americane”. Ti riconosci nell’accusa di “anti-americanismo” o la respingi?

R:: E’ un punto delicato, che certo richiede un chiarimento. Personalmente, essendo giunto faticosamente all’idea della positività delle differenze fra culture, lingue e stili di vita, ed avendo abbandonato l’idea veterocomunista della positività di un monoclassismo proletario universale da imporre al mondo intero sotto forma di ateismo di stato, partito unico, filosofia unica ed arte unica, eccetera, non ho difficoltà ad accettare che il popolo americano (nel senso di statunitense) scelga la forma di vita che vuole all’interno dei suoi confini nazionali internazionalmente garantiti. Se poi questa forma di vita implica una cultura di massa degradata e disinformata, miriadi di senza casa nelle strade e mancanza di un servizio sanitario nazionale, eccetera, ebbene è affare sovrano del popolo americano, ed io non ho nessun diritto di metterci il becco e di minacciare di bombardarlo perché non mi piace. Tutti i popoli e tutte le nazioni del mondo hanno diritto di vivere come vogliono all’interno dei loro confini, purché rispettino il diritto internazionale esterno. Questo non significa, sia ben chiaro, sostenere il relativismo filosofico a base nichilistica come la filosofia migliore, perché nessuno può togliere a nessun individuo pensante il diritto universalistico di giudicare positive o negative tutte le forme di vita. Ma altro è il diritto universalistico di giudizio etico ed altro è il diritto internazionale e la sua violazione. I “diritti umani” a mio avviso esistono, ed io infatti sono filosoficamente un universalista e non un relativista, ma non possono diventare uno strumento ideologico per la legittimazione dell’aggressione unilaterale. In questo senso, come potrebbe essere definito “anti-americano” un signore come il sottoscritto, che consente al fatto che ogni popolo ha il diritto di praticare la forma di vita che vuole all’interno dei suoi confini? Con quale diritto invado uno stato per liberare le sue cittadine dal velo, e non invado gli USA per liberare i suoi cittadini dall’assenza di assistenza medica generalizzata? Perché il primo è un “diritto umano” ed il secondo non lo è? La risposta è semplice: è solo il diritto del più forte a stabilire che cosa sia un diritto umano e che cosa non lo sia.

Io accetto dunque la connotazione di “anti-americanismo” solo come negazione del diritto degli USA di esportare militarmente nel mondo intero la loro forma di vita che all’interno dei loro confini nazionali hanno tutto il diritto di scegliere. Ma allora l’accusa di anti-americanismo diventa un sofisma ideologico funzionale ad una demonizzazione preventiva dell’interlocutore. Io non mi sogno affatto di essere anti-finlandese, ma se i finlandesi riempissero il mondo di basi militari e bombardassero il mondo intero per imporre a tutti di fare la sauna, amare le renne e parlare la loro terribile lingua ugro-finnica con sedici declinazioni diventerei certamente un anti-finlandese di ferro.

Conclusione: non mi considero un “anti-americano”, ma solo un nemico cosciente dell’esportazione armata dell’impero americano nel mondo, in specie oggi in cui non c’è neppure la scusa della difesa della libertà contro l’impero sovietico del male. E con questo fine della questione.

D:: Anche sulla questione dell’anti-americanismo ci sarebbe ancora molto da dire. Ma è ora di passare alla terza ed ultima parte di questa intervista. Non possiamo nasconderti che per noi, che siamo animali politici da molto tempo, questa terza ed ultima parte è la più importante, ed anche quella che ci preme di più. In breve, alla luce della tua definizione della situazione storica attuale, caratterizzata dal binomio Impero/Resistenza, c’è lo spazio, o almeno la prospettiva, per fondare una nuova forza politica che sia all’altezza dello scenario nuovo ed inedito da te descritto?

R:: Se prima mi avete fatto delle domande culturali da un milione di dollari, questa è per definizione la domanda da un miliardo di dollari. E’ allora necessario pensarci sopra molto bene, perché la politica è un campo minato, e non basta avere astrattamente ragione per avere successo. Dire infatti la cosa giusta venti anni prima che sia storicamente matura significa in filosofia essere ignorato, ma in politica significa essere distrutto. Per fare filosofia basta ed avanza essere un piccolo gruppo di persone, per fare politica è invece necessario interpretare e rappresentare interessi sociali di milioni di persone. In politica non basta “testimoniare”. In politica si deve interpretare, organizzare e rappresentare. Il minoritarismo politico implica una mentalità di testimonianza. Io non la disprezzo affatto, ed infatti vivo questa ultima parte della mia vita sostanzialmente “testimoniando”. Ma sono però anche consapevole del fatto che questa non solo non è “grande politica”, ma al limite non è neppure “politica” per niente.

