La privatizzazione della vita sociale

mar 27th, 2011 | Di | Categoria: Teoria e critica

Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi con la vittoria dei SI alla strategia di ristrutturazione aziendale voluta da Marchionne, prelude a mutamenti sistemici dell’economia italiana in senso liberista. E’ dunque giunto al suo “naturale” compimento un processo di destrutturazione del modello di economia mista enunciato dalla carta costituzionale, che prevedeva il controllo, l’indirizzo e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’economia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende pubbliche, hanno fatto seguito le riforme strutturali della legislazione del lavoro, con l’introduzione di forme diversificate di lavoro precario, le riforme pensionistiche con l’allungamento della vita lavorativa, le limitazioni della tutela sindacale. La nuova strategia industriale inaugurata da Marchionne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a tutti i settori della produzione. La svolta “Marchionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria di adeguare l’economia italiana alla competitività dei mercati internazionali: pertanto essa comporta l’aggancio dei salari alla produttività, la compressione dei diritti sindacali e l’esclusione dalle trattative aziendali di quei sindacati che non accettino i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, oltre alla abrogazione, nei fatti, del contratto collettivo di lavoro. Il nuovo modello di sviluppo è quindi fondato sulla unilateralità del modo di produzione imposto dalla grande industria e dalle banche in relazione alle condizioni, in termini di produttività e competitività poste dal mercato globale. In realtà, quali che siano le prospettive di sviluppo della Fiat – Chrysler, certo è che l’economia italiana ed europea non potrà mai essere competitiva con quella cinese e/o asiatica, data la minima incidenza del costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai lavoratori europei. Si è comunque determinata una svolta epocale nei rapporti di produzione: è scomparsa la funzione di mediazione dello Stato nei rapporti tra le parti sociali (il governo ha peraltro sostenuto la strategia di Marchionne), si è svuotato di contenuto il ruolo dei sindacati, quale controparte rappresentativa dei lavoratori nelle trattative con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di Marchionne), si dissocia dalla propria associazione sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio contratto di lavoro. I costi sociali di tale trasformazione del modello economico, in termini di salario, tutela sindacale, occupazione, qualità della vita, sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre evidenziare come la ristrutturazione industriale imposta da Marchionne si realizzi nel contesto di una fase storica in cui si verifica nella società italiana una trasformazione sociale e culturale che potremmo definire “privatizzazione della vita sociale”. Infatti, nell’ambito della giustizia civile l’orientamento riformatore è quello di sviluppare la pattuizione privata, la conciliazione, un tipo di contrattualistica in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti. Nel campo penale, la depenalizzazione di molte fattispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggiamento, sono fenomeni di analoga ispirazione. Nello stesso diritto del lavoro tutta la legislazione sul lavoro precario e flessibile, è, nei fatti, sostitutiva dei principi della contrattazione collettiva, e della stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri settori (vedi il tessile), prima del “modello” Marchionne si sostituirà nel tempo la contrattazione privata individuale. Sta emergendo un processo riformatore in cui gli organi legislativi e giurisdizionali dello Stato vengono estraniati dalle loro funzioni istituzionali: il legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento dello Stato come fonte normativa primaria e devolvendo alla sfera privatistica la regolazione dei rapporti tra le parti sociali, il giudice è destinato asvolgere una funzione giurisdizionale limitata alla legittimità, estraniandosi cioè dal merito delle controversie tra i cittadini.

Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servire da bussola concettuale per una corretta ricostruzione storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica diventa impossibile opporvisi se non in modo puramente lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giornalisti e clero universitario parlino di “responsabilità sociale dell’impresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti, ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare un poco più in profondità.

In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma anche concettualmente inconcepibile. Questo non significa affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. E’ interessante che lo stesso termine latino privatus non alludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”, ma indicasse al contrario l’operazione di “priva- zione” dal godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus, che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato” volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico” alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes) non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo per uno spaesamento concettuale necessario per farci relativizzare i significati attuali dei termini, che sono storici e non “naturali”.

Il modello politico e sociale della polis greca classica era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, vedendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fusione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illimitata di valore, infatti, permette di incorporare integralmente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno del processo di alienazione, cioè di espropriazione integrale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.

Questo – val la pena ripeterlo senza stancarsi – non comporta assolutamente conclusioni ‘’nostalgiche” nei confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orientale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta individuazione della genesi storica della società caratterizzata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventata scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visibilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della natura del precedente illuminismo (Aufklärurng). Ciò che cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è appunto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista integralmente individualistico e privatistico dell’empirismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente.

Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco, e soltanto dopo, quello dell’empirismo inglese, in modo che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia maggiormente visibile. Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, degli esiti della critica illuministica appare già chiaro al primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese culturali Eugenio Scalfari), Fichte considera l’illuminismo in termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi ancora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile (e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legittimata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che invece caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazione (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire, perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, romaniche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria, aveva comportato uno stato di anomia individualistica, di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che Fichte definì in termini di “epoca della compiuta peccaminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di interpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte e di Hegel, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirittura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali e postmoderni.

