Il Maghreb brucia?

feb 4th, 2011 | Di | Categoria: Primo Piano

di Piero Pagliani

Pur avendo una certa esperienza internazionale (anche in area mediorientale), non posso definirmi un esperto del Maghreb e di cose egiziane.

E probabilmente è un bene dato che i sedicenti “esperti”, i riconosciuti “esperti”, a mia conoscenza non sono riusciti a prevedere nemmeno con un giorno d’anticipo che tutta quest’area geografica sarebbe stata sconvolta.

Proprio perché non ci sono riusciti e quindi sono poco pericolosi adesso vengono intervistati dovunque per farci dire che la rivolta è scoppiata perché … è scoppiata. Gli strateghi massmediatici, cioè gli strateghi della distrazione di massa, sanno bene come utilizzare le loro armi.

Io non sono un esperto e quindi confesso immediatamente che per adesso non riesco a capire bene cosa stia succedendo.

Ad ogni modo sono visibili almeno due piani in tutti questi eventi. Schematicamente: a) quello popolare e spontaneo e b) quello organizzato, entrambi, a loro volta, ramificati.

Il primo piano è evidente e non sorprende data la ventennale rapina delle risorse egiziane da parte delle istituzioni finanziarie internazionali che in Egitto ha portato tra l’altro alla distruzione di quel che c’era dello stato sociale nasseriano e dato che più di metà della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Cioè si sta assistendo alla rivolta delle vittime del Washington Consensus (che in Italia dal 1992 viene portato avanti specialmente per iniziativa del centrosinistra), che per me è una delle strategie statunitensi per gestire la propria crisi sistemica.

Ma concentriamoci sull’Egitto.

Per quanto riguarda la seconda dimensione, cioè quella organizzativa, ciò che io non sono in grado di valutare è il grado di incidenza in questa rivolta dei Fratelli Musulmani, delle forze che si richiamano al marxismo o, ancora, di quelle che si richiamano ad un nazionalismo di tipo nasseriano. Cioè di quelle forze che in qualche modo e in qualche misura sarebbero “dalla parte del popolo con 2 dollari al giorno”. Si dice che queste forze ci sono. Ma questo è ovvio. Aspettiamo che qualcuno che conosce veramente le cose ce le faccia capire un po’ meglio.

Ciò che si sa invece abbastanza bene è che da tempo gli Stati Uniti danno soldi all’opposizione egiziana tramite USAID e stanno preparando il terreno diplomatico per un ricambio tramite incontri ufficiali con alcuni suoi esponenti. Gli Stati Uniti sono una forza imperiale seria e in quanto tale sono preparati a giocare le loro partite su più tavoli, anche contrapposti.

Questo non vuole assolutamente dire che abbiano istigato loro le rivolte in corso. La rivolta nel Maghreb non ha di certo la stessa natura della “rivoluzione verde” iraniana. Al contrario, vuol dire che queste rivolte gli USA le temevano e quindi si sono attrezzati di conseguenza.

Infatti, per il lato più strettamente organizzativo, che non si può trascurare in fenomeni come questi, purtroppo si stanno ripetendo alcuni schemi già visti e di dubbia natura: le convocazioni tramite Twitter e FB e un grado di capacità di mobilitazione e coordinamento che – proprio al contrario degli esaltati teorici della panzana della “autoconvocazione dal basso” tramite Internet – presuppone invece l’esistenza di forze organizzate.

La stessa grande manifestazione di Martedì scorso lungi dall’essere dimostrazione del grado di propagazione spontanea della rivolta sembrerebbe al contrario mostrare che il piano spontaneo e popolare è forse stato sopravanzato da quello organizzato. E organizzato molto bene. Ma da chi?

L’esercito ha deciso che non reprimerà la rivolta. Stupendo. Ma chi forma i quadri dell’esercito egiziano? O si crede veramente che un esercito armato e addestrato dagli Stati Uniti, incorporato da cinquanta anni nella struttura del potere egiziano, possa decidere da solo di mettere dei fiori nei propri cannoni, oppure questa è una domanda alla quale occorre dare una risposta se si vuole avere qualche indizio in più riguardo la direzione in cui sta andando quel movimento. Per ora può essere utile un vecchio articolo del 2007 dell’Herald Tribune che a proposito della questione allora sollevata della successione a Mubarak recitava: “Alcuni percepiscono il silenzio dei militari come un segno del fatto che essi siano pronti ad accettare un civile alla presidenza, presumendo che la transizione non distruggerà la stabilità della nazione più popolosa del mondo arabo – nonché alleato strategico degli USA in Medio Oriente.”

