In morte di Kanu Sanyal

mar 27th, 2010 | Di | Categoria: Politica Internazionale

Kanu Sanyal - Intervista 1di Piero Pagliani

Kanu Sanyal, che con Charu Mazumdar diresse la storica rivolta naxalita in India, si è tolto la vita lo scorso 23 marzo.

Conobbi Kanu Sanyal proprio nelle storiche campagne di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, alcuni anni fa.

Lì il 3 marzo del 1967 Kanu, a capo di militanti rivoluzionari del Communist Party of India (Marxist) e assieme ad un gruppo di braccianti della tribù dei Santhal, occupò con le bandiere rosse un latifondo. Fu la scintilla di una rivolta che fu sconfitta solo sei anni dopo, con un bilancio di 10.000 morti, massacri, incarcerazioni, torture e stupri (armi tuttora usate nella repressione dei movimenti rurali)

Fu ancora Kanu Sanyal ad annunciare il 22 aprile del 1969, sulla spianata del Sahid Minar a Calcutta davanti ad un’enorme folla, la nascita del Communist Party of India (Marxist-Leninist), il braccio politico dei guerriglieri naxaliti.

Imprigionato, condannato all’ergastolo, infine graziato dal governo del Left Front del Bengala Occidentale, Kanu Sanyal ha passato più di 15 anni della sua vita in prigione.

Kanu Sanyal - intervista 2L’ultimo arresto avvenne, all’età di 76 anni, poco dopo il nostro incontro, mentre cercava di andare a Nandigram per portare la sua solidarietà militante ai contadini che là si opponevano agli espropri dei loro terreni a favore di una multinazionale indonesiana, decretati proprio dal governo del Left Front.

Ero andato a trovare Kanu Sanyal e la leggendaria guerrigliera della tribù dei Munda, Shanti, per raccogliere testimonianze sulla rivolta naxalita. Di quel lungo viaggio sotto i monsoni estivi parlai in un numero di “Alias” del “manifesto” e riportai il contenuto dell’intervista nel libro “Naxalbari-India. La rivolta nella futura terza potenza mondiale” che pubblicai per la Mimesis di Milano nel 2007.

Provate ad immaginarci sotto il pergolato della capanna di un villaggio nelle campagne bengalesi a parlare di rivoluzione, semi-colonialismo, semi-feudalesimo e del suo rocambolesco viaggio clandestino attraverso Nepal e Tibet per andare in Cina a incontrare Mao.

Insomma la storia di una stagione di lotte, di miti, di illusioni e disillusioni. Anche di errori, tragici errori.

Me ne parlava Kanu, camminando per il villaggio, senza reticenze, anticipando a volte le mie domande. Non avere contrastato fin da subito la strategia terroristica dell’ “annichilimento del nemico di classe” propugnata da Majumdar, era stato per Kanu forse il principale dei suoi errori, perché la sua linea, che rivendicò in seguito con gran forza, era quella del “movimento di massa”.

E’ anche per questo che recentemente criticava i guerriglieri maoisti indiani, tardi eredi del movimento naxalita, pur, ovviamente, contrastando la linea governativa della cosiddetta “guerra ai maoisti”, dietro la quale si rintracciano facilmente poco edificanti interessi economici (quando il primo ministro indiano Manmohan Singh annunciò questo giro di vite, ci racconta Arundhati Roy, le azioni delle compagnie minerarie schizzarono alle stelle).

Ho detto “provate ad immaginarci”, perché forse così, in quell’atmosfera, si riesce ad immaginare che si stava anche parlando di una stagione di sogni in cui si pensava di poter dare l’assalto al cielo.

Perché comrade Kanu Sanyal si è ucciso? Per la fine di un sogno, forse. Per la stanchezza di una vita spesa nella lotta contro le ingiustizie sociali, forse.

Per motivi che forse non sapremo mai.

Non sappiamo le risposte. Ma forse ci possiamo porre correttamente le domande sulle quali questa morte ci chiede con urgenza di riflettere.

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3 commenti
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  1. Buffone. Utilizzare anche la morte tragica di una persona per promuovere i propri libri. Fai schifo.

  2. In realtà non pensavo a nessuna promozione, come invece ha pensato subito il gentile Daniele Saccari, dimenticandosi del resto.
    Ma se proprio vuole vedere a tutti i costi questo aspetto, allora è meglio che sappia che su quel libro io non vanto diritti d’autore (la stessa cosa che capitò con l’articolo su “Alias”). Insomma, quel libro mi è costato fatica fisica e intellettuale ma nessun ritorno economico.
    Quello che infatti mi interessava era far conoscere al pubblico italiano una vicenda totalmente ignorata nel nostro paese e una situazione di ingiustizie sociali che in India si protraggono e a volte vengono esacerbate nonostante le brillanti performance capitalistiche osannate dai nostri media.
    Evidentemente, per qualcuno è l’unico metro di misura.

    Piero Pagliani

  3. Per evitare che l’inutile “questione promozione” risalti fuori, voglio anche ricordare che in parallelo al libro produssi un documento filmato intitolato “La grazia e la violenza”, proprio sulle lotte dei contadini bengalesi minacciati di esproprio delle loro terre. Quelle lotte che, come ho detto nell’articolo, portarono agli arresti Kanu Sanyal per l’ultima volta nella sua eccezionale vita di militante.
    Ovviamente tale documentario è stato da me dato in forma totalmente gratuita a chi me ne ha fatto richiesta (ultimamente alcuni compagni di Calcutta, un coordinamento di migranti bengalesi e un centro sociale italiano).
    Per quanto riguarda il libro “Naxalbari-India”, che l’editore ne venda una copia, nessuna o centomila, il mio guadagno sarà comunque un eccezionale 0%, perché così è stato pattuito. Alcune decine di copie del libro mi furono invece consegnate dall’editore in “conto vendita”. Sottratte quelle che ho regalato a singoli, biblioteche, centri culturali di sinistra e ad altri che lo chiedevano, forse in effetti sì: ne ho ricavato il viaggio in cuccetta di seconda classe per Naxalbari, l’auto che colà ho affittato per andare nel villaggio di Kanu Sanyal e le 16 ore di viaggio per ritornare a Calcutta con un autobus di linea (un vero trattamento hollywoodiano!).
    Se poi per “promozione” il commentatore intende “invito a leggere il libro”, rispondo: Sì, sì e poi ancora sì.
    Sì, perché quel libro è un atto di denuncia dei costi sociali che stanno dietro lo sviluppo capitalistico indiano qui da noi visto con gli occhiali bifocali del timore e della venerazione. Sì, perché è un appello contro le ingiustizie sociali, un appello in più parti esplicito, come nell’introduzione.
    Non è un caso che documentario e libro siano stati entrambi ignorati o esplicitamente ostracizzati dalla pubblicistica legata ad alcuni interessi costituiti che non è difficile immaginarsi. Un atteggiamento cui fa ora eco un attacco personale, roco e petulante di chi – posso immaginarmi – si reputa molto rivoluzionario. Anzi: il rivoluzionario più puro di tutti.

    Piero Pagliani

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