Ci sono molti modi alternativi di esporre e di riassumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno comparativamente e contrastivamente migliore degli altri: Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mondo migliore la distinzione e nello stesso tempo la complementarietà convergente del Privato e del Pubblico, ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero – come può essere agevolmente dimostrato – partendo da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione della vita sociale. E’ utile ripercorrere sommariamente il suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti interamente legittimi.

Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto sociale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturalismo ed il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo. Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la nostra postuma ammirazione.

Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’origine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappone ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in termini di perdita e di successiva ricomposizione di un Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfondire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre una totalità organica originaria decaduta (Lucio Colletti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnaturalistiche astoriche. Hegel critica la teoria del contratto sociale per le stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto originario, ma all’origine la società si è costituita sulla base di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra

servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Privato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazione di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito biblico del peccato originale, radice unica di tutte le successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta Marx in termini di secolarizzatore utopico della escatologia giudaico-cristiana (ad esempio Löwith, ed oggi la stragrande maggioranza della filologia universitaria sia moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al contratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile) dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente Fine prefissato.

Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esattamente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico interviene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pedofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non può che avere un carattere pubblico. La stessa società civile fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento della professionalità e l’assistenza pubblica non possono essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo compassionevole”.

Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra (hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come minimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo privatizzatore. E’ invece utile esaminare la corrente dell’ empirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno.

Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’essenziale ereditata da Marx nella forma del superamento-conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da una tendenza di privatizzazione individualistica integrale del pubblico). L’origine sta forse in una particolare secolarizzazione del calvinismo, una forma di religione che tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologia dell’arricchimento privato come segnale della elezione divina. Ma già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo sociale per la divisione giusta ed armonica del potere e delle ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà privata è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico di progressiva privatizzazione di una precedente comunitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi “robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson Crusoè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisica di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione gnoseologica, è una metafora politica per la negazione di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David Hume, e nel suo particolare modo di respingere il contratto sociale che nelle concezioni del tempo era considerato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel (e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica della convivenza umana perchè considerava il contratto una istituzione puramente privatistica, non adatta a fondare concettualmente la società umana (rifiutando così la concezione della società umana come rete contrattuale di individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla socialità costituenti), Hume considera il

contratto sociale inutile, dal momento che la società si istituisce spontaneamente senza contratto sulla base delle attese di scambio reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accetterà integralmente questa autofondazione dell’economia su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione del primato dell’economia in dittatura totalitaria della crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia, capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono sostenere che la critica di Hume alla categoria di causalità non nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale accorgimento gnoseologico. In questo modo, la privatizzazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile primato del modello neoliberale di economia su tutti gli altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio dei mercati, eccetera).

E’ interessante che nell’ultima opera di Toni Negri, questo giocoliere che ricava il suo comunismo anarchico dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica, ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pubblico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune” attinto direttamente da individui onnipotenti animati da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalorizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’idealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un andamento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che resta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo), quanto da una più modesta sociologia degli intellet- tuali accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali commentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Obama e del modello neoliberale dì gestione “democratica” del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci costringono a sopportare impotenti questa dittatura della manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una congiuntura temporanea.

2. Dalle precedenti considerazioni, deriva necessariamente l’affermarsi di una nuova struttura della società, caratterizzata dalla frammentazione dei rapporti sociali, tramutatisi in rapporti privati e dal venir meno dei corpi intermedi rappresentativi della categorie produttive, della classi sociali, degli interessi legittimi della collettività. I rapporti privatistica, sono per loro natura avulsi dai fondamenti etici, da principi cioè generati dalla interdipendenza delle idee e delle condizioni sociali tra gli individui, che costituiscono il legame obiettivo ed interpersonale alla base di qualsivoglia rapporto comunitario tra i singoli. Il rapporto privato è necessariamente estraneo alla dinamica dei rapporti sociali e pertanto trae la sua origine da interessi individuali: è per sua natura un rapporto che si realizza su basi economiche. E’ facile quindi comprendere come tali rapporti siano improntati al prevalere della forza economico – contrattuale di una delle parti e come una società fondata sull’individualismo privatistica, non possa che produrre squilibri sociali e disuguaglianze endemiche. Gli attuali mutamenti dei rapporti economici in Italia non potranno che incidere profondamente sull’assetto politico – istituzionale. Invero, è ormai la prassi, intesa come insieme di forze trasformatrici nell’ambito economico e sociale ad imporre cambiamenti sistemici nella società. In via di principio, tale processo di rinnovamento è congenito allo sviluppo di nuove forme di equilibri sociali che scaturiscono dal venir meno del rapporto di reciproca interazione e rappresentatività tra istituzioni politiche e società civile. Pertanto, all’esaurimento di una fase storica, farà seguito l’inizio di nuovi processi di sviluppo, creati da nuove classi dirigenti legittimate da nuovi equilibri politico – sociali. Ad un vecchio ordine, si dovrebbe contrapporre l’emergenza di nuove forze sociali che si impongono nella