In definitiva, come in tutti gli eventi di questo tipo ci sono diverse linee di forza organizzative, ideologiche e politiche, ma per ora non è facile capirne il peso relativo e gli scopi.

Sicuramente dietro questi eventi non c’è una forza popolare internazionale organizzata. Un fuoco che in brevissimo tempo si è esteso per mezzo Mediterraneo – e già si parla di Siria e Giordania come prossimi bersagli – se fosse “anticapitalistico” tout court, come si illudono molte persone, presupporrebbe un Comintern con una capacità di azione impressionante. Ma il Comintern non c’è più, nemmeno in una versione ridotta e imbranata. Allora cosa sta succedendo?

Vedremo. Per ora segnalo un articolo di Michael Chossudowsky pubblicato su Globalresearch (http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22993) che conferma e sviluppa queste considerazioni e, forse un po’ ingenuamente, incita i rivoltosi a non fermarsi al dittatore Mubarak ma a colpire gli interessi di chi sta dietro di lui, cioè quelli statunitensi, dell’FMI e della Banca Mondiale, altrimenti sarà tutto inutile.

Michael Chossudowsky è un economista marxista canadese che ha scritto libri interessanti come: “Globalizzazione della povertà e nuovo ordine mondiale” (Edizioni Gruppo Abele, 2003), sugli effetti devastanti delle politiche di Banca Mondiale e FMI.

Per quanto siano ingenue le modalità del suo appello, tuttavia esso è corretto. Tenuto conto di tutte le differenze che è addirittura inutile elencare, mi ricorda in qualche misura la critica di Engels alla Comune di Parigi: non essersi impossessata della Banca di Francia:

I blanquisti erano allora nella maggioranza socialisti soltanto per istinto rivoluzionario proletario; pochi solamente erano arrivati a una maggior chiarezza di principi grazie a Vaillant, che conosceva il socialismo scientifico tedesco. Così si comprende come nel campo economico furono trascurate parecchie cose che secondo la nostra concezione odierna, la Comune avrebbe dovuto fare. Più che mai difficile a comprendersi rimane ad ogni modo il sacro rispetto col quale ci si arrestò con devota soggezione davanti alle porte della Banca di Francia. Questo fu anche un grande errore politico.”

Infatti senza una direzione politica con una visione a 360 gradi difficilmente si è in grado di individuare i meccanismi fondamentali di riproduzione della società capitalistica o del dominio imperialistico. Ed è per questo che le modalità di organizzazione degli eventi sociali, o per lo meno la modalità che prevale, possono gettare luce su quali saranno i loro obiettivi e quale sarà il loro precipitato politico.

Ma questa è solo una parte della storia. Anzi, la prima parte. Può essere che per ora la protesta non riesca ad andare più in là della caduta di Mubarak consentendo un avvicendamento al governo di forze moderate e liberiste come l’opposizione di al-Baradei. E’ tuttavia ben difficile credere che ciò potrà porre rimedio ai disastri di una politica trentennale senza dover operare una netta scissione con i mandanti imperialisti di quella politica.

La Fratellanza Musulmana e le forze di sinistra – che sembrano siano state anch’esse colte di sorpresa – potrebbero decidere per ora di appoggiare dall’esterno questo avvicendamento per guadagnare spazi di agibilità politica e iniziare un lavoro ai fianchi sostenuto da una pressione popolare che non sembra quindi destinata ad esaurirsi (anche se sono da mettere in conto ovvie battute d’arresto).

Anzi, c’è da rilevare che un’estensione del conflitto ad altre aree subalterne agli Stati Uniti non dovrebbe sorprendere. Gli USA per gestire la propria crisi sistemica hanno organizzato forse la più grande rapina mondiale di ricchezza esistente mai vista nella Storia. Ora, dopo la lezione che l’America Bolivariana ha inflitto loro, cercano di anticipare la reazione dei rapinati. In un’area cruciale come il Mediterraneo sono costretti a farlo, facendo anche buon viso a cattivo gioco (anzi, proprio in casi come questi si vede che l’elezione di Obama è stata una mossa giusta da parte degli strateghi statunitensi).

Possono quindi vincere i primi round, ne hanno tutta la forza politica e militare. Ma riusciranno a vincere anche quelli successivi se la crisi sistemica, come sembra, dovesse approfondirsi? E se sì, a quale prezzo?

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