GIORDANO BRUNO: IL LIBERO PENSIERO VIVE ANCORA

feb 15th, 2015 | Di | Categoria: Cultura e società

 di Roberto Massari

415° ANNIVERSARIO DI GIORDANO BRUNO

 

Verrà un giorno che l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente

e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera,

che lo rende e lo tiene schiavo […] l’uomo non ha limiti e quando un giorno

se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo.

(da Spaccio della bestia trionfante, 1584)

Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare
arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa,
improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto.
(da Oratio valedictoria, 1588)

I più cari auguri a Giordano Bruno

che, pur arso, mai è andato in fumo.

(Danilo Breschi)

Per celebrare laicamente il 415° anniversario della morte di Giordano Bruno per mano dell’Inquisizione (17 febbraio 1600), riproponiamo l’articolo che Massari scrisse per il giornale dei Cobas della scuola (Cobas, n. 6/2000, p. 12) in occasione del 400° anniversario.

Ricordiamo inoltre che il 17 febbraio alle ore 17.00, in piazza Campo de’ Fiori a Roma – accanto alla statua eretta nel luogo in cui il filosofo nolano fu arso vivo – si terrà un’assemblea pubblica sul tema: «Nel nome di Giordano Bruno – je suis laïque», con interventi di Maria Mantello, Franco Ferrarotti e Carlo Bernardini. [la Redazione]

Ogni epoca storica ha avuto i propri martiri del libero pensiero. E ogni epoca storica ha visto nascere proprie forme specifiche in cui si è manifestato ciò che più o meno può intendersi ancor oggi per «libero pensiero».

Accantonando tutte le varianti del caso – molteplici e ricche così come lo è la creatività umana – tali forme espressive appaiono determinate fondamentalmente dal conflitto tra un dato materiale, oggettivo (il patrimonio di conoscenze accumulate [maturate] dallo sviluppo delle forze produttive e/o acquisite grazie all’intercambio ineguale e combinato tra diversi sistemi sociali) e un dato ideologico, soggettivo (le esigenze d’autodifesa corporativa della propria casta da parte di chi domina o aspira a dominare quello sviluppo, quell’intercambio, quel sistema sociale). Tra i sistemi di casta legati alle più spietate tradizioni oscurantistiche, particolarmente accaniti nel distruggere sul nascere qualsiasi possibilità di libera formazione delle idee, vi è stata nei secoli e continua ad esservi oggigiorno la Chiesa cattolica, intesa sia come gerarchia vaticana, sia in senso più generale, come struttura di potere teocratico sovranazionale.

 

Liberi pensatori e Controriforma

Il cristiano moderno e in buona fede si consola a volte pensando che c’è stato un periodo ben peggiore nella storia di questo sistema di casta, quando nacque per l’appunto l’idea di un «braccio secolare» della giustizia divina, nel contesto spirituale e politico che si condensa nel nome della Controriforma avviata dal Concilio di Trento (1545-1563). Ed effettivamente è difficile pensare a un periodo peggiore, nella storia dell’umanità, per chi si trovasse a vivere quell’epoca in Italia o in territori limitrofi sotto il dominio papale e intendesse ciononostante far professione di libero pensatore. Massimamente poi se avesse avuto l’ardire di mettere in discussione, sia pure timidamente, i princìpi della fede cattolica e dello (pseudo)aristotelismo cui tale fede si appoggiava in campo dottrinario-filosofico. Lo attendevano infatti (nell’ordine) la sospensione dagli uffici, la tortura, il carcere, l’eliminazione fisica.

Eppure, anche nel contesto terribile della nuova aggressività della Chiesa controriformatrice, alcune intelligenze continuarono a lavorare in maniera indipendente, demistificando dogmi o presunzioni di sapere, conferendo nuove basi (naturalistiche e tendenzialmente antideterministiche) al mondo dell’etica o aprendo comunque la strada a quello sviluppo del pensiero filosofico e scientifico che alcuni decenni dopo la loro morte sarebbe diventato praticamente inarrestabile.

 

Quattro pensatori meridionali

Per l’Italia occorre ricordare quattro grandi personalità, assai diverse nei loro itinerari esistenziali e di ricerca, ma affratellate dal comune intento di rimpiazzare il vecchio spiritualismo teologico aristotelico con una nuova visione naturalistica della vita terrena e dell’anima, insieme a un positivo orientamento verso le acquisizioni della «ricerca» scientifica. I quattro non fecero compiere progressi significativi alla scienza, ma contribuirono a modificare l’atteggiamento ideologico nei confronti del suo metodo (precorritori in tal senso di Cartesio). Furono tutti e quattro meridionali e furono tutti e quattro osteggiati, quando non apertamente perseguitati, dalla Chiesa.