società civile. Ma il presente processo di trasformazione che si impone nella società civile, è estraneo all’ordinamento istituzionale. Esso non si rivolge contro lo Stato, ma si afferma al di fuori e al di là dello Stato. Quello attuale è un modello di sviluppo che riforma la società estraniandosi dallo Stato (cioè dalla sfera politica e culturale). Siamo dinanzi all’avvento di riforme strutturali in completa assenza dello Stato. In realtà il rinnovamento della società è imposto non dal concorso delle forze sociali e produttive presenti nella società, ma dalla invasività di forze economiche che si impongono nel mercato globale. L’unilateralità e l’autoreferenzialità del capitalismo attuale non si identifica quindi con una prassi emergente dai rapporti politico – sociali presenti nella società, ma con una prassi di dominio economico del mercato che si impone alla società civile, che a sua volta si tramuta quindi in “società di mercato”.

Ha scritto recentemente Alain de Benoist (cfr. Elements, n.138, gennaio-marzo 2011): “Oggi il denaro raccoglie l’unanimità. Da tempo, la destra se ne è fatta schiava. La sinistra istituzionale, con la copertura del “realismo”, si è rumorosamente allineata all’economia di mercato, cioè alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è diventato onnipresente”.

Ho cercato di dimostrare nella mia prima risposta che quella che tu correttamente chiami “privatizzazione della vita sociale”, oggi minimo comun denominatore di tutte le destre e di tutte le sinistre istituzionali (ma anche culturali, editoriali, giornalistiche ed universitarie), trova la sua radice ultima nella prevalenza progressiva del modello dell’empirismo inglese sul modello dell’idealismo tedesco, e che fino a quando questa prevalenza non sarà rovesciata saremo condannati a muoverci in un mondo di simulazioni e di chiacchiere secondarie, infarcito di moralisti, giornalisti, magistrati e soprattutto puttane e travestiti.

In questa seconda risposta, dopo aver dedicato la prima agli aspetti storici principali, mi limiterò ad esaminare il “lato sinistro” di questa convergenza al modello liberale dalla riproduzione sociale. Il discorso sarebbe lunghissimo, ma lo limiterò a discutere le tesi di quattro soli studiosi, e cioè Amadeo Bordiga, fondatore nel 1921 del comunismo italiano, Augusto Del Noce, grande filosofo cattolico italiano, ed infine la tesi dei due sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiapello.

Non è certamente questa la sede per un bilancio storico e teorico dell’attività di Amadeo Bordiga (1889-1970), che resta una delle figure più interessanti dell’intero novecento italiano se non altro perchè visse all’insegna della solitudine dell’incomprensione delle maggioranze conformiste che si credono informate ed intelligenti. Qui segnalerò un unico aspetto del suo pensiero, il rifiuto di incorporare la critica al capitalismo, all’interno dell’antifascismo, e soprattutto la piena comprensione del fatto che di per sé l’antifascismo (particolarmente quando diventa una “religione civile” cerimoniale di legittimazione in conclamata assenza di fascismo propriamente detto) è sempre e soltanto una forma di liberalismo, sia pure di “sinistra”, ed è pertanto impossibile fondare sull’antifascismo il socialismo ed il comunismo. Quanto dico non ha ovviamente nulla a che fare con la legittima valutazione storica e storiografica sia dei fascismi (al plurale) sia degli antifascismi (al plurale), ma deve essere ferreamente limitato al solo contenuto della tesi bordighiana, per cui l’antifascismo è sempre e soltanto una variante ideologica del liberalismo, ed in esso deve inevitabilmente cadere prima o poi in modo gravitazionale. Per capire la tesi di Bordiga è necessario, soprattutto in Italia, un doloroso riorientamento gestaltico globale, in quanto in superficie le cose sembrano proprio essere rovesciate, dal momento che dopo il 1945 l’antifascismo è stato praticato soprattutto come copertura e mascheramento ideologico di legittimazione del comunismo italiano, consapevole della ristrettezza della sua base di consenso in base a cose come la dittatura del proletariato o il sociologismo operaista. Ma questa, appunto, è la superficie e non la profondità. In realtà

l’insistenza sul minimo comun denominatore antifascista del patto costituzionale degli ita- liani non portava che superficialmente ad una legittimazione dei comunisti, visti come parte integrante e maggioritaria del partigianato resistenziale antifascista, in quanto agiva in profondità (e gli ultimi decenni lo hanno dimostrato senza ombra di dubbio) come critica di tutte le “dittature” e come apologia del solo sistema liberale. La logica dell’antifascismo non portava dunque verso Lenin e neppure verso Gramsci, ma portava inevitabilmente verso la teoria delle regole del gioco di Norberto Bobbio o verso la critica del totalitarismo di Hannah Arendt. Soltanto il lungo periodo nella storia permette di giudicare veramente la preveggenza strategica delle grandi ipotesi teoriche, e oggi (2011) possiamo dire che il rifiuto dell’antifascismo di Bordiga era appunto preveggente, perchè intuiva precocemente il nesso organico fra antifascismo e liberalismo, al di là delle congiunturali strategie di legittimazione del PCI fino al 1991.

