Considerazioni filosofiche ulteriori. Premesse e ricadute della filosofia del Sessantotto.

mar 28th, 2014 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

di Costanzo Preve

1. Esiste una filosofia del Sessantotto? E se sì, quale?

La raccolta di saggi sul 1968 curata da Diego Melegari e Marco Baldassari per la Manifestolibri (c’è anche un saggio di chi scrive) pone il problema della filosofia (o più esattamente, delle diverse filosofie) del 1968, e quindi anche del Sessantotto. Qui mi sento più in casa mia, in quanto filosofo e commentatore filosofico, anche se per ragioni di spazio dovrò limitarmi ad alcune osservazioni di tipo apodittico (un vero esame completo sulla natura delle filosofie del Sessantotto europee comporterebbe un saggio analitico di più di mille pagine).

Ricordo qui ancora una volta la mia interpretazione del Sessantotto europeo, da distinguere rigorosamente dagli eventi dell’anno 1968: costruito artificialmente sulla base dell’omogeneizzazione posteriore di fatti disomogenei, il Sessantotto è il mito di fondazione di una nuova forma culturale di capitalismo postborghese e postproletario liberalizzato ed individualizzato, derivato da una contestazione giovanile soggettivamente antiborghese, che si pensava con falsa coscienza ideologica necessaria come rinnovamento delle correnti anticapitalistiche della tradizione comunista (preferibilmente “eretica”, e quindi “innocente” per i crimini del comunismo storico realmente esistito – l’unico ovviamente non onirico ma reale – nel periodo storico 1917-1968.

Se questa formulazione è anche solo parzialmente pertinente, ne deriva che qualcosa chiamata Filosofia del Sessantotto (in acronimo FS) è veramente esistita. Le filosofie, ovviamente, sono sempre numerose, e non c’è mai soltanto una. Ma fra le molte in ogni periodo storico c’è sempre un profilo espressivo dominante che – per così dire – dà il tono spirituale all’intero periodo storico. Farò qui alcuni sommari esempi, perché l’analogia e la comparabilità sono fattori indispensabili alla conoscenza storica.

La filosofia greca antica fu comunitaria per sua propria essenza, perché la sua genesi storica sta nel pericolo di dissoluzione che il potere del denaro e della proprietà privata (metaforizzato nel concetto di infinito-indeterminato, apeiron, auriston), cui opporre idealmente la permanenza eterna della buona legislazione basata sui rapporti equilibrati fra poteri e ricchezze (metaforizzati nel concetto di Essere, to on), esercitavano sulla convivenza politico-sociale (polis, koinonia). La misura di tutte le cose (metron) era vista come il concetto fondante della verità (aletheia), e la verità si identificava con la concordia (omonoia), la saggezza e la sapienza, l’eguaglianza dei diritti (isonimia) e la garanzia dell’accesso di tutti alla parola politica pubblica (isegoria).

La filosofia ellenistica antica, venuta meno la convivenza politica democratica ed affermatosi l’incubo schiavistico illimitato, fu individualistica perché dovette garantire la libertà almeno nell’intimo della coscienza del singolo, nelle due forme apparentemente opposte ma in realtà convergenti della piccola comunità protetta di amici (epicureismo) o della grande comunità ideale cosmopolitica dei cittadini del mondo (stoicismo).

La filosofia della fine del mondo antico, nelle due forme apparentemente opposte ma in realtà convergenti del neoplatonismo “pagano” e del cristianesimo, fu religiosa per sua propria essenza, perché venuta meno sia la soluzione comunitaria sia la soluzione individualistica, dovette inserire il destino umano in un apparato metafisico trascendente che in qualche modo rispondeva ai suoi bisogni di senso della vita e di collocazione sociale.