D:: Quanto dici è chiaro a tutti, in particolare a coloro che hanno vissuto decenni di “militanza”, e vivono oggi la crisi generalizzata della militanza stessa. Crisi della militanza, sia ben chiaro, comune a tutte le militanze, di destra come di sinistra. I partiti diventano sempre più luoghi di selezione di personale politico specializzato tendenzialmente bipartisan, come dice il presidente Ciampi, ormai onnipresente come il prezzemolo. La militanza è in crisi, naturalmente, perché essa si nutre di prospettiva, e senza prospettiva storica non c’è neppure militanza politica. Da dove ci proponi di cominciare la discussione?

R:: In momenti di passaggio epocale come questo credo sia sempre utile lasciar perdere la compulsione attualizzante provocata dalla overdose di droga mediatica per tornare alle origini. Abbiamo già visto che il solo modo di discutere seriamente di guerra, resistenza e terrorismo sta nel tornare alle analisi storiche di Tucidide, alla teoria giusnaturalistica di Grozio sul diritto di resistenza di un popolo aggredito ed infine agli elementi comuni presenti in tutte le teorie etiche, sia religiose che naturalistiche, sulla assoluta illiceità di colpire inermi. Bisogna fare lo stesso con la politica.

Lasciando perdere primitivi ed antichi egizi, conviene iniziare dalla polis greca di Atene, quella in cui possiamo dire secondo la tradizione che è nata la “politica” propriamente detta. Ebbene, la politica nasce non come promessa messianica o come testimonianza ideologica minoritaria, ma come negoziazione consensuale dei conflitti. Nella riforma di Solone viene mediato il conflitto fra creditori e debitori. Nella riforma di Clistene al posto delle tribù si creano circoscrizioni territoriali artificiali in cui si mettono insieme cittadini della costa, della pianura e della montagna dell’Attica, e questa compartimentazione elettorale è funzionale alla negoziazione dei conflitti fra gruppi di cittadini. La democrazia, infatti, non è tanto il potere del popolo (che si dice in greco laokratia), quanto il potere del popolo politicamente organizzato in circoscrizioni interclassiste chiamate demi. Insomma, per farla breve, la politica nasce come rappresentanza di interessi, cui poi si aggiunge in un secondo tempo l’ideologia democratica (epitaffio di Pericle, eccetera).

Naturalmente, sono partito da lontano per arrivare all’oggi. Chi oggi pensa di fondare una nuova forza politica, magari un movimento popolare di liberazione, senza porsi il problema cruciale della rappresentanza di interessi individuali e collettivi, è destinato a rimanere per decenni un gruppo testimoniale basato su una ristrettissima militanza volontaristica destinata per sua natura ad una progressiva dissoluzione.

D:: Dal momento che siamo portati a far politica, e non possiamo accontentarci di questa tua disincantata osservazione di studioso, ti proponiamo una breve riflessione sul quadro politico italiano dell’ultimo mezzo secolo. E’ possibile imparare qualcosa da questo bilancio? Cosa ne pensi? Vuoi dirci qualcosa?

R:: D’accordo. La cosiddetta Prima Repubblica italiana nasce idealmente il 25 aprile 1945, formalmente il 2 giugno 1946 (vittoria della repubblica sulla monarchia nel referendum), ma la sua nascita reale, sostanziale ed effettiva è solo la vittoria elettorale democristiana del 18 aprile 1948. E’ necessario insistere sul fatto che la “costituzione materiale” della prima repubblica è il 18 aprile 1948. Nel mondo delle chiacchiere e del cosiddetto “arco costituzionale” il PCI è dentro e l’MSI è fuori, mentre nel mondo della “forza” (esercito, polizia, servizi segreti) il PCI è fuori, ed invece l’MSI è dentro. La prima repubblica nasce dunque schizofrenica.

E’ necessaria un’esatta comprensione del ruolo della DC nella prima repubblica (1948-1992). Sul piano storico, il ruolo della DC può essere definito a tre diversi livelli, breve, medio e lungo. A livello breve la DC costituisce il blocco anti-comunista, americano e filo-NATO, sulla base di una sapiente alleanza fra ceti medi e mondo contadino organizzato e soprattutto assistito. I cosiddetti “padroni del vapore” non la amano, ma devono sorbirsela in ragione della bassissima base elettorale dei partiti a loro veramente organici (PLI e PRI soprattutto), e questa riluttante alleanza è ben connotata da Indro Montanelli (forse l’intellettuale più “organico” alla borghesia capitalistica mai esistito, prima fascista, poi di centro-destra ed infine di centro-sinistra) con l’espressione “votare DC turandosi il naso”. A livello medio la DC è la forza che gestisce il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale-agricolo, e lo fa sostanzialmente molto bene, istituendo uno stato-assistenziale estremamente corrotto ma anche soddisfacente, mantenendo una forte industria di stato ereditata dal fascismo (Prodi non esisterebbe senza l’IRI fatta da Mussolini, anche se non gli è riconoscente), sovvenzionando a lungo un’agricoltura inefficiente e mantenendo nell’essenziale la legalità democratica.