A proposito di Augusto Del Noce, non c’è figura tanto diversa ed incompatibile con quella di Amadeo Bordiga. Eppure Del Noce è stato uno dei pochissimi pensatori italiani che abbiano saputo andare al di là della superficie polemica a rapidissima obsolescenza, e che abbiano individuato la natura profondamente nichilistica dello storicismo assoluto italiano, che il comunismo in Italia assunse in una forma solo superficialmente riverniciata a “sinistra”. Giovanni Gentile e Benedetto Croce avevano infatti radicalizzato l’impostazione storicista di Hegel, togliendole quegli aspetti logici ed ontologici che ad esempio aveva saputo conservare il Lukàcs dell’Ontologia dell’Essere Sociale, per cui lo scorrimento progressistico in avanti del tempo storico diventava il solo fondamento di legittimazione della causa del superamento del capitalismo. Si aveva così, sempre nel linguaggio di Lukàcs, una “storia spogliata della sua forma storica”, in cui la vittoria e la sconfitta empiriche di una causa politica diventavano il solo criterio per un corretto orientamento storico. Il comunismo, quindi, diventava legittimo solo in quanto vinceva. Se avesse cominciato a perdere, sarebbe stato legittimo e doveroso abbandonarlo, rinnegarlo e cambiare di campo. A fianco del carattere nichilistico e relativistico dello storicismo, Del Noce rilevava con profetica intelligenza che il progressismo storicistico sarebbe inevitabilmente sfociato nella confluenza in una società dei consumi individualistica, per cui l’esito neoliberale era diagnosticato in modo certo molto diverso da quello di Bordiga, ma in definitiva l’approdo era lo stesso.

I sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiapello hanno proposto una convincente periodizzazione del capitalismo, che non potrò però tuttavia esaminare in questa sede per ragioni di spazio. Il solo aspetto della loro trattazione che esaminerò qui è la loro teoria della genesi, sviluppo ed esito della cosiddetta “sinistra”. Essi rilevano che nel periodo storico che va grosso modo dal 1871 al 1968 la “sinistra” si era costituita sulla base di una alleanza fra una critica economico-sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo, di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, ed una critica artistico- culturale all’ipocrisia della morale della borghesia, di cui erano invece titolari appunto gli intellettuali di “avanguardia”. Questa alleanza durò fino al Sessantotto (da non confondere con gli empirici eventi dell’anno 1968), in cui il capitalismo cominciò a sviluppare una logica riproduttiva post-borghese (e quindi inevitabilmente anche post-proletaria, dal momento che borghesia e proletariato sono opposti dialettici in correlazione unitaria essenziale, e non c’è l’uno senza l’altra), liberalizzando integralmente il costume e le forme di vita vetero-borghesi. Il liberalismo vinse così direttamente all’interno del ceto degli intellettuali, sempre più “creativi” e “postmoderni”, mentre la vittoria sul proletariato venne realizzata con l’indebolimento della sovranità monetaria dello stato nazionale, la globalizzazione, l’economia del debito, eccetera.

In questa sede, non mi interessa “coerentizzare” le rispettive tesi di Bordiga, Del Noce e Boltanski-Chiapello. Sarebbe certamente possibile farlo, ed in questo modo si mostrerebbe alla luce del giorno che i processi di integrazione subalterna neoliberale della

“sinistra” non sono affatto casuali o semplice frutto di un “tradimento” o di semplice corruzione monetaria dei suoi dirigenti ed intellettuali (anche se anche gli alti redditi certa- mente “aiutano”), ma sono il risultato di processi storici maestosi di lunga durata, uniti ad una stupidità ed ingenuità ideologiche sbalorditive, che risultano però visibili soltanto al “crepuscolo”, quando cioè si leva la hegeliana nottola di Minerva della consapevolezza storica.