La filosofia della fondazione del mondo moderno fu parimenti atomistico-individualistica, perché dovette legittimare la dissoluzione degli insiemi gerarchico-comunitari precedenti (a base ovviamente feudale e signorile), da ricostituire sulla base di individualità autonome. Di qui la costituzione formalistica del soggetto (Cartesio), la riformulazione della fede cristiana come pure scommessa indimostrabile (Pascal), il nuovo patto sociale fra individui cattivi per natura ma abbastanza intelligenti per trovare una forma di convivenza (Hobbes), la distruzione del concetto di sostanza come metafora di un substrato sociale indipendente dai puri scambi mercantili (Locke), la distruzione del concetto di causalità come metafora della causazione politica della società mediante l’applicazione di diritti naturali preesistenti ad un contratto sociale (Hume), l’unificazione dello spazio (materialismo illuministico), del tempo (progressismo illuministico), del lavoro astratto da sussumere al capitale (economia politica inglese), della morale individuale slegata da ogni “eteronomia comunitaria” (Kant e il kantismo, eccetera).

La grande filosofia idealistica (in successione: Fichte, Hegel e Marx – qui lo spaesamento è necessario per innescare un virtuoso riorientamento gelstatico) tematizzò la non-coincidenza fra il nuovo mondo capitalistico e la necessaria protesta universalistica contro l’alienazione e lo sfruttamento che esso oggettivamente causava. La scissione che questa grande filosofia dovette necessariamente subire portò da un lato al passaggio dall’idealismo al positivismo (in sintesi: da Marx al marxismo successivo), e dall’altro al passaggio dall’idealismo al relativismo caotico del nichilismo della volontà di potenza (in sintesi: da Hegel a Nietzsche, e da Marx a Weber).

Potrei continuare, ma non è questo evidentemente il luogo per riscrivere la storia della filosofia occidentale e darne un senso. Ciò che conta è capire che il Sessantotto è stato a suo modo uno spartiacque filosofico, in quanto ogni passaggio storico ed ogni configurazione sociale vogliono la loro filosofia. Ed ora mi  spiegherò meglio.

 

2. La filosofia del Sessantotto. Un’epoca di gestazione e di trapasso (Hegel) da un capitalismo dialettico ad un capitalismo speculativo

Il grande Hegel interpretava la sua propria filosofia come la consapevolezza, dialetticamente articolata in forma appunto “ideale” (l’idealismo monomondano della ricostruzione storica e non l’idealismo bimondano dall’idea platonica) dell’epoca di gestazione e di trapasso dal mondo tardosignorile al mondo protoborghese, ed era giustamente fiero di essere consapevole di questo passaggio. Solo  gli imbecilli scambiano questa modesta consapevolezza storica per delirio di onnipotenza del “sapere tutto”, del “aver capito tutto”, del far finire la storia nel 1820, e via delirando da manicomio. E tuttavia questi imbecilli adempiono ad un’importante funzione sociale, quella di diffamazione dell’idealismo, con conseguente legittimazione indiretta del positivismo come anticamera per l’odio e il disprezzo di ogni possibile filosofia. Il potere potrà così stare tranquillo. L’idea che i belati neokantiani o gli esoterismi alla Wittgenstein possono dargli fastidio equivale all’idea che il solletico delle scimmiette possa realmente infastidire il rinoceronte.

Anche Marx, allievo diretto di Hegel, era consapevole di vivere un’epoca di gestazione e di trapasso, anche se si sbagliava sulla diagnosi (data l’inesistenza fattuale della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, alleato con le potenze intellettuali della produzione industriale capitalistica, da lui definito con il termine in lingua inglese di general intellect) ed anche sulla prognosi (data la natura del tutto non intermodale e rivoluzionario-sistemica della classe operaia, salariata e proletaria, erroneamente concepita come fronte avanzato dello sviluppo delle forze produttive sociale. E tuttavia i suoi quattro concetti filosofici fondamentali (e cioè totalità sociale ontologicamente e dialetticamente costruita, astrazione della vita umana come metafisica costitutiva del modo di produzione capitalistico, alienazione come riduzione unidimensionale della ricchezza antropologica dell’ente naturale generico, ed infine contraddizione come struttura della realtà storica, ed anzi di ogni realtà storica, sia pure con diverse polarità antagonistiche), unito ai suoi quattro concetti scientifici (e cioè modo di produzione, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione ed infine ideologia e formazioni ideologiche), costituiscono un poligono concettuale ad otto lati che deve però essere ancora coerentizzato, perché Marx non lo ha fatto, ma lo ha inserito in uno schema deterministico e teleologico-messianico facilmente criticabile (Max Weber, Karl Löwith, Jean-François Lyotard, eccetera).

Ho fatto i due maestosi esempi di Hegel e di Marx perché anche per il Sessantotto si è avuto il mito di fondazione di un’epoca di gestazione e di trapasso, quella da un capitalismo ancora dialettico (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia contro proletariato, eccetera) ad un capitalismo purificato e speculativo, nel senso che si specchia (speculum) nell’individuo mercificato puro postborghese e postproletario. Se questo è vero dovremo giungere ad un vero paradosso, che so bene lascerà a bocca aperta il lettore poco dialettico. E tuttavia Jean-Jacques Russeau disse giustamente a suo tempo che è meglio avanzare un paradosso piuttosto che ripetere un pregiudizio.

A mio avviso, la più grande vittima filosofica del Sessantotto è stata Karl Marx. So che gli sciocchi pensano il contrario, in base al breve orgasmo editoriale su Marx e il marxismo dell’empirico anno 1968 e dintorni. Ma anche qui solo la severa riflessione filosofica dialettica senza paraocchi potrà realmente farci capire qualcosa.

Il pensiero di Hegel prima e di Marx dopo si sono sviluppati sul medesimo terreno metafisico di tipo universalistico fondato su di una filosofia della storia universale cosmopolitica. Ma mentre per Hegel la storia universale è la storia della libertà, la storia universale per Marx è la storia della liberazione degli individui, dei popoli e delle classi dallo sfruttamento classista. In Marx, per così dire, il classismo è la tattica ed il comunitarismo la strategia. L’emancipazione classistica del proletariato ha senso esclusivamente come mezzo per un fine che la trascende, e cioè la comunità umana di individui solidali. Lo spirito del Sessantotto si contrappone frontalmente a questa visione storica di tipo dialettico-universalistico, e questo non è un caso, perché il mito di fondazione di un nuovo individualismo postborghese non può non promuovere tutte le possibili forme di filosofia, all’infuori di quella di Marx. Alcune segnalazioni in proposito saranno utili per comprendere meglio che questo apparente paradosso e cioè che Marx, apparentemente molto presente nella editoria del 1968, è stato in realtà la principale vittima dello spirito del Sessantotto) è di fatto addirittura al di sotto della realtà storica.

Mito di fondazione dell’assoluta presenzialità e dell’integrale godimento immediato (jouir sans entraves [godere liberamente, n.d.r.], è uno dei demenziali slogan del maggio francese), il Sessantotto tende ad abolire l’arco temporale passato-presente-futuro, delegittimando sia la memoria e la tradizione con il suo presenzialismo isterico (passato), sia l’utopia progettuale e costruttiva del futuro (futuro, appunto). Aboliti sia Dio che la Storia, l’unica divinità idolatrica resta il Presente. Tutto questo è ovviamente incompatibile con il pensiero di Marx, comunque interpretato. Il pensiero di Marx, infatti, si innesta nella filosofia della storia di Hegel per correggerla radicalmente, in quanto l’arco bidimensionale passato-presente di Hegel (la filosofia della storia di Hegel si interdice infatti la deduzione storica del futuro, sostenendo che la nottola di Minerva della consapevolezza storica si alza solo al crepuscolo, e non certo all’alba) viene sostituito da un arco tridimensionale passato-presente-futuro (o più esattamente passato comunista primitivo e poi precapitalistico, presente capitalistico con contraddizioni potenzialmente rivoluzionarie, ed infine futuro comunista). È questa una grande narrazione metafisica (grand récit) da sostituire e da abbandonare (Jean-François Lyotard), in quanto derivata da una secolarizzazione del messianesimo ebraico-cristiano riformulato con il linguaggio della dialettica hegeliana e dell’economia politica inglese (Karl Löwith)?

Non lo credo. La grande narrazione secolarizzata racconta la storia lineare di un soggetto pieno, che garantendo la permanenza nel tempo del suo progetto originario (dal comunismo primitivo al comunismo postcapitalistico), mantiene integralmente la propria consistenza soggettiva metastorica (il proletariato rivoluzionario, appunto). Ora, concedo che il marxismo possa essere interpretato in questo modo, e così di fatto fu interpretato nella sua necessaria ideologizzazione deterministico-teleologica (il determinismo è la teleologia fatta passare per la terapia positivistica), necessaria appunto per essere “adottata” come religione di salvezza per atei subalterni. Ma il migliore marxismo critico novecentesco, sia nella variante filo-hegeliana (Lukács), sia nella variante anti-hegeliana (Althusser) aveva congiuntamente intrapreso una critica del necessitarismo deterministico-teleologico, senza per questo dover aderire al codice Weber-Löwith-Lyotard (un codice del disincanto unificato). Ma tutto questo tentativo di autoriforma del codice marxista fu spazzato via dallo spirito del Sessantotto come codice della presenzialità assoluta. Il pensiero di Marx è un pensiero del nesso temporale passato-presente-futuro. Il postmoderno, figlio legittimo del Sessantotto, riduce il passato ad ornamento mitico-estetico ed abolisce il futuro come residuo messianico. Le stesse critiche al postmoderno in difesa del moderno (Habermas) concordano pienamente con i postmoderni su di un punto solo, che però è un punto decisivo, e cioè nel ritenere Marx (ed Hegel con lui) una sorta di ultimo pensatore metafisico tradizionale. E infatti sia Habermas (moderno) sia Lyotard (postmoderno), pur divisi su tutto, concordano nel classificare Marx (e Hegel) fra i pensatori metafisici e tradizionalisti (sia la rivoluzione che la conservazione, infatti, vengono inserite nelle mitologie tradizionali).

Sfugge in generale il fatto che le due facce ideologiche complementari dello spirito del Sessantotto, l’operaismo e il femminismo, sono due lati dello stesso radicale rifiuto del pensiero di Marx, che era dialettico e universalistico per sua propria essenza. In comune l’operaismo e il femminismo hanno infatti il rifiuto integrale della dialettica e dell’universalismo, in quanto l’operaismo parte dalla classe operaia come “rude razza pagana” (Tronti) e il femminismo dal “genere” femminile come genere ontologicamente ed antropologicamente distinto da quello maschile. L’operaismo-femminismo e lo spirito di Marx non possono in alcun modo essere fusi, aggiunti o integrati, trattandosi di opposti qualitativi non integrabili. L’operaismo costruisce un modello (errato, per usare un termine moderato) di riproduzione capitalistica che abolisce la concorrenza strategica fra gli agenti sociali di questa stessa produzione (vedi la critica a questa concezione di Gianfranco La Grassa, non a caso silenziato dagli apparati ideologici operaisti egemoni nel circo mediatico ed editoriale della cosiddetta “estrema sinistra”), spiegandola con cicli di resistenza operaia all’innovazione tecnologica, e riducendo infine la categoria di modo di produzione a successione delle forme di estorsione del plusvalore relativo in fabbrica (taylorismo, fordismo, toyotismo, decentralizzazione produttiva, eccetera). In questo modo non si va certo con Marx oltre Marx (Toni Negri), ma si distrugge integralmente Marx agitando alcune frasi dei Grundisse (il “grundissismo”, nella formulazione critica di Aurelio Macchioro) contro l’insieme espressivo del pensiero di Marx.

In quanto al cosiddetto “femminismo”, da non confondere con il sacrosanto principio moderno dell’emancipazione femminile e della benvenuta eguaglianza dei sessi (che a mio avviso restano comunque due, e solo due, senza che questa sobria affermazione venga scambiata per omofobia), il suo codice differenzialista colpisce al cuore la teoria marxiana dell’emancipazione, che per sua natura coinvolge sempre congiuntamente insieme l’uomo e la donna, visti come due metà antropologiche complementari di una stessa essenza umana unitaria (Gattungswesen). Il fatto poi che il femminismo sia di fatto diventato un insieme di conventicole clitoridee, ceto politico femminile in carriera avido di “quote” garantite, corporazioni universitarie di women studies, eccetera, deve essere considerato una semplice ricaduta dell’egemonia della cultura USA caratterizzata dal patriarcato maschile nella concorrenza economica e nei bombardamenti aerei imperialistici e dal matriarcato femminile nella gestione familiare e sessuale (sex in the city, eccetera).

Il discorso sarebbe lungo, è appena incominciato, ma devo interromperlo qui per ragioni di spazio. E comunque una cosa deve restare chiara al lettore, che deve però fare uno sforzo autonomo per sostituire il paradosso al pregiudizio e lo spaesante riorientamento gestaltico all’inerzia pigra del “sentito dire”. In sintesi: lo spirito del sessantotto, o più esattamente il sessantotto come mito di fondazione ha avuto un bersaglio sopra tutti gli altri da distruggere, e cioè l’eredità classica del pensiero di Marx. Si tratta, lo so bene, di una spiegazione rovesciata rispetto a quella consacrata del 1968 come ultimo Hurrah del marxismo (Spencer Tracy). Ma lo stesso Marx sosteneva (correttamente) che il capitalismo è un mondo rovesciato, l’empirismo e il positivismo non lo possono capire, e ci vuole la dialettica per raddrizzarlo.

Parole al vento. La dialettica è una maestra che generalmente insegna in aula vuota. E tuttavia questa aula vuota, svuotata appunto dalla concezione sessantottina del mondo, si riaprirà certamente a poco a poco. Ma ci vorranno purtroppo catastrofi (che soggettivamente non auspico affatto – avrei preferito una riforma pacifica interna al sistema) perché generazioni nuove la riempiano.

 3. Conclusioni. Osservazioni sulla Scuola di Francoforte, Michel Foucault e Alain de Benoist

Non intendo commentare analiticamente i contributi raccolti nel saggio della Manifestolibri. Chi vuol sapere come la penso si legga il mio contributo, il cui contenuto è opposto a quasi tutti gli altri. Mi limito a dire la mia opinione su tre questioni di interpretazione, rispettivamente sulla Scuola di Francoforte, su Michel Foucault ed il fucoltismo posteriore (centralità della cosiddetta biopolitica, eccetera) ed infine su , e la cosiddetta cultura della “nuova destra”, nel suo rapporto con il 1968 assai più che con il Sessantotto.

A proposito della Scuola di Francoforte, il commentatore che se ne occupa sostiene che, fra tutte le diverse scuole filosofiche sessantottine, quella che ne interpreta maggiormente lo spirito è il francofortismo tedesco. Il commentatore sa bene che da un punto di vista fattuale questo può essere contestato, in quanto il solo Marcuse (morto nel 1979) si dichiarò favorevole all’insieme di eventi empirici del 1968, mentre Adorno (morto nel 1969) e Horkheimer (morto nel 1973) non lo furono per nulla, ed anzi furono proclivi a denunciare gli eccessi assembleari e militanti come “fascismo di sinistra” (formulazione poi ripresa dal catastrofico Habermas). Ma il commentatore (l’accademico romano Stefano Petrucciani) trascura correttamente questa registrazione storica, per andare al nucleo teorico della questione, portando argomenti appunto per considerare il francofortismo, preso nel suo insieme, la vera “filosofia del Sessantotto”.

Il mio personale disaccordo con questa interpretazione è totale. Per me la filosofia dei francofortesi, presa nel suo insieme e trascurando le empiriche opinioni di Marcuse (favorevole) e di Adorno e Horkheimer (sfavorevoli), è la filosofia più estranea al Sessantotto che si possa concepire. Ovviamente una simile opinione deve essere motivata, e qui non c’è certo lo spazio per poterlo fare adeguatamente, e dovrò farlo in sintesi. In breve, a mio avviso, il nucleo filosofico espressivo del pensiero francofortese sta in un recupero critico (e spesso critico-nostalgico) del grande pensiero borghese classico, visto come medicina (farmakon) contro il capitalismo assoluto postborghese di modello USA, da un lato, e contro il socialismo dispotico staliniano, dall’altro. La filosofia omogenea al primo è il neopositivismo (cfr. L’uomo ad una dimensione  di Marcuse) e la filosofia omogenea al secondo è il materialismo dialettico (cfr. Il marxismo sovietico, sempre di Marcuse, e Terminologia Filosofica  di Adorno). Ora, se è vero che la natura culturale del Sessantotto è stata quella di una contestazione radicalmente antiborghese vissuta con falsa coscienza necessaria come una rivolta anticapitalistica, che avrebbe potuto diventare rivoluzione se avesse “incontrato” la classe salvifico-messianica, il proletariato (si presti attenzione alla successione dei termini contestazione-rivolta-rivoluzione), allora l’interpretazione di Petrucciani è radicalmente errata, e del tutto inadatta alla radice a  farci capire l’essenza (da non confondere con la superficie) del problema. La nostalgia per la precedente “vera” borghesia (che sta alla base dei Minima Moralia di Adorno), unico farmakon (termine greco dialettico, perché significa insieme veleno e medicina) contro il capitalismo scatenato ed il dispotismo comunista (ed oggi c’è solo il primo, perché il secondo si è suicidato), è del tutto incompatibile con un fenomeno basato sull’identificazione di borghesia e capitalismo, per cui distrutta la prima seguirà necessariamente la distruzione del secondo. Chi pensava questo era un vero imbecille filosofico, mentre i francofortesi non erano imbecilli filosofici. Se qualcuno ha ancora dubbi, si legga l’opera recente dei due allievi francesi di Pierre Bourdieu, Luc Boltanski ed Eva Chiapello, e quanto ho brevemente detto apparirà meno straniante. Se il Sessantotto ha seppellito Marx con un funerale di prima classe (postmoderno, ideologia della differenza, ostilità verso il punto di vista ontologico e dialettico, soggettivismo narcisistico, unità complementare di operaismo e di femminismo, eccetera), ha seppellito lo spirito francofortese con un funerale di seconda classe (disprezzo luddista verso l’intera eredità borghese e verso il carattere dialettico, e cioè il farmakon, veleno e medicina, della tradizione, in nome di un presenzialismo estatico e della solita banale critica del futurismo contro il passatismo, che gli dei greci ed il Dio cristiano gettino nella spazzatura che merita pienamente).

A proposito di Michel Foucault e della sua eredità mi trovo parimenti in disaccordo radicale con ogni variante del cosiddetto “fucoltismo”, per cui provo un’invincibile antipatia. La mia opinione è quindi opposta a quella dei commentatori Manlio Iofrida ed Augusto Illuminati. Devo però una spiegazione sulle cause della mia antipatia verso il fucoltismo, che considero un’ideologia identitaria per professori universitari normalizzati, che hanno sostituito la cosiddetta “biopolitica” alla ben più radicale critica dell’economia politica, mostrando così la corrente sotterranea “normalizzatrice” del Sessantotto. Ho letto molti libri (non tutti) di Foucault, e non posso negare che si tratti di un pensatore di prima grandezza. Ma anche Kant lo è, e lo è stato dieci volte  di più, senza che questo comporti l’adesione al kantismo.

In primo luogo (e mi scuso per non avere qui lo spazio per argomentarlo, ma l’ho fatto ampiamente altrove) credo fermamente che le due principali varianti dello strutturalismo di “sinistra” francese (lo strutturalismo comunista di Louis Althusser e lo strutturalismo biopolitico di Michel Foucault) siano del tutto incompatibili ed anzi ostili sia al metodo che allo spirito di Marx. Non nego che questi due autori non dicano cose interessanti, intelligenti e geniali. Le dicono. Ma entrambi hanno di mira la distruzione dei presupposti ontologico-filosofici di Marx, che sono l’universalismo ed il metodo dialettico ricavato da Hegel. Sono (quasi) sicuro che i commentatori del futuro, quando ormai saremo da tempo nel mondo dei più, ricollocheranno lo strutturalismo della seconda metà del ventesimo secolo nel suo giusto posto, quello della critica congiunturale alle grandi narrazioni del materialismo dialettico e della sua (impropria) fusione fra natura e società, macrocosmo naturale e microcosmo umano. Cura che però ammazza comunque il malato, perché lo strutturalismo mantiene la stessa base patologica del materialismo dialettico, il presupposto dell’unità epistemologica delle scienze della natura e delle scienze sociali. Presupposto che in campo marxista solo Lukács ha saputo veramente infrangere, con la sua (incompiuta) Ontologia dell’Essere Sociale.

In secondo luogo, la distruzione del soggetto di Foucault è del tutto incompatibile con la concezione del soggetto in Marx. Come è noto, già Hegel aveva rilevato che Spinoza resta il principio imprescindibile di ogni filosofare moderno, purché si cominci a pensare risolutamente la Sostanza come Soggetto, e cioè come divenire fenomenologico dell’autocoscienza dell’intera umanità pensata “idealmente” come un unico soggetto trascendentale riflessivo presupposto della storia universale (Koselleck). Marx ereditò questa concezione di Hegel, dandone ovviamente una versione “comunista” assente in Hegel, ed inserendola nella visione “strutturale” della teoria dei modi di produzione sociali. Ma questo “strutturalismo” non  è certamente la filosofia di Marx, ma soltanto la sua teoria “scientifica” della storia. La sua filosofia è una filosofia storica del processo di presa di coscienza soggettiva dell’umanità attraverso l’unità veritativa di In Sé e di Per Sé (unità veritativa che si distingue dalla vecchia teoria della verità di Platone, cui bastava l’In Sé eterno dell’Idea iperuranica). Marx, teorico della prevalenza modale della struttura sulla sovrastruttura (nel concetto di struttura peraltro io comprendo anche le ideologie, e non solo le forze produttive ed i rapporti di produzione, pena l’economicismo), non è affatto uno strutturalista, ed è anzi stato uno dei pensatori meno strutturalisti mai esistiti.

La concezione del soggetto di Foucault ha avuto dei precedenti storici, e cioè Hume e Nietzsche. E questo niente affatto a caso. David Hume doveva ad ogni costo abolire il soggetto (così come la categoria di causalità), perché il soggetto era il presupposto sia della teoria del diritto naturale (giusnaturalismo) che della teoria del contratto sociale (contrattualismo), che egli voleva sostituire con la sua apologia del mercato di tipo utilitaristico. Il soggetto del diritto naturale e del contratto sociale infatti fonda la sfera del politico prima che si potesse legittimare una sfera economica derivata, laddove Hume voleva l’autofondazione del mercato come unica sostanza ed unica causalità della società. Per questo il soggetto diventava non solo inutile ma anche pericoloso (come potenziale agente di rivoluzioni egualitarie di tipo russoviano, giacobino e addirittura babuvista), e bastava l’incontro nel mercato del venditore e del compratore, per cui l’unica vera soggettività funzionale alla riproduzione sociale era questo incontro. L’incontro economico al posto del soggetto fondante politico. È questa la sola teoria del soggetto ideologicamente compatibile con la riproduzione capitalistica, che deve delegittimare ogni eventuale proposta del soggetto rivoluzionario di passare a lato del mercato economico. So che ci sono oggi molti “marxisti” di tipo tardo-althusseriano che fanno l’apologia dell’ “incontro aleatorio”, riscoprendo la buona vecchia acqua calda ipercapitalistica e mercantilistica di Hume. Che dire? Dio acceca chi vuol perdere, e nello stesso tempo la stupidità continua ad essere uno dei principali fattori della storia della filosofia.

In quanto a Nietzsche, riprende il concetto di non-soggetto di Hume, spostando il baricentro dall’apologia del mercatismo capitalistico alla teoria dei flussi energetici della volontà di potenza del ribelle aristocratico (Wille zur Macht). Si tratta di una concezione molto nota, su cui posso sorvolare presupponendone la conoscenza nel lettore. E tuttavia colgo l’occasione per sottolineare la complementarietà del plesso teorico Hume-Nietzsche, complementarietà che generalmente sfugge a tutte le scuole di tipo nicciano-marxista (Deleuze, Toni Negri, eccetera). Il non-soggetto di Hume-Nietzsche-Toni Negri, infatti è il non-soggetto del desiderio illimitato, prodotto dalla seduzione dell’offerta pubblicitaria capitalistica, e non può essere il soggetto del bisogno limitato, che sta alla base dell’antropologia Epicuro-Hegel-Marx. E con questo intelligenti pauca.

In terzo luogo, la cosiddetta biopolitica che Foucault ha generosamente offerto alla comunità universitaria perché potesse sostituire la ben più pericolosa e politicamente scorretta critica dell’economia politica, ha avuto ed ha la funzione di oscurare la vera biopolitica del capitalismo, l’unica che i cosiddetti “biopolitici” non rilevano mai. La sola vera biopolitica, infatti, è quella che cerca di affermare antropologicamente la condizione lavorativa incerta, flessibile e precaria come dato strutturale della riproduzione capitalistica. Non ci sono – ovviamente – altre biopolitiche. La sola che esiste è l’addomesticamento antropologico al lavoro stabilmente flessibile e precario, che richiede prima di tutto l’addomesticamento dei giovani, i soli fisicamente in grado di sopportare lo stress che questo comporta. I vecchi, ribattezzati “anziani”, sono già pensionati. I lavoratori di mezza età, ribattezzati egoisti e corporativi dal coro mediatico, devono diventare l’ultima generazione con il lusso del lavoro stabile. Ma questa è la sola “biopolitica” di cui non parla mai il correttissimo circo universitario,  concentrato esclusivamente sull’analisi del “marginale” (zingari rom, immigrati diversamente colorati, gay, controllo poliziesco dei quartieri popolari, eccetera). Il momento che qualcuno comincerà a  chiedersi il perché di tutto questo, ci sarà certamente una ripresa della critica dell’economia politica, di cui la biopolitica resta pur sempre una (secondarissima) componente accessoria.

Concludo con alcune note sommarie sul mio rispettato Alain de Benoist, di cui si è occupato Eugenio Negro. De Benoist è un pensatore di prima grandezza, degno di entrare nei sommari di storia della filosofia, ma la dittatura del politicamente corretto si darà da fare perché questo non possa avvenire, perché le sindromi di demonizzazione e di infiltrazione sono parte integrante della normalizzazione ideologica dei poteri dominanti. De Benoist ha percorso in modo esemplare la via della dialettica Estremismo di destra-Superamento dell’estremismo di destra attraverso una Nuova Destra, ed infine Tentativo di Coerentizzazione di Nuove Sintesi al di là della Dicotomia Destra/Sinistra. Ed è appunto questo invito allo spaesamento che tutta la tribù identitaria politicamente corretta non può sopportare, perché vedrebbe il suo volto avvizzito ed incattivito nello specchio di Dorian Gray. De Benoist accetta le diagnosi di Debord e di Baudrillard sulla società dello spettacolo, e su questa base è in grado di diagnosticare felicemente il Sessantotto come Superspettacolo, che in quanto appunto superspettacolo corona felicemente la società dello spettacolo. La natura subalterna del Sessantotto a mio avviso sta proprio nel fatto che l’Evento ha cercato di distruggere tutto il vecchio mondo, al di fuori della sola dicotomia Destra/Sinistra. Questo non deve essere messo al centro del “mistero sessantotto”. La distruzione termina con la definitiva consacrazione della dicotomia, Spettacolo di tutti gli Spettacoli. La superiorità di De Benoist sui sacerdoti italiani della dicotomia (nella forma complementare del “sinistro” Marco Revelli e del “destro” Marcello Veneziani) è talmente grande che riesco difficilmente ad esprimere la mia valutazione in proposito. Se c’è qualcosa di cui il Sessantotto mostra le scarpe rotte ed i buchi nei pantaloni, ebbene, ciò sta proprio nella sua pittoresca incapacità di capire questa simulazione e questo superspettacolo. Ma questa è un’altra storia, da rimandare alla prossima puntata.

Questo è il minimo comun denominatore dell’azione

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