A livello lungo la DC gestisce  politicamente e culturalmente per un cinquantennio la scristianizzazione  dell’Italia. Questa affermazione può sembrare paradossale, mentre è soltanto dialettica, storica e razionale. La cristianizzazione controriformistica dell’Italia si fonda su di un mondo contadino, patriarcale, subalterno ma anche sostanzialmente comunitario, e questa cristianizzazione sociale profonda, lasciata quasi intatta dal laicismo risorgimentale, crispino, giolittiano e poi mussoliniano, si dissolve progressivamente fra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni ottanta con l’avvento della società capitalistica, post-borghese e post-proletaria dei consumi e soprattutto dei consumi culturali. Il fatto che l’abbigliamento femminile mostri o nasconda l’ombelico (al di là della positività o negatività etica ed estetica di questo fatto, che ovviamente qui non è in discussione) è infinitamente più importante delle tecniche di estrazione del plusvalore relativo alla catena di montaggio, e solo il moralismo complementare dei preti e dei marxisti operaisti può non capirlo. Il solo intellettuale italiano che lo capisce vagamente è Augusto del Noce, laddove la corporazione degli intellettuali non lo capisce, incantata dall’irrilevante spettacolo televisivo di Fanfani e Moro che litigano con Craxi o con Berlinguer. Nella scristianizzazione della società italiana l’Inno a Satana di Giosuè Carducci conta mille volte di meno di Lascia o Raddoppia? di Mike Bongiorno.

Nel passaggio d’epoca 1989-1992 la DC ha esaurito il suo compito. Dal momento che Gengis Khan e Tamerlano si sono suicidati gettandosi da soli nel mar Caspio è assolutamente inutile tenere ancora in piedi un costosissimo baraccone pubblico, mafioso e clientelare.

D:: Questo riguarda la DC. Ma tu non sei mai stato democristiano, almeno a nostra conoscenza, mentre affermi di essere diventato “marxista” intorno ai venti anni, e cioè intorno al 1963, visto che sei nato nel 1943. Non puoi dunque evitare di dirci che cosa ne pensi del ruolo e della funzione del PCI nella società italiana.

R:: Lo farò, sia pure in modo telegrafico e necessariamente allusivo. Come per la DC, anche per il PCI è possibile proporre un approccio storico a tre livelli, breve, medio e lungo. A livello breve dal 1948 al 1989 il PCI è stato la variante italiana del fenomeno del campo comunista internazionale. In una parola, il partito meno filo-sovietico (ideologicamente) e più simil-sovietico (strutturalmente e organizzativamente) del movimento comunista internazionale, prova ne sia che si è “sciolto in tempo reale” con il dissolvimento del baraccone campista di riferimento, laddove partiti comunisti di tipo classista-operaista sono rimasti in vita più a lungo (parlo dei partiti comunisti francese, greco, portoghese, eccetera). Insisto molto sul suo essere stato una variante “italiana”, perché dalla lunga durata controriformistica e gesuitica della storia italiana il PCI ha tratto il suo carattere ibrido da “giraffa” (espressione usata da Togliatti), in cui ad una funzione sociale e politica socialdemocratica classica (di tipo kautskiano), si univa una struttura organizzativa ed una paranoia ideologica di partito di tipo staliniano. Questo ibrido staliniano-socialdemocratico è stato il contributo italiano alla storia del comunismo internazionale, ed esso non avrebbe potuto esistere senza la lunga durata gesuitica e controriformistica. Il PCI è stato italiano come il fascismo mussoliniano, il culto di Padre Pio e del sangue di San Gennaro, l’alta moda per riccastri debosciati e soprattutto l’intollerabile maleducazione dei nostri bambini che tutto il mondo conosce e ci invidia.

A livello medio il PCI è stato il principale vettore politico della progressiva integrazione di grandi masse di origine artigiana, contadina e operaia nella società capitalistica. Senza la sua preziosa funzione, ideologicamente mascherata dalla menzogna della “integrazione democratica nelle istituzioni repubblicane”, una simile integrazione sociale non avrebbe potuto avvenire tanto bene. Se mi chiedessero chi ha fatto di più per il capitalismo italiano, se Giovanni Agnelli o Enrico Berlinguer, non avrei affatto dubbi nel dire Enrico Berlinguer. Questo può sembrare paradossale, ma lo è solo per chi ignora il concetto di Vico di eterogenesi dei fini ed il concetto di Marx di falsa coscienza socialmente organizzata. Non si tratta di riconoscere kantianamente la “pura intenzione” dei soggetti storici “in buona fede”. Si tratta di disgelare marxianamente gli effetti oggettivi di un insieme di azioni storiche.