I rilievi che tu fai a proposito di un processo di trasformazione che non si rivolge tanto contro lo Stato quanto al di fuori ed al di là dello Stato sono quindi assolutamente corretti e pertinenti, e trovano la loro logica di spiegazione soprattutto nella dinamica della privatizzazione della vita sociale da me (e da te) esaminata nella prima risposta. La “sinistra” vi aderisce non solo per la sua tradizionale subalternità politica e culturale, esito della storica inferiorità dei dominati rispetto ai dominanti, ma perchè in essa la componente anarchica anti-statuale si è alla fine affermata contro la componente che tendeva ad una “egemonia” alternativa a quella dei dominanti stessi. Non si tratta più però dell’anarchismo storico dei braccianti andalusi o degli artigiani svizzeri, ma del nuovo anarchismo postmoderno dei ceti intellettuali parassitari, che è sempre e soltanto una variante spocchiosa e snob dell’individualismo liberale. E’ questa la ragione per cui è diventa storicamente obsoleta la pur generosa difesa di Bobbio dell’identità differenziale della Sinistra rispetto alla Destra in base all’idealtipo pratico dell’eguaglianza. Per essere praticata e non restare un’ipocrita parola vuota, l’eguaglianza ha appunto bisogno della sovranità politica di forze sociali che si coagulano necessariamente anche intorno ad una statualità decisionale. Il libero gioco sovrano delle forze economiche produce soltanto incremento della diseguaglianza. Noi ci troviamo oggi in questa situazione, e l’approdo ideologico neoliberale della “sinistra” è un fattore aggiuntivo del blocco di fronte a cui ci troviamo. Lo stesso esito giudiziario della sinistra anti-berlusconiana in Italia, ridotta a spiare dal buco della serratura della villa di Arcore, rivela la natura privatistica cui è ridotto il conflitto politico oggi. Non ne verremo fuori presto, purtroppo.

3. Il nuovo modello di sviluppo, in realtà nuovo non lo è affatto, il suo avvento in Italia e in Europa è dovuto alla esportazione di esso dagli USA. L’estensione del modello economico globalizzato all’Italia e progressivamente all’Europa dilaniata dalla crisi del debito, rappresenta semmai l’omologazione ad un americanismo, concepito come sistema globale non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e culturale. E’ ormai scontato affermare che la stessa economia di mercato conduce necessariamente alla società di mercato, nel senso che tutte le relazioni umane si conformano alla prassi economica della concorrenza e del libero mercato. La globalizzazione conduce quindi alla totalità globale del sistema economico, in quanto quest’ultimo coinvolge nella sua logica estensiva tutta l’esistenza umana. Non resterebbe dunque altro orizzonte esistenziale per l’uomo che quello costituire una risorsa umana idonea a creare valore nel sistema produttivo, pena l’impossibilità di sopravvivenza. Il sistema economico liberista globale abbisogna di continue innovazioni, ristrutturazioni industriali, mobilità estrema delle risorse produttive, allo scopo di adeguarsi continuamente agli standard di produttività e competitività emergenti dal mercato. Pertanto, il lavoratore è soggetto ad una instabilità permanente, a vivere come uno stato quotidiano di normalità quelle condizioni di emergenza e di precarietà che in passato erano proprie di periodi temporanei (anche se prorogati nel tempo) di gravi crisi economiche, o di eccezionalità dovute a calamità naturali, guerre, carestie straordinarie generalizzate. Tali condizioni sono rilevabili nella storia in concomitanza dei periodi post – bellici o post – rivoluzionari, ma le situazioni di emergenza erano però percepite come fasi necessariamente propedeutiche a future prospettive di sviluppo e/o alla edificazione

di una nuova società, alla realizzazione cioè di società ideali incardinate su valori umani immanenti alla storia. Di immanente nella società globalizzata c’è invece solo la precarietà e l’incubo del futuro prossimo. La precarietà è infatti una condizione che coinvolge la totalità sociale e quindi, oltre che i lavoratori subordinati, anche il menagement, che, allo scopo di rendere l’impresa flessibile alle esigenze della competitività del mercato globale, assume una struttura dinamica e flessibile, nelle tecniche di produzione, nella delocalizzazione degli impianti, nell’impiego delle risorse. La vecchie grandi concentrazioni industriali, hanno da tempo ceduto il passo alla frammentazione in una miriade di newco delocalizzate, ognuna legata ad un progetto di sviluppo a breve termine. In tale contesto, sia il manager che l’operaio sono accomunati da un destino precario permanente, quali risorse umane fungibili, impiegabili in un progetto a breve termine. La concorrenza selvaggia del nuovo capitalismo non genera l’eccellenza delle tecniche di produzione, né nuovi investimenti, la cui ricaduta sociale produrrebbe miglioramenti del tenore di vita dei lavoratori, ma solo tecniche di sopravvivenza di tutti i propri componenti, la cui esistenza è direttamente dipendente dai progetti industriali a breve termine. Allo stesso modo, se la concorrenza del vecchio capitalismo industriale doveva, almeno in teoria, generare, attraverso una selezione darwiniana, l’eccellenza delle capacità imprenditoriali e delle conoscenze innovative in campo tecnico e scientifico, il nuovo capitalismo ha sostituito il mito prometeico della conquista di sempre nuovi orizzonti del progresso e della civilizzazione umana, con la capacità di sopravvivere alla emergenza connaturata alle condizioni di precarietà permanente. La “strategia di sopravvivenza”, come definita da Lasch, produce individualità deboli, ma perfettamente omologabili ai mutamenti ciclici dei mercati e comunque integrabili in un modo di produzione che non richiede stabilità e finalità umane ulteriori alla logica della sopravvivenza, cui è legato l’intero sistema. Il senso dell’essere è sostituito dalla “strategia di sopravvivenza”.