Il più «moderato» tra loro – BERNARDINO TELESIO di Cosenza, antiaristotelicamente assertore dell’unicità della materia, compresa quella dell’anima – fu tra i pensatori anticonformisti quello che se la cavò meglio, vedendo solo gli ultimi anni della propria vita amareggiati dall’opposizione ostile del mondo ecclesiastico e della cultura ufficiale del tempo.

Il più «estremista» invece – GIULIO CESARE VANINI di Taurisiano (Lecce) – ebbe la lingua tagliata e la morte sul rogo all’età di 34 anni (nel 1619). Lo si considera il padre fondatore di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di libertinismo, destinata a raggiungere l’auge letterario e filosofico solo in epoca illuministica.

Vi è poi il combattivo calabrese domenicano – TOMMASO CAMPANELLA di Stilo – sotto molti riguardi il più maturo pensatore dell’epoca: certamente il più impegnato in campo politico-rivoluzionario. Ideatore della prima utopia sociale comunistica dell’era «moderna» – La città del sole – fu più volte torturato e imprigionato. Nel 1599 fu nuovamente catturato e torturato per aver organizzato una congiura antispagnola in vista della proclamazione di una Repubblica calabrese. Ebbe salva la vita perché si finse pazzo, ma dovette trascorrere ben 27 anni della propria vita in carcere, uscendone per essere trasferito agli «arresti domiciliari» a Roma, sino alla definitiva emigrazione in terra di Francia (onde sfuggire a un nuovo arresto), dove morì nel 1639.

E infine GIORDANO BRUNO – campano di Nola – bruciato sul rogo di Campo de’ Fiori a Roma, il 17 febbraio di 400 anni fa, dopo un processo inquisitoriale durato 7 anni. Dei quattro pensatori è certamente il più celebre per essersi trasformato col tempo in un simbolo universale dell’anticlericalismo, della resistenza al sopruso religioso, del diritto individuale alla libertà di pensiero. E ai nostri giorni, in un’epoca di così facili pentimenti, è certo significativo che egli si sia rifiutato sino alla fine di abiurare e sconfessare le proprie idee, rinunciando in tal modo alla salvezza della vita che l’Inquisizione gli avrebbe certamente concesso. Tutte le testimonianze dell’epoca concordano nel descrivere la fierezza con la quale egli affrontò la condanna a morte decretata da quello stesso cardinale Bellarmino che poi la Chiesa farà «santo».

«D’ogni legge nemico e d’ogni fede»

Racconta Bruno che questo verso dell’Ariosto gli era toccato in sorte durante un gioco. Ma è certo che gran parte della sua vita si ispirò a princìpi di autonomia di pensiero e d’indipendenza spirituale del tutto pionieristici per l’epoca sua. Forse anche per questo non prese posizione a favore della Riforma, ma fu anzi inesorabilmente critico del movimento di Lutero. Si immerse piuttosto nella cultura umanistico-rinascimentale del proprio tempo, attingendo ampiamente all’opera di Erasmo, di Cusano, di Ficino e, con entusiasmo, di Copernico. Non mancarono in lui (come in Campanella) influenze del libertinismo del Vanini, così come non mancarono oscillazioni nei riguardi della fede religiosa (a partire dall’assunzione tra i 14 e i 15 anni dell’abito domenicano, poi dismesso, ripreso e nuovamente dismesso). Ma nei momenti di maggiore distacco dalle polemiche confessionali del suo tempo, egli giunse a considerare la religione come pura superstizione e specchio rovesciato del vero, orientandosi piuttosto verso una concezione di sviluppo interiore della religiosità naturale.

Posizioni blasfeme, per l’epoca, e i primi guai con le autorità ecclesiastiche dovevano convincerlo a intraprendere la via della fuga e poi dell’esilio, a partire dal 1576.

 

Unità della natura e infinità del mondo

Bruno critica la teoria aristotelica per la quale forma e materia sarebbero entità separate. La materia, principio unitario di vita, non è qualcosa di inerte, ma è essa stessa fonte di attività, energia in trasformazione all’interno della quale opera la coincidentia oppositorum, che Cusano aveva definito come caratteristica interna alla personalità divina.

È su questa base – secondo Ludovico Geymonat – che l’unità della natura diventa un fondamento della filosofia autenticamente rinascimentale di Bruno, che non arriva a costituirsi, tuttavia, in una visione unitaria del mondo. Egli parla infatti di più mondi, ma immersi in uno spazio unico, infinito, in cui ogni punto può venir considerato centro dell’universo; si spalanca in tal modo la porta a un’entusiastica accettazione del sistema copernicano.

«Scienziato» del suo tempo, Bruno approfondisce temi di magia e di astrologia, di cabalismo e occultismo, ma soprattutto arriva a far suo integralmente il discorso di Copernico, ricavandone non tanto degli insegnamenti matematici, quanto una concezione del mondo e alcune intuizioni di fisica dinamica che lo porteranno a scrivere, ne La cena delle ceneri (altra opera del fecondissimo 1584), che «con la terra si muovono tutte le cose che si trovano in terra». Di lì procederà a una nuova definizione della fisica degli atomi (non più democritea), che costituisce la parte più fragile della sua visione del mondo e sulla quale non ci si può qui soffermare.

Così come si dovrà sorvolare sugli sforzi compiuti dal Nolano per l’elaborazione di un’arte della mnemotecnica, o sviluppo della memoria, ispirata originariamente all’opera di Raimondo Lullo e confluita in lavori specifici come De umbris idearum (1582), Sigillus sigillorum (1583) e De imaginum compositione (1591).

 

L’«eroico furore»

Il principio di attività che opera nella materia e che spinge l’uomo a liberarsi dalla schiavitù delle passioni, ricercando la ragione autentica del moto delle cose, si ritrova anche all’interno dell’etica, della quale viene offerta una concezione dinamica e produttrice di conoscenze. L’«asinità» è per Bruno lo stato animalesco dell’uomo che subisce passivamente la natura, che non ricerca la ragione ultima delle cose e non raggiunge la consapevolezza di sé: liberazione della mente è anche liberazione della volontà (Spaccio de la bestia trionfante, 1584) ed entrambe costituiscono delle precondizioni per la ricerca della verità. Tema che verrà ulteriormente sviluppato in De gl’heroici furori (1585), dove la visione dell’infinità del mondo diventa strumento di emancipazione dell’uomo, accanto a quello che Eugenio Garin definisce lo sforzo che l’uomo compie per oltrepassare «eroicamente» tutti i limiti e tutti i confini. L’incontro con la Verità, a quel punto, è incontro con la Divinità, o meglio, come afferma nello Spaccio, «la verità è la cosa più sincera, più divina di tutte: anzi la divinità e la sincerità, bontà e bellezza delle cose è la verità».

L’eroico furore di questo Uomo del Rinascimento (per rinviare a una celebre opera di Agnes Heller, 1967) trascende inevitabilmente in arte, operosità, smania di vivere ed esperimentare, di comprendere e reagire. Fantastica ebbrezza di chi comincia a volare e si libra pericolosamente sui prati verdi del libero pensiero, in procinto di compiere il balzo verso il grande ignoto.

A tanto non giunse Giordano Bruno, e chissà se vi sarebbe potuto giungere. E comunque, la rete dell’Inquisizione lo riportò con i piedi al suolo, impiegando tutti i mezzi «morali» e materiali a disposizione per l’epoca, al fine di strappargli una preziosissima abiura. Non vi riuscì, tuttavia, e per questo l’affidò alle mani del boia, sperando in tal modo di mettere a tacere le aspirazioni umanistico-eversive che emergevano dalla sua riflessione teorica.

È questione di tempo, forse di secoli: ma il fatto che la Chiesa cattolica abbia dovuto uccidere Bruno fisicamente, pensando in tal modo di soffocarne l’insegnamento – senza peraltro riuscirvi – è una prova tangibile della sua vulnerabilità: una prova inesorabile del fatto che anche questa più antica casta teocratica un giorno si dissolverà, mentre la testimonianza dei martiri pionieri del libero pensiero continuerà a vivere per sempre.

 

Un monumento simbolico

Il primo tentativo di erigere una statua a Campo de’ Fiori non poteva che avvenire durante la Repubblica romana del 1849. Ma la statua fu distrutta quando il papa, Pio IX, tornò al potere sulla città. Occorre arrivare al 1885 per vedere la costituzione di un comitato per l’erezione della statua a Giordano Bruno. Al comitato aderirono personalità della cultura come Hugo, Ibsen, Spencer, Bovio, Labriola e, ovviamente, Bakunin.

Nel 1888 si svolsero varie manifestazioni a favore dell’iniziativa del comitato, animate soprattutto da studenti universitari, con scontri e arresti. Il consiglio comunale di Roma, all’epoca di orientamento filoclericale, dovette dimettersi e non fu rieletto nelle elezioni successive. Nel 1889 finalmente la statua (opera di Ettore Ferrari) fu eretta dove oggi si trova, diventando un simbolo per la cittadinanza. Ogni anno, il 17 febbraio, essa era oggetto di una commemorazione.

Nel 1929, al momento della stipula dei Patti lateranensi, Pio XI chiese che la statua fosse distrutta. Mussolini non accettò, ma proibì qualunque tipo di manifestazione negli anni del regime fascista. Le commemorazioni ripresero solo dopo la Liberazione e si ripetono ogni anno, con numerose presenze italiane ed estere. Una riprova che la testimonianza di Giordano Bruno e la carica simbolica che egli rappresenta per il mondo del libero pensiero non sono affatto esaurite.

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