A livello lungo, così come la DC è stato il principale fattore politico della scristianizzazione del popolo italiano, nello stesso modo il PCI è stato il principale fattore politico della sua decomunistizzazione. Cerco di spiegarmi meglio. Gli elementi comunitari precapitalistici, che già Marx nella sua lettera a Vera Zasulic aveva individuato come elementi potenzialmente anticapitalistici da non trascurare, non potevano essere dissolti né dalla pretoneria cattolica clericale né dalla cultura laica liberale. Ci voleva il PCI per metabolizzarli nella cultura identitaria di appartenenza di partito, nella paranoia autoritaria contro i dissenzienti “pagati dai padroni”, nello zoo-parco recintato per intellettuali teologi, ed infine nel demenziale patriottismo sportivo elettorale tendente al “sorpasso” della DC. L’espressione PCI-PDS-DS non è affatto solo una maligna invenzione del Berlusca pelato con la sua bandana da miliardario di cattivo gusto da “isola dei famosi”. Il PCI storicamente ha consumato in mezzo secolo quanto restava della cultura comunitaria di estraneità alla società capitalistica ed ai suoi valori, ed una volta realizzata questa consumazione si è trasformato in DS dopo il breve periodo della camera iperbarica PDS.

D:: Siamo trasecolati da questa spregiudicatezza storiografica.. A questo punto però siamo anche un po’ curiosi. Hai qualche opinione sulla deriva politica della destra italiana dell’ultimo mezzo secolo?

R:: Non sono un “destrologo” come Marco Tarchi, e non sono neppure un “pentito” della destra. Essendo diventato di “sinistra” a diciotto anni, sono stato biograficamente del tutto estraneo ai terremoti ed alle riconversioni del mondo della destra. Mentre ho frequentato per decenni tipi alla D’Alema ed alla Bertinotti, non ho mai frequentato tipi alla Alemanno o alla Storace. Mi ritengo quindi uno “specialista” della cultura di sinistra, e solo un “dilettante” della cultura di destra. Tuttavia, come scrivono i verbali dei carabinieri, a D: rispondo.

Quando parliamo di destra, bisogna ovviamente distinguere la destra istituzionale e la destra testimonial-culturale. Almirante è l’equivalente di destra di Berlinguer, come Fini è l’equivalente di destra di D’Alema. Per chi, come me, ha un approccio metapolitico alla politica, si tratta di personaggi poco interessanti, poco più di “fantocci sistemici”, che razionalizzano ideologicamente e galvanizzano i militanti creduloni in vista di imperativi di adattamento istituzionale che non hanno nulla a che fare con la politica, ma solo con la sociologia delle grandi organizzazioni gerarchicamente strutturate. Più interessanti sono figure come quelle di Julius Evola, che considero l’equivalente di Amadeo Bordiga nel campo della destra. Evola e Bordiga non fanno politica, nel senso di rappresentanza organizzata di interessi economici e sociali, ma semplicemente “testimoniano l’intransigenza”. La testimonianza dell’intransigenza è un fenomeno culturale di grande importanza, e lo è quanto è più lontano dai circuiti manipolati e normalizzati della cultura istituzionale di tipo mediatico ed universitario.

Mentre il comunismo si dissolve in Italia negli anni ottanta, a mio avviso la destra (ed intendo la destra mussoliniana, non quella liberale ed atlantica, che è ovviamente l’unica e vera destra) si dissolve già a metà degli anni cinquanta, e dunque molto prima. Il parametro è ovviamente l’accettazione della NATO, cioè della legittimità storica e politica delle basi militari americane in Italia. Il PCI compie questo giuramento di fedeltà atlantica alla fine degli anni settanta, e lo perfeziona durante gli anni ottanta. Invece l’MSI lo fa già a metà degli anni cinquanta, mettendo a disposizione il proprio bacino di militanza per gli apparati militari, polizieschi e dei servizi segreti. La storia della cosiddetta “strategia della tensione” è in proposito molto significativa. Il libro che spiega meglio questo fenomeno è quello del neofascista condannato all’ergastolo Camerati Addio di Vincenzo Vinciguerra, ma ce ne sono probabilmente molti altri che non conosco, appunto perché non sono un “destrologo”.

D:: Sempre a proposito di quanto stai dicendo, chi sono i veri “responsabili morali” del terrorismo armato italiano, rosso o nero che sia stato?

R:: Non sono né un giurista né uno storico, e pertanto non sono un esperto né di responsabilità giuridica né di responsabilità storica. Da filosofo credo però alla responsabilità personale, e respingo come barbarico ogni principio di cosiddetta “responsabilità collettiva”. Se ci mettiamo sul piano barbarico della cosiddetta responsabilità collettiva, cominceremo a colpire gli ebrei perché hanno condannato a morte Gesù di Nazareth oppure i tedeschi perché non hanno saputo impedire la vittoria di Hitler, eccetera. Respingo come fango e merda ogni teoria della responsabilità collettiva ed ogni teoria dei diabolici maestri ispiratori occulti. Disprezzo Pannella ed il suo appoggio agli assassini ceceni, ma se qualche maiale ammazza bambini russi ed osseti innocenti non dirò mai che la colpa è di Pannella, Sofri o Glucksmann.

Teniamo dunque fermo il principio della responsabilità individuale. Ad uccidere D’Antona e Biagi sono stati due signori che rispondono all’anagrafe con i nomi di Galesi e di Lioce, non certo i teorici operaisti, per cui gli esperti giuslavoristi del mercato del lavoro flessibile e precario stanno alla base del male. I mandanti dell’uccisione di Calabresi (secondo la testimonianza di Marino, che considero credibile) sono stati due signori che rispondono all’anagrafe con i nomi di Sofri e Pietrostefani, e non certo un fantomatico e magmatico “movimento”.

Fatta questa premessa, per cui l’imputazione del crimine va a chi lo commette e non certo a chi lo “ispira”, si può però dire che la galvanizzazione ideologica di tipo paranoico prodotta nel loro gioco istituzionale delle parti dal PCI (vogliamo il comunismo, abbasso il regime democristiano) e dal MSI (vogliamo il fascismo, abbasso il regime democristiano), ha lasciato indifferenti il 98% dei militanti identitari, ma ha ipnotizzato il 2% statistico di fanatici entusiasti, dal “comunista” Curcio al “fascista” Vinciguerra.

Non voglio fare pelose considerazioni “morali” sulla lotta armata in Italia, ma voglio però non lasciare alcun dubbio sul mio giudizio storico su di essa. Essa era completamente ingiustificata, e fu un bene che essa sia stata repressa prima che potesse avviare una guerra civile di massa. Sono pertanto contrario a qualsiasi strategia di contestualizzazione, il che comporta ovviamente una strategia occulta di giustificazione. Nello stesso tempo, sono incondizionatamente favorevole ad una amnistia politica che metta finalmente fuori i rei di fatti storicamente ormai conclusi.

D:: Non condividiamo la tua interpretazione sugli anni di piombo, nella sostanza assai simile a quella enunciata da Andreotti sugli opposti estremismi. Per avviarci alla conclusione di questa rapida riconsiderazione della storia della prima repubblica, come collochi il fenomeno generalmente indicato come Mani Pulite?

R:: Non conosco fenomeno storicamente più sporco di quello generalmente definito come Mani Pulite. Non ho nulla in contrario a che qualcuno creda che esso si sia avviato per il coraggio e la rivolta morale di onesti magistrati come Di Pietro e Borrelli, come non ho nulla in contrario a che i bambini credano che sia stata la Befana a portargli il carbone zuccherato. La capacità di credulità umana è immensa. Per me il fatto che qualcuno abbia dato il semaforo verde politico a quello che storicamente si configura come un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare contro un sistema politico primariamente proporzionalistico ed assistenzialistico, e soltanto secondariamente corrotto e mazzettaro è molto di più di un’ipotesi storiografica. E’ quasi una certezza.

D:: Tu pensi allora che Mani Pulite, e non certo il berlusconismo, sia alla base della seconda repubblica in Italia?

R:: Mi sembra evidente, assodato e lapalissiano. La seconda repubblica, che ha sostituito l’assistenzialismo ed il proporzionalismo con il neoliberismo ed il sistema bipolare maggioritario (strutturalmente meno permeabile alle esigenze popolari, ribattezzate “spinte corporative”), è frutto di un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare. Eventi simili sono avvenuti in quell’arco di tempo (1990-1995 circa) in molti altri paesi capitalistici, il che dimostra che si è trattato di un fatto sistemico internazionale. Alla base, ovviamente, ci sta sempre il suicidio rituale nel Mar Caspio di Gengis Khan, dei suoi dignitari e delle sue concubine (la concubine rimaste hanno invece incrementato il mercato della prostituzione nei nostri paesi civili, laici e cristiani).

Il Berlusca è un prodotto diretto di Mani Pulite. Non diretto nel senso che i burattinai di Mani Pulite volessero il Berlusca e i cinquecentotre rubinetti d’oro, dal momento che essi volevano piuttosto Mariotto Segni, ma non è colpa loro se il notabile sardo era talmente stupido da perdere il biglietto vincente della lotteria. Il Berlusca ha semplicemente ereditato, riorganizzato e rigalvanizzato il grosso bacino elettorale che i “golpisti oggettivi” di Mani Pulite avevano lasciato intatto.

D:: Continueremmo volentieri questa conversazione, che ha evidenziato una contro-storia, una specie di boccata d’aria fresca, rispetto all’asfissia delle versioni ufficiali. Ma vi sono ragioni di spazio tipografico per questa intervista già così lunga, e vogliamo allora chiudere con la nostra domanda politica da un miliardo di dollari. In breve: sulla base della terza interpretazione del presente storico che hai dato (guerra imperiale versus resistenza dei popoli), ti pare ci siano le basi per la fondazione di una forza politica che si ispiri strategicamente a questa analisi? Ti preghiamo di non “schivare” questa domanda diretta con sapienti ed opportunistiche divagazioni ma di rispondere nel modo più diretto e sincero possibile. Nel mercato del chiacchiericcio informatico tu hai più detrattori che ammiratori, ma tutti consentono sul fatto che hai la dote poco italiana della sincerità e del modo diretto di rispondere. E dunque rispondi.

 

R:: Non mi sottrarrò a questa domanda diretta. In breve, in via di principio ci sarebbero le ragioni storiche e strategiche per costituire una forza politica ispirata appunto a questa terza concezione di cui ho parlato. Ma in pratica non ne vedo ancora le condizioni. Per ora vedo solo le condizioni per un movimento culturale. Se ci fossero le condizioni politiche, sarei ovviamente felice ed onorato di essere uno dei “teorici” di questo movimento politico. Ma preferisco, anziché essere un “teorico”, essere come Socrate un fastidioso “tafano” che infastidisce il nobile cavallo politico che si vuole mettere in campo. E qui mi limito ad elencare solo alcuni punti preliminari.

In primo luogo, dove sono gli interessi politici e sociali da rappresentare ed organizzare? Forse l’Europa, occupata e privata della sua sovranità dalle basi militari americane? Ma l’Europa è per ora una astrazione troppo generica per poterla “organizzare”. Forse i giovani, soggetti ad un lavoro flessibile. Precario e senza prospettive? Ma per ora mi sembra che il lavoro salariato, dipendente o autonomo sappia benissimo di aver subito una sconfitta storica catastrofica negli scorsi decenni, e pertanto faccia di necessità virtù, e si organizzi politicamente nel Polo per il lavoro autonomo e nell’Ulivo per il lavoro dipendente. Certo, fioriscono i CUB ed i COBAS, ma fioriscono solo come movimenti ad hoc di conseguimento di obiettivi particolari, e non certo di sedimentazione di organizzazioni stabili di massa. Insomma, dovunque mi giro non vedo ancora l’esistenza di massa di interessi sociali ed economici in grado di fare realmente resistenza all’impero americano. Nei prossimi decenni questo forse avverrà in Europa, ma certamente non da parte di forze neocomuniste residuali prive addirittura del concetto di “questione nazionale” (o nazionalitaria), quanto da parte di robuste forze interclassiste. Insomma, un Chavez europeo forse verrà, e ritengo anzi probabile in prospettiva storica la sua venuta, ma verrà solo quando sarà stata fatta fuori la variante europea del bipolarismo venezuelano Copei-Azione Popolare, e cioè la dicotomia simulata Destra/Sinistra. Ne siamo purtroppo molto lontani. Ho sessantuno anni, e non lo vedo nel raggio della mia esistenza empirica.

In secondo luogo, dove sono i bacini di militanza per questa prospettiva? Non li vedo proprio. Nicchie ultraminoritarie di militanza ci sono sempre per tutti, anche per i sostenitori degli ultraterrestri, ma se il bacino militante è troppo ristretto è difficile evitare l’afflusso di provocatori, paranoici, postini di lettere esplosive, incendiatori di automobili di amministratori locali, guerrieri urbani in casco da motociclista, eccetera. Questa frangia pittoresca di spostati statistici è fisiologicamente presente in tutti i movimenti politici seri, da quello risorgimentale a quello socialista e comunista, ma è possibile appunto marginalizzarla soltanto con l’allargamento del bacino di militanza a migliaia di persone. Non ne vedo per ora la possibilità.