Le tue considerazioni sulla centralità della precarietà del lavoro oggi, e sul fatto che da categoria puramente economica attinente il mercato del lavoro (l’economia di mercato) essa sia diventata una categoria antropologica generale attinente la riproduzione sociale complessiva (la società di mercato) sono convergenti con quelle di un recente saggio di Eugenio Orso (cfr. Alienazioni e Uomo Precario, prefazione di Costanzo Preve, editrice Petite Plaisance, Pistoia 2011). Dal momento che ritengo che Orso abbia individuato il centro del problema, assai meglio di quanto fino ad ora fatto dalla sociologia universitaria italiana, non farò considerazioni ulteriori, inevitabilmente pleonastiche, ma mi concentrerò su di un solo punto, che d’altronde tu indichi con chiarezza, e cioè il rapporto stretto fra modello della precarietà generalizzata ed americanizzazione di tutti i rapporti sociali.

Così come oggi noi la conosciamo, la globalizzazione è inseparabile dal dominio geopolitico, finanziario e militare dell’impero USA. Certo, in teoria una diversa globalizzazione interamente policentrica sarebbe concepibile, ma in pratica il modello attuale di globalizzazione sotto dominio militare e finanziario americano è l’unico concretamente esistente, ed è impossibile parlare di Italia e di Europa senza partire dal fatto che l’Italia e l’Europa sono militarmente occupate da basi militari USA dotate di armi atomiche, essendo da tempo venuto meno il pretesto della loro permanenza (e cioè il contenimento del comunismo sovietico). Per questa ragione un approccio puramente economico, dei problemi (il “ricatto Marchionne”, eccetera) è del tutto insufficiente, e rischia anche di diventare un alibi per evitare la presa in considerazione lucida del problema.

Da qualche tempo, l’ex-marxista (ed ora apertamente post-marxista) Gianfranco La Grassa ha cambiato di nome il suo blog, passando da “Ripensare Marx” a “Conflitti e

Strategie”. Tre parole dicono tutto, perchè il quasi cinquantennale viaggio di La Grassa dentro il pensiero di Marx (modello di serietà rispetto alla retorica vuota di personaggi come Ingrao, Rossanda, Bertinotti, Vendola, eccetera) è sfociato nella considerazione esclusiva dei conflitti e delle strategie geopolitiche. Qui certamente ha giocato un ruolo anche il rifiuto althusseriano della categoria di alienazione, messa invece al centro del discorso dal saggio Orso, ma ritengo personalmente errato e fuorviante insolentire La Grassa per aver preferito il vecchio porco puttaniere Berlusconi (considerato geopoliticamente il “male minore” in quanto legato all’ENI, a Putin ed a Gheddafi) alla “sinistra”, che si è data come direzione strategica il gruppo editoriale Scalfari-De Benedetti, e che ha abolito il popolo, accusato surrealmente di “populismo”, sostituendolo con un’Armata Brancaleone di Santoro, Saviano, popolo viola e cortei di femministe indignate. Al di là di pittoresche polemiche, inevitabilmente sopra le righe, ci sta qui un problema teorico serio: fino a che punto l’esclusiva considerazione geopolitica dei fatti economici, politici e sociali può di fatto “cancellare” la concreta esistenza di sfruttati e di sfruttatori, e del fatto che per il punto di vista degli sfruttati bisogna perlomeno conservare un “occhio di riguardo”?

E’ impossibile dare una ricetta generale ed evitare il giudizio tattico caso per caso. Ma cercando di impostare il problema in modo teoricamente dignitoso, direi che la deriva di La Grassa può essere evitata soltanto riconoscendone parzialmente il nucleo razionale che l’ha causata e cioè il fatto che talvolta nella storia la semplice contrapposizione polare Lavoro Salariato-Capitale non ci permette di fare luce sulla concreta congiuntura storica in cui ci troviamo, se questa congiuntura storica è caratterizzata da una particolare “sovradeterminazione” geopolitica. Personalmente, non penso affatto che i capitalismi brasiliano, cinese o indiano siano moralmente migliori e preferibili a quello americano (di cui l’Europa è oggi solo una miserabile appendice priva di sovranità militare e soprattutto mediatica e culturale). Penso però (e qui concordo con la rivista “Eurasia”, con La Grassa e soprattutto con Alain de Benoist, oltre che con la stragrande maggioranza dei rivoluzionari detti “terzomondisti”, arabi in primo luogo) che il sistema del precariato generalizzato, fondato sull’economia del debito e del ricatto (un ricatto molto maggiore del cosiddetto “ricatto Marchionne”), sia per ora coordinato a livello internazionale dall’impero militare USA, che è per questa ragione il nemico principale. Non possiamo ignorare che esiste una “catena dei perchè” e che bisogna risalire sempre all’anello principale della catena, che tiene tutti gli altri. Non è obbligatorio essere contro l’alienazione ed il lavoro precario. Esiste sempre la filatelia, la pesca con la lenza e la pedofilia telematica. Ma se invece si decide di battersi contro la prima, allora gli USA restano il nemico principale, ed anche da La Grassa è possibile imparare qualcosa, pur non seguendolo nelle sue allucinazioni scientistiche ed anti-umanistiche.

