Jean-Claude Michéa e la “sinistra capitalista”

feb 15th, 2015 | Di | Categoria: Contributi

 

Matteo Luca Andriola 

In un’epoca in cui il grosso della sinistra europea (quella “radicale”, dato che la riformista è ormai parte integrante del fronte liberale) ha letteralmente abdicato alla sua funzione originale, la costruzione di un punto di vista critico e attuale al vigente sistema capitalistico dominante – la “stecca nel coro” – è sempre vista con grandissima diffidenza. Si pensi all’ostracismo ai danni del filosofo Costanzo Preve, recentemente venuto a mancare, e alla sua piccola scuola di pensiero marxiana, che si sta segnalando per lo sforzo generoso di riuscire nell’opera di dissodamento delle incrostazioni che ingessano l’odierna sinistra, una crosta ideologica che rende attualmente impensabile l’uscita dall’asfissiante impasse “postmoderna” della fine della storia capitalistica, cercando di indicare percorsi alternativi di ricerca, di emancipazione e di affrancamento. Insomma, in piccolo, l’obiettivo che anche noi de L’Interferenza, pur nella nostra povertà di mezzi (e con diversi punti di criticità e differenza culturale rispetto alla comunità filosofica previana), cerchiamo di portare avanti in questo piccolo laboratorio telematico, nell’intento titanico di animare un dibattito per “liberare” la sinistra dai mali che la perseguitano: l’appiattimento sul mercato e l’ideologia del politicamente corretto. Un’ideologia di regime che rappresenta tutt’oggi l’emblema stesso del neocapitalismo globalizzato (o «turbocapitalismo»), ormai disfattosi del vetusto apparato valoriale vetero borghese simil-reazionario (la triade Dio, patria e famiglia), ormai obsoleto e inservibile per i suoi scopi, per assumere il nuovo, fatto di relativismo, laicismo (diverso dalla laicità, che invece difendiamo strenuamente), scientismo, genderismo, femminismo, eugenetismo, oltre naturalmente alla celebrazione del capitale, ormai “naturalizzato”, concepito non più come una forma dell’agire umano storicamente determinatasi ma come una dimensione ontologica dalla quale non si può neanche prescindere e che di conseguenza non può essere modificata o trasformata.

Quindi, se Preve è stato ghettizzato,anche nei nostri confronti i peggiori insulti sono venuti proprio da certi settori della sinistra radical chic (per fortuna che siamo spesso pubblicati sul portale web di Sinistra in Rete, che ci da sempre ampio spazio). Il problema non è tanto la provinciale Italia e la sua sinistra da ‘salotto & caviale’, ma – grazie alla globalizzazione – la sinistra in generale: certi scritti, infatti, vengono snobbati volutamente dal culturame “sinistrato”.

Una cosa del genere sta avvenendo anche nella vicina Francia col filosofo francese Jean-Claude Michéa, che sta portando avanti un lavoro certosino di decostruzione di certi paradigmi presenti a sinistra.

L’analisi di Michéa si incentra – in questo simile a Preve, ed è anche questa una caratteristica che ci differenzia parzialmente da costoro – sull’obsolescenza e sull’equivocità del termine “sinistra”, ma anche su come essa sia ormai organica al progetto dominante capitalistico. Quest’ultimo – che Marx definiva nel libro III de Il Capitale non come una «cosa», ma come «un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società» che si costituisce «dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale» – è antropologicamente strutturato in senso individualista e anti-comunitario, fondandosi infatti, com’è sottolineato in Les mystères de la gauche: de l’idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, pubblicato nel 2013, sul paradigma dell’«uomo-mercante», sull’accrescimento smisurato del profitto individuale, anche a discapito dei rapporti affettivi e di sangue, sulla fiducia assoluta verso la Mano Invisibile della provvidenza, cioè del mercato (come scriveva Smith, e in seguito, con la secolarizzazione di quest’etica, la mano del Caso), che avrebbe sistemato tutto, bypassano l’odiato – e noi aggiungiamo, hegeliano – Stato, un mostruoso Leviatano capace di distruggere ogni libertà individuale, un, come scrive Mario Cecere,

«pachidermico intralcio allo sviluppo di questi ultimi, e al conseguente libero dispiegarsi automatico delle libertà di un soggetto “autonomo” concepito come ininterrotto flusso di desideri sempre cangianti (Hume) dislocabili a piacere sulla superficie liscia un mondo virtualmente privo di confini; il capitalismo […] si configura idealmente e si determina praticamente come il dominio di un individuo astrattamente ab-soluto, anonimamente transvalutato nell’impersonalità della società dello Spettacolo e della Tecnica, il quale, apparentemente onnipotente, e invece concretamente impotente, è rigidamente vincolato alle necessità di soddisfare sempre di nuovo i desideri, per definizione contrastanti e inestinguibili, prodotti continuamente dal Mercato, la cui autoriproduzione si fonda simbolicamente sulla retorica delle libertà individuali formalmente garantite e, materialmente, sulla rimozione di ogni ostacolo, di ogni vincolo, di ogni  limite, fisico o morale, in grado di opporsi, di contenere o di fare da argine  alla sua  volontà di potenza».[1]

Per Michéa – come per Marx ed Engels – la struttura capitalista è tutto tranne che conservatrice, ed è capace di archiviare ogni sovrastruttura appartenente alle epoche precedenti (la morale, l’etica, lo stato, ecc.), pur di mantenersi e proiettarsi verso il futuro – rivoluzionandosi. Il crollo del comunismo sovietico viene identificato dal filosofo come l’evento che proietta globalmente tale modello di produzione, che diviene Pensiero Unico, un evento che riconosce formalmente ogni libertà di espressione e di ogni «stile di vita» a «tutti», purché non si metta in discussione il suo modello di sviluppo, che si presenta, scrive l’Autore, «come una totalità dialettica di cui tutti i momenti sono inseparabili (siano essi economici, politici e culturali) e invitano, a loro volta, ad una critica radicale». Una struttura che si legittima culturalmente (come rilevavano anche i filosofi della Scuola di Francoforte), e che rifiuta tutto quello che è “altro da sé”, delegittimato come “male assoluto” mente quello liberalcapitalista diviene il “migliore dei mondi possibili” (nonostante certi autori della sinistra per bene trovino “alcune” contraddizioni: quelle di genere, ad esempio, tanto per cambiare, interpretate naturalmente a senso unico…).

L’autore si rivolge alla galassia socialista, rivendicando lì la propria appartenenza (ma non alla “sinistra”), un socialismo diverso da quello progressista e illuminista sviluppatosi dalla morte di Marx e da quello “reale”, sviluppatosi nell’Est dell’Europa dal 1917 al 1989/1991, un socialismo che senz’altro fa sua l’analisi di Marx (l’analisi non economicista), unito all’eredità di Proudhon, di Sorel e, soprattutto, di George Orwell, chiedendo alla sua area una seria riflessione. Com’è rilevato ne Il vicolo cieco dell’economia (Elèuthera, 2004), viene contestato l’utilitarismo e l’economicismo presente nell’apparato ideologico dominante trasversalmente i due schieramenti, animatori di un sistema che offre ogni giorno al cittadino “due narrazioni”, una – col condizionamento sensoriale tramite pubblicità e bisogni indotti – col capitale che ci offre nuovi progressi e nuove potenzialità, promettendoci l’avvento di un mondo in cui l’umanità realizzerà tutti i suoi sogni secolari (guarda caso sempre individuali, mai collettivi e sociali), l’altra, appena si arriva alle “cose concrete”, che cambia il discorso, ricordandoci che nell’era socialdemocratica si è vissuti al di sopra dei nostri mezzi, che occorre rinunciare a diritti sociali che si erano creduti acquisiti, come un lavoro stabile, una pensione dignitosa, cure mediche e istruzione universali gratuiti, che oramai diventano sempre più privilegi in contrasto con le leggi dell’economia. Secondo l’Autore: «suppongo non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e proprio per questo imponga una critica radicale».[2] Il capitalismo, quindi, è contestato alla sua stessa radice: l’individualismo anticomunitario. Per l’Autore infatti

«la peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l’Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale fra le differenti figure proprie allo spirito borghese (…) e allo spirito del capitalismo».

Concetti che, per chi ha letto Preve, non sono di per sé così nuovi,[3] ma che risuonano come una bestemmia urlata all’interno della cattedrale del politicamente corretto. Ma «come può essere [...] che un movimento storico di tale portata non sia mai riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalistica dell’esistenza?» I motivi storici di questa “mutazione genetica” – almeno per quel che riguarda il socialismo d’Oltralpe – vengono palesati in un’intervista rilasciata nel marzo 2013 al settimanale di sinistra Marianne, dove l’Autore, che spiega le ragioni della messa in discussione della diade destra/sinistra (come fatto da «Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch»), elenca le sue critiche nei confronti della sinistra francese (che almeno si fa ancora denominare, almeno nominalmente, “socialista”: da noi, dopo aver gettato Marx nella spazzatura, ha mutato pelle divenendo ancor più americana dell’America stessa, scopiazzando prima l’Asinello coi Democratici di Prodi e poi animando il PD). “La sinistra” è ormai divenuta per Michéa un significante-padrone fatto prostituire già da molti anni, un’area che ormai ha dismesso la parola “socialismo”, che in origine indicava il mutuo soccorso operaio promosso da Pierre Leroux, divenendo negli anni ’80 sinonimo delle pagliacciate à la Jack Lang. Per l’Autore l’origine della crisi di tale area è da situarsi nel ‘900: all’inizio, in seguito all’affaire Dreyfus, era naturale il compromesso storico (è così definito dall’Autore) tra movimento operaio socialista e sinistra liberale e repubblicana, cioè «il “partito del movimento”, dove il partito radicale e la massoneria volteriana dell’epoca marciavano fianco al fianco», contro i fautori dell’Ancien Régime, nobiltà e clero. Ma per l’Autore – sotto questo profilo in netta sintonia con Preve – tale fronte reazionario è stato definitivamente sconfitto dal Maggio del ’68, mentre l’odierna destra di oggi è anch’essa erede di quella stagione, dato che fa sue le istanze individualiste del liberalismo economico di Friedrich Hayek e Milton Friedman. Per l’Autore, quindi, che attacca Hollande alla pari dei conservatori gollisti dell’Ump, la sinistra si è adeguata a questo “partito del movimento”, cioè alla “sinistra liberale”:

«Privato del suo nemico storico e dei suoi bersagli specifici (come la famiglia patriarcale o “l’alleanza tra il trono e l’altare”), il “partito del movimento” è stato immediatamente costretto, per mantenere la sua identità originaria, a perseguire a tempo indeterminato la sua opera di “modernizzazione” del mondo (che è il motivo per cui, oggi, “essere di sinistra” non significa altro che essere in testa a tutti i movimenti che lavorano per la costruzione della società capitalistica moderna, che vadano incontro o meno agli interessi del popolo, o finanche al semplice buon senso). Anche se i primi socialisti condividevano con i liberali e i repubblicani il rifiuto di tutte le istituzioni oppressive e portatrici di ineguaglianza dell’Ancien Régime, non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, neppure quindi di attaccare le fondamenta del “legame sociale” (perché questo è ciò che inevitabilmente accade quando si afferma di voler fondare una “società” moderna – ignorando tutti i dati dell’antropologia e della psicologia – esclusivamente sulla base di un accordo privato tra individui considerati come “indipendenti per natura”). La critica socialista degli effetti atomizzanti e distruttivi sull’umanità del credo liberale, secondo il quale il mercato e il diritto astratto sarebbero stati sufficienti a formare, secondo le parole di Jean-Baptiste Say, un “collante sociale” (Engels scrisse nel 1843 che l’ultima conseguenza di questa logica sarebbe stata un giorno la “dissoluzione della famiglia”), divenne quindi chiaramente incompatibile con il culto del “movimento” come fine in sé, di cui Eduard Bernstein aveva formulato il principio sin dalla fine del XIX secolo, proclamando che “il fine è nulla” e “il movimento è tutto”. Per liquidare quest’alleanza ormai priva di senso tra i sostenitori del socialismo e recuperare la sua indipendenza originaria, la “nuova” sinistra non dovette fare altro che imporre mediaticamente l’idea che qualsiasi critica dell’economia di mercato o dell’ideologia dei diritti umani (il “pomposo catalogo dei diritti dell’uomo” a cui Marx contrapponeva, ne Il Capitale, l’idea di un modesta “Magna Carta” capace di proteggere realmente le sole libertà individuali e collettive fondamentali) porterebbe ineluttabilmente al “gulag” e al “totalitarismo”. La missione è stata portata a termine alla fine degli anni ’70 da quella “nouvelle philosophie” che oggi è diventata la teologia ufficiale della società dello spettacolo. In queste circostanze, io continuo a pensare che oggi è diventato politicamente inefficace, se non pericoloso, continuare a promuovere un programma di ritiro graduale del capitalismo sotto le insegne esclusive di un movimento ideologico la cui missione emancipatrice è finita, in sostanza, quando la destra monarchica, reazionaria e clericale è definitivamente scomparsa dal panorama politico. Il socialismo è per definizione incompatibile con lo sfruttamento capitalistico. La sinistra, purtroppo, no. E se tanti lavoratori – autonomi o dipendenti – ormai votano a destra, o non votano per nulla, è spesso perché hanno percepito intuitivamente questa triste verità».[4]

L’autore è colpito da questa graduale mutazione genetica – parallela a quella della sinistra italiana – che porta il PS ad essere accostato con l’UMP nel considerare l’economia capitalista come l’orizzonte ultimo del nostro tempo, con Christine Lagarde nominata direttrice del FMI per perseguire la stessa politica di Strauss-Khan, a sua volta finanziatore, attraverso lo stesso organismo, della fondazione Terra Nova, che ha introdotto le primarie – un sistema americanizzato quindi – nel partito progressista “di maggioranza”. Oggi prosegue l’Autore, «stiamo assistendo ad una surreale e feroce lotta tra coloro la cui unica missione è difendere tutte le implicazioni antropologiche e culturali di questo sistema e coloro che devono far finta di combatterlo», con una sinistra che da una parte cancella i diritti dei lavoratori, e dall’altra – partendo dal presupposto liberale e illuminista secondo cui il diritto assoluto di ogni individuo consiste nel fare ciò che vuole con il suo corpo e il suo denaro – si fa dettare la propria linea da «un ex groupie di Bernard Tapie e di Edouard Balladur come Christiane Taubira», quella del matrimonio gay, una “stilettata” anche contro chi mette in croce Alexis Tsipras per non aver nominato ministri di sesso femminile, incappando nell’accusa di “sessismo” e “paternalismo”, facendo dimenticare – nonostante le contraddizioni di Syriza – che in Grecia non si muore di sessismo, ma di precarietà, disoccupazione e crisi economica, e che vi sono altre priorità alla lotta di genere, e cioè portare la pagnotta sulla tavola ponendo fine all’attacco della troika: per noi, pragmaticamente, se a far questo è un esecutivo formato da uomini e donne, da sole donne o da soli uomini, poco importa. Una riflessione che ci porta a convergere col pensiero autenticamente socialista di Michéa, che contesta al movimento noglobal non le sue giuste critiche al neoliberismo, ma la base liberale di questi movimenti, che fanno l’elogio dell’individuo isolato che manifesta per il diritto di restare un individuo isolato, la “moltitudine” di Toni Negri che “contesta” l’anonimo Impero.

Ma la questione più interessante – scontata però, se pensiamo a come vengono trattati gli anticonformisti di casa – è come sia stato isolato dal dibattito istituzionale “a sinistra” e come, invece, una certa destra intellettuale, quella culturalmente più “onnivora” e innovativa, ovvero la «Nouvelle Droite», animata da Alain de Benoist, si sia aperta a costoro, ovviamente con l’intento – perché negarlo? – di auto-sdoganarsi e di appropriarsi di tesi non proprie. Alt, non stiamo parlando di una rozza confraternita di neofascisti illetterati e violenti, ma di una delle scuole di pensiero fra le più interessanti e prolifere nel paesaggio intellettuale della destra radicale, una corrente culturale – gravitante attorno ad associazioni come il GRECE e a riviste come Éléments e Nouvelle École – che si distingue per diverse peculiarità che l’hanno fatta aprire ad una certa sinistra anticonformista sempre più isolata: la critica al totalitarismo statolatrico in nome della piccola comunità identitaria; la denuncia del retaggio monoteista della religione dei diritti umani da esportare sempre e ovunque; la critica all’«utopia egualitaria» in nome, ed è questo la cosa più interessante, non della “disuguaglianza”, ma del «diritto alla differenza» di tutti; l’elogio della spiritualità pagana, ripensata come variabile spiritualità europea – dopo essersi liberati dal monoteismo giudaico-cristiano, fautore di ogni totalitarismo mondialista – in sintonia col «retaggio indoeuropeo»; la critica all’economicismo, alla visione mercantile del mondo e all’utilitarismo liberale, tema sviluppato negli anni ’70, ma radicalizzato dagli anni ’80, portando la «Nouvelle Droite» ad interessarsi a temi di sinistra come l’ecologismo, la decrescita (localista, identitaria e comunitaria), l’antiutilitarismo e in epoca recentissima al socialismo antiliberale a comunitario. De Benoist inoltre, non credendo nella diade destra/sinistra, tipica della società liberale, propone “nuove sintesi” fra suggestioni “di destra” e “di sinistra”, portandola – in nome della critica all’american way of life – a dialogare con tutti quegli intellettuali eretici di sinistra che vengono isolati dai propri schieramenti d’origine, come il MAUSS di Serge Latouche, Danilo Zolo, intellettuali marxiani come Costanzo Preve e, per ultimo, di Michéa,[5]  a cui Éléments – organo del GRECE – dedica nel 2012, in un monografico intitolato Le socialisme contre le gauche, un pezzo scritto dallo stesso de Benoist dove il filosofo neodestrista, recensendo Michéa, scrive che la sinistra:

«Per quanto concerne l’immigrazione, esercito di riserva del capitale, la sinistra moderna usa lo stesso linguaggio di Laurence Parisot (meticciato e nomadismo trasformati in norme). Influenzata da coloro che hanno “distrutto il socialismo convertendolo nell’individualismo dei diritti universali e del liberalismo integrale” (Hervé Juvin), il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il ‘reazionario’ che ha il torto di rimpiangere il passato. [...] I valori della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori progressisti: immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe… Tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o di cui si disinteressa totalmente. [...] Non si parla più del capitalismo o della lotta di classe, e ovviamente di quell’anticaglia della rivoluzione. Persino il partito comunista ha quasi soppresso la parola socialismo dal suo vocabolario. Avendo perduto la sua identità ideologica, non è più in grado di influenzare la corrente socialdemocratica da cui dipende elettoralmente. Poiché l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Jean-Claude Michéa, “che il migrante sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica”. [...] Il popolo non si riconosce più in una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro di antifascismo, il socialismo con l’individualismo radical chic e l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’immigrazionismo, prova solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al contempo il meticciato e la diversità, si sfinisce in pratiche civiche e in lotte ‘contro tutte le discriminazioni’ (con la notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali. Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come populisti (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe)”».[6]

Le critiche di Alain de Benoist alla sinistra francese – in parte condivisibili – spiegano il recente successo del Front national e del neopopulismo in Europa. L’attenzione verso le tesi “politically incorrect” di Jean-Claude Michéa da parte della «Nouvelle Droite» – che intanto ha iniziato pure a pubblicare tutta l’opera omnia di Costanzo Preve, anche i saggi pubblicati per case editrici marxiste o “neutre”, a partire da Éloge du communautarisme, edito nel 2012 da Krisis – passa l’anno successivo con la pubblicazione di un altro pezzo, sempre di de Benoist, Le crime de Jean-Claude Michéa (dove il “crimine” è la denuncia del politically correct).[7] L’idea del socialismo antiprogressista permette al GRECE di aprirsi agli ambienti altermondisti di sinistra, critici verso l’involuzione liberale e progressista della sinistra riformista, e totalmente isolati, sdoganandosi come possibile e unico interlocutore anticapitalista contro una sinistra che ormai è diventata parte del meccanismo globalizzante. Non significa ovviamente che da intellettuali non si possa dialogare con l’avversario (parlare con de Benoist non è come parlare con CasaPound, tanto per intenderci, dato che la «Nouvelle Droite» critica il nazismo e il fascismo, totalitari, ergo, moderni e omologanti come il liberalismo e lo stalinismo), ma bisognerebbe riflettere sulla possibile strumentalizzazione, alla lunga, di questi contatti, dato che una certa destra, magari per sdoganasi presso il mainstream – cosa alquanto facile, dato che alcuni ex quadri neodestristi italiani scrivono su Il Giornale, sulla stampa di centrodestra ecc., e non su giornaletti parrocchiali – è pronta a dialogare con chi le concede spazi, anche per accaparrarsi certi temi (la «Nouvelle Droite» rilesse da destra Antonio Gramsci, coniando il “gramscismo di destra”, cioè ottenere l’egemonia politica dopo aver ottenuto quella culturale) e farli poi suoi.

Dobbiamo poi riflettere – dopo l’analisi del pensiero di Michéa – sullo stato di cose della sinistra, a cui non interessa più il dialogo con l’intellettuale ma con la tecnocrazia capitalista (esempio? Fabio Fazio che intervista Tronchetti Provera con aria da lacché in Rai), ghettizzando i suoi uomini più liberi, mentre certa destra populista, quella che viene dipinta come rozza e ignorante – si pensi alla Lega Nord – dialoga invece con Alain de Benoist, Massimo Fini, Pietrangelo Buttafuoco ecc.. Il dialogo a 360 gradi fatto dalla «Nouvelle Droite», cavalcando gli squilibri del sistema euroamericano, oggi con la sinistra radicale domani con la destra identitaria, è il frutto della trasversalità e dell’innovazione della sua struttura, un pensiero che, pur rimanendo a destra, permette di costruire concetti et-et, alla destra della sinistra, alla sinistra della destra, e di destra e di sinistra e, infine, al di là della destra e della sinistra. Se la destra, con un intellettuale atipico come Alain de Benoist, ha cercato di uscire dal gorgo (e dal ghetto) rielaborando la propria cultura, così non ha fatto la sinistra, che la propria cultura l’ha invece buttata alle ortiche. È in questo spazio lasciato vuoto che la «Nouvelle Droite» ha avuto gioco facile a sviluppare la sua strategia di egemonia culturale. Ed è proprio su questo terreno che la sinistra deve riflettere, per non perdere la battaglia sociale che caratterizzerà lo scontro politico della prima metà degli anni Duemila.


[1] M. Cecere, Jean-Claude Michéa e i “misteri” della sinistra, in Ideeinoltre, 11 febbraio 2014.

[2] J.-C. Michéa, Il vicolo cieco dell’economia, Elèuthera, 2004, pp. 12, 13.

[3] Secondo Preve il neocapitalismo «ha liberalizzato la sua etica e il suo riferimento alla religione, e lo ha fatto spinto dalla sua intrinseca logica ad allargare la mercificazione universale dei beni e dei servizi, per cui oggi sono mercificati beni e servizi che la borghesia classica intendeva invece preservare dalla sua stessa attività mercificante. I marxisti sciocchi e superficiali naturalmente non capiscono questa distinzione elementare, e continuano a definire “forze conservatrici” le forze economiche e politiche capitalistiche, laddove ovviamente è il contrario. Esse non ‘conservano’ proprio nulla». C. Preve, Marx inattuale, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 184.

[4] Jean-Claude Michéa: “Pourquoi j’ai rompu avec la gauche”, intervista rilasciata a Marianne, 12 marzo 2013.

[5] Cfr. M. L. Andriola, La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Milano, Ed. Paginauno, 2014; P.-A. Taguieff, Sulla Nuova Destra. Itinerario di un’intellettuale atipico, Firenze, Vallecchi, 2004; F. Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle droite, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.

[6] A. de Benoist, Jean-Claude Michéa, in Éléments, n. 142, gennaio-marzo 2012.

[7] A. de Benoist, Le crime de Jean-Claude Michéa, in Éléments , n. 149, ottobre-dicembre 2013.

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