Bisogna partire da un fatto. Oggi coloro che sono disposti alla militanza, e che sono già una percentuale statistica infima della popolazione complessiva (non parlo qui ovviamente dei polli di allevamento del ceto politico professionale di mestiere, che non sono ovviamente militanti, ma aspiranti ad una collocazione economica medio-alta nella piramide sociale), sono disposti ad esserlo solo all’interno della dicotomia Destra/Sinistra. Si dirà che più che militanti sono militonti, cioè sono talmente “tonti” da non capire che in questo modo si iscrivono gratuitamente in una filodrammatica della società dello spettacolo. Ed infatti io la penso proprio così, e non perdo l’occasione per scriverlo. Ma questo non cambia di un grammo la situazione, perché per ora l’inchiodamento identitario Sinistra/Destra è un dato della situazione, come la religione obbligatoria nel Medioevo o la torta di mele negli USA.

Fino a quando lo sarà? Già, buona domanda. Non lo so. Non lo so, ma posso ipotizzare che lo sarà fino a quando non si avranno rotture storiche veramente epocali e strutturali. Nel 1943 ci furono i bombardamenti sull’Italia, e furono questi bombardamenti, e non certo il cosiddetto “antifascismo”, che cambiarono le cose. Nel 1989 fu il suicidio collettivo di Tamerlano e di suoi dignitari nel Mar Caspio a cambiare le cose, e non certo i battibecchi marxologici fra Colletti, Geymonat, Ingrao, Capanna, Sofri e Beppe Grillo.

In sintesi: ci vogliono almeno due fattori, rappresentanza di interessi e bacino di militanza. Se mancano tutti e due, correremmo il rischio di Vittorio Gassmann e di Alberto Sordi in Inghilterra, e cioè di farsi ridere dietro da tutti. Ora, io ho già raggiunto l’età canonica per cui non me ne frega più niente anche se tutti mi ridono dietro. Ma a vent’anni, età buona per militare, questo fatto mi avrebbe indotto a ritirarmi più veloce della luce.

 

D:: Non credi di essere troppo pessimista? Non pensi che dopo il crollo e la dissoluzione del triennio 1989-91 il mondo comunista ed anticapitalista sia invece il naturale luogo politico, sociale e culturale per questa riconversione anticapitalistica?

R:: Da questa domanda vedo che la vostra conoscenza del mondo cosiddetto “comunista” è inferiore alla mia conoscenza dei costumi sessuali dei mongoli buriati, che non conosco ma che almeno posso vagamente immaginare. Il mondo comunista è da circa vent’anni in piena dissoluzione intellettuale, ma questo non comporta la fine dell’ossessione identitaria, ma anzi la rafforza nevroticamente, perché in mancanza di prospettiva storica e di consapevolezza teorica l’ossessione identitaria diventa la sola ancora di salvezza in un mondo sempre più incomprensibile e caotico. Qui Marx non serve più. Ci vuole Freud, e per di più Freud con dosi da cavallo.

Da circa dieci anni, con ossessione grafica maniacale, io scrivo sempre “comunismo storico novecentesco” (1917-1991). L’ho scritto centinaia di volte, e se Dio mi dà vita e salute, lo scriverò altre centinaia. La platea dei miei disistimatori malevoli, di fronte a questa mia insistenza grafica, lo considera la prova provata del mio incipiente rincoglionimento senile. Può essere. Ma non credo che sia così. In realtà la mia formula grafica “comunismo storico novecentesco” (1917-1991) intende sottolineare almeno tre cose.

In primo luogo, “comunismo storico novecentesco” significa che il sistema di partiti e di stati comunisti non deriva assolutamente dal sistema teorico di Marx (che fu peraltro “sistematizzato” da altri e non da lui). La tesi della “derivazione” dei sistemi comunisti da Marx fu a lungo sostenuta dalle scuole anti-comuniste liberali (Popper, eccetera), e poi fu adottata dal pentitismo internazionale della sciagurata generazione del sessantotto. Questa tesi è falsa al 100%. La mia formula grafica serve a mettere in rilievo proprio questo fatto fondamentale.

In secondo luogo, scrivere (1917-1991) significa graficamente alludere alle lapidi in cui giacciono definitivamente dei defunti, non importa se lacrimati o illacrimati. Il fatto che il comunismo storico sia defunto significa per me che sono defunte sia le sue forme ortodosse (stalinismo nel mondo, togliattismo in Italia, eccetera), sia le sue forme eretiche (trotzkismo nel mondo, bordighismo ed operaismo in Italia, eccetera). Questa è la tesi più indigesta e difficile da mandare giù dalla vasta galassia dei gruppettari identitari. Con questo, non voglio affatto dire che è finito l’anti-capitalismo e l’anti-imperialismo, anzi intendo significare tutto il contrario, anche se molti sciocchi non lo capiscono. Finché infatti continuiamo a pensare che il comunismo storico novecentesco, ortodosso o eretico che sia, possa continuare ad essere la “base” teorica e politica di questa nuova fase del capitalismo mondiale imperialistico e conseguentemente della inevitabile resistenza contro di esso, ostacoleremo ogni nuova prospettiva adeguata all’attuale momento storico.

D:: Queste tue affermazioni sul comunismo storico novecentesco (1917-1991), di cui tu intendi segnalare sia il fatto che esso è stato “storico” ed oggi è “conchiuso”, finito, hanno un carattere puramente teorico, o hanno anche un risvolto politico?

R:: Hanno chiaramente anche un risvolto politico. Ci sono amici e compagni, con cui collaboro da circa cinque anni e con cui probabilmente continuerò a collaborare (anche perché non vedo altro nel mercato politico italiano di oggi), che vogliono costruire un movimento popolare di liberazione su basi neo-comuniste. Si tratta di un gravissimo errore politico, che potrebbe portare in poco tempo all’insabbiamento e poi all’esaurimento del progetto. Il neo-comunismo, che indubbiamente per ora sarebbe una risorsa identitaria di militanza per “chi ci sta”, è una pregiudiziale assurda per un bacino potenziale infinitamente più grande. Questo non vuol dire che non si possa essere neo-comunisti (io ad esempio potrei definirmi tale), ma vuol dire che il riferimento al comunismo ed al marxismo, comunque interpretato e piegato, diventa un ostacolo pregiudiziale per un progetto politico.

Dichiarandosi neo-comunisti, si entra inevitabilmente nel piccolo mondo rissoso ed autoreferenziale delle sette nostalgiche, non importa se neo-togliattiane, neo-trotzkiste o neo-operaiste. Queste sette sono sorde, cieche ed inconvincibili, e sono strutturate sulla base del proselitismo e non del dialogo politico, se non strumentale. Tanto vale parlare di teologia con i Testimoni di Geova. Voler costruire un movimento popolare di liberazione a riferimento ideologico neo-comunista è un errore strategico di auto-castrazione storica. Il fatto che questo errore venga fatto da persone combattive, oneste ed in perfetta buona fede non cambia purtroppo l’essenza del problema.

D:: Su quali basi programmatiche potrebbe allora strutturarsi una nuova forza politica adeguata alla fase storica in cui viviamo, e cioè lo scenario della formazione di un Impero Americano in lotta contro la Resistenza dei popoli del mondo, nel contesto di possibili atti di “terrorismo” sia da parte degli “imperiali” che da parte dei “resistenti”?

R:: Chiedermi un programma ora sarebbe come chiedermi di scrivere le tavole della legge su di un fazzoletto di carta. Un programma, se verrà fuori (ma sono pessimista a breve termine), sarà frutto di un impegno collettivo di migliaia di persone. Tuttavia non voglio sottrarmi egualmente alla domanda, anche se la mia risposta sarà per ora dilettantistica.

Partiamo da quattro nomi, Marx, Lenin, De Gaulle e Lafontaine. Marx significa critica filosofica universalistica al capitalismo. Lenin significa lotta intransigente contro l’imperialismo. De Gaulle significa che non può esistere sovranità nazionale finché una sola base militare americana resterà nel nostro paese. Il socialdemocratico tedesco Lafontaine significa difesa intransigente dello stato sociale europeo. Come si vede, non mi interessa nulla prestare il fianco ad accuse di “eclettismo”. Il cosiddetto “eclettismo” è inevitabile in una prima fase storica. Dopo verranno le sistematizzazioni e le coerentizzazioni.

Naturalmente, una nuova forza storica non dovrà lasciare dubbi sul fatto di essere sostenitrice di uno stato democratico, in cui si esclude decisamente ogni partito unico di tipo “fascista” o “comunista”, ed in cui si esclude ogni persecuzione religiosa di tipo anti-musulmano, anti-cristiano ed anti-ebraico. Essa deve basarsi sulla netta distinzione fra popolo americano ed impero ideocratico americano, fra popolo ebraico e sionismo, fra popoli musulmani ed inaccettabili atti di terrorismo politico, eccetera. E potrei ovviamente continuare.

D:: A questo punto chiudiamo.. Ci pare di esserci detti tutto l’essenziale da dire. Se son rose fioriranno. Un’ultima domanda: tu sei scettico sulla possibilità storica attuale di costruire una forza politica simile. Se però ti sbagliassi, saresti disposto a riconoscere l’errore ed a far parte di questa nuova forza politica?

R:: Ovviamente sì, e con grande gioia e gratitudine.        

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