4. La estrema mobilità virtuale del mondo dell’economia globalizzata, cela in se una sostanziale immobilità di fondo. Esso riproduce eternamente se stesso, è immutabile nelle sue leggi economiche, nei suoi parametri di analisi delle situazioni storiche e geopolitiche dei popoli, nelle sue soluzioni alle crisi ricorrenti: esso sana i suoi mali con le terapie che hanno provocato la patologia stessa. Il mondo globalizzato non è aperto alla innovazione e alla diversità, ma al contrario si presenta chiuso ad ogni possibilità di mutamento dei propri orizzonti, non integra le specificità e le identità diverse da se stesso, ma, al contrario ha la funzione di soppiantare popoli e culture. Nel contesto di una visione storico – filosofica distaccata dall’immediatezza dell’attualità del presente, il capitalismo odierno è un mondo, inteso in senso hegeliano, come “unità dinamica di una totalità di elementi”. Il mondo del capitalismo è infatti costituito da una serie di elementi storicamente contingenti, ma che vengono resi coerenti da un sistema concettuale unitario, in cui

la storia e il divenire dell’uomo risultano inglobati in una logica che necessariamente conduce alla realizzazione compiuta del “mondo” capitalista. Esso è autoriflessivo nei propri postulati sistemici, in quanto non può esistere storia passata o futura che non venga integrata nella logica del proprio sviluppo. Esso non concepisce trasformazioni storico – politiche estranee a se stesso, in quanto qualsivoglia fenomeno viene ricondotto ad una diversità interna e coerente con i presupposti del suo sistema. Esso riproduce eternamente se stesso nel tempo storico e nello spazio geopolitico globale, in quanto ogni alternativa ad esso viene ridotta a momento contingente del proprio sviluppo intrinsecamente unitario. Da una obiettiva analisi del “mondo” capitalista, non può che scaturire una visione del capitalismo stesso, come un mondo chiuso, un fenomeno compiuto e storicamente ormai esaurito, incapace di rapportarsi dialetticamente ad elementi ad esso estranei e/o contrapposti con cui confrontarsi, e, la sua stessa capacità di autoriproduzione è oggi fortemente messa in dubbio dalla crisi sistemica dell’economia del 2008, dinanzi alla quale non sa proporre altre soluzioni che vadano oltre la riproposizione di quella economia finanziaria che ha determinato il suo temporaneo collasso. Dinanzi ad una mondo che ha ormai concluso il suo percorso storico, della cui crisi irreversibile occorre prendere atto, è necessario non farsi coinvolgere nei limiti ristretti della condizione umana del nostro tempo. Occorre semmai riscoprire i presupposti della condizione storica in cui ci è dato di vivere, poiché un mondo chiuso nella riproduzione di se stesso non può più produrre storia. Bisogna concepire il proprio pensiero come un termine dialettico di confronto e di opposizione ad un sistema – mondo unitario, non perché universale, ma solo unilaterale ed autoreferente. L’imperativo morale del presente è dunque “vivere oltre le condizioni del nostro tempo”. Occorre allora elaborare soluzioni che concepiscano orizzonti al di là ed al di fuori del mondo del capitalismo. Vivere oltre il proprio tempo non significa tuttavia estraniarsi dal presente storico. La realtà obiettiva del mondo capitalista deve semmai costituire il necessario termine di riferimento dialettico con cui confrontarsi e valutare criticamente la compatibilità del proprio pensiero e delle prospettive di superamento della condizione coattiva del presente, sempre in relazione alla realtà storica contingente del nostro tempo.

La tesi da te esposta in questa tua quarta domanda coincide nell’essenziale con la tesi recentemente sviluppata in modo analitico da un saggio di Diego Fusaro (cfr. Essere senza Tempo, Bompiani, Milano 2010) e questo non é un caso, perchè segnala che comincia ad esserci una percezione diffusa del fenomeno storico-politico cui fate entrambi riferimento. Dal momento che la condivido interamente, specialmente nella chiara forma sintetica con cui tu la riassumi, ritengo inutile parafrasarla in vari modi, mentre è più utile riprendere brevemente il metodo storico da me già sviluppato nella mia prima risposta, in cui cercavo le radici storiche alternative per spiegare il fenomeno da te indicato come “privatizzazione della vita sociale”, che è effettivamente il cuore della questione storica e politica che si tratta di contrastare, sia pure con le nostre debolissime e per ora quasi invisibili forze.

Risalendo al settecento, secolo decisivo per la formazione dell’immagine del mondo contemporaneo, ci accorgiamo che la legittimazione ideologica dei nuovi rapporti di produzione capitalistici (con la classe borghese come portatore storico ed economico, nel linguaggio di Marx Träger) viene argomentata in due modi diversi, in base al progresso storico (e quindi al parametro della temporalità storica come fondamento di legittimazione in ultima e decisiva istanza) ed in base alla mera naturalità sociale da restaurare contro un presunto “artificialismo” feudale e signorile. Le due strategie di legittimazione, se vogliamo usare una metafora militare, “marciano separate e colpiscono unite”, ma oggi ci rendiamo

conto che nella complessa dialettica storica ed ideologica la seconda sta prevalendo sulla prima, e bisogna allora capire bene il perchè. La legittimazione della nuova società borghese-capitalistica attraverso il concetto di progresso resta ovviamente la principale, ed in ogni caso la più “visibile”. Il progresso (si veda in particolare Condorcet) viene visto come aumento del dominio tecnico e scientifico dell’uomo sulla natura (il che comporta fisiologicamente come suo opposto complementare anche una riscoperta della “natura” in quanto tale), unito ad un incivilimento dei costumi individuali e sociali, laddove questo secondo processo di incivilimento è pensato nella forma dell’ideale regolativo illimitato che non può però mai asintoticamente raggiungere un fine ultimo (Kant). In forte contrasto con la saggezza greca, basata sul concetto di “limite” (peras), qui si è invece di fronte alla centralità fondativa dell’illimitato, e niente mi toglierà mai dalla testa che questa fondazione filosofica del progresso illimitato come idea regolativa non sia che il raddoppiamento nel cielo delle idee del carattere potenzialmente illimitato della produzione capitalistica, al di là della “falsa coscienza necessaria” dei teorici che la stavano elaborando. Qui è decisivo il carattere contrastivo con la precedente legittimazione ideologica signorile e feudale, basata invece sul carattere sacrale e divino (e quindi non “progressistico”) del potere e sulla riproduzione ciclica di una economia fondata sull’agricoltura e sulla estorsione regolata dalla rendita fondiaria.

Se esiste un sintomo decisivo per comprendere il carattere penosamente subalterno del marxismo storico, che rimanda ovviamente al carattere subalterno delle sue classi di riferimento popolari, proletarie, operaie e salariate, esso sta appunto nel fatto che esse recepiscono quasi integralmente la teoria borghese-capitalistica del progresso storico, senza vederne in alcun modo il suo carattere intimamente borghese. Il fatto che alcuni intellettuali di orientamento marxista e socialista (cito qui soltanto Georges Sorel e Walter Benjamin) abbiano cercato invano di trovare un fondamento alternativo a quello del progresso per legittimare una concezione anticapitalistica del mondo, e che questi tentativi siano sempre stati regolarmente respinti, spesso diffondendo il sospetto che si trattasse dì astute strategie di “infiltrazione” della cultura antiprogressista della “destra” eterna, ci segnala come il mantenimento della dicotomia rigida Destra/Sinistra non sia affatto stata innocua e marginale, ma abbia funzionato da ostacolo “ostativo” al chiarimento della questione.

E tuttavia, a fianco della legittimazione “progressistica” dominante, è sempre esistita una legittimazione “naturalistica” della produzione capitalistica in base al ritorno alle vere leggi della natura. Su questo punto la scuola francese dei fisiocratici e la scuola inglese dell’economia politica (Hume e Smith soprattutto) hanno sempre avuto posizioni comuni, al di là dell’importanza differenziata data rispettivamente all’agricoltura oppure all’industria. Mentre nella concezione progressistica la temporalità veniva investita di un significato migliorativo ed ascendente, nella concezione naturalistica la temporalità era fortemente ridimensionata rispetto all’obbedienza alle (presunte, ed in realtà inesistenti) leggi della natura. Il successivo positivismo ottocentesco (cui il marxismo storico realmente esistito fu sempre e soltanto una variante ideologizzata di “sinistra”) cercò di unire insieme il concetto di progresso con il concetto di decisività della “legge”, estesa ed estrapolata dalla natura alla società. Ma ci sta qui una contraddizione logica, perchè se una “legge” è veramente tale (ad esempio, la presunta legge della domanda e dell’offerta come fondamento della riproduzione sociale e comunitaria), essa lo è in modo assoluto, e non relativo allo scorrimento della temporalità storica, progressistica o decadentistica che la si voglia. Gran parte della filosofia novecentesca deve essere interpretata come segnale, sia pure incerto e contraddittorio (dovuto all’ipocrisia degli apparati ideologici, universitari, sempre e comunque “clero” secolarizzato del potere), del fatto che è assolutamente incompatibile sostenere contemporaneamente che il capitalismo è un vettore del progresso storico e

sociale e che è invece ferreamente dipendente dalle leggi naturali di riproduzione del sistema economico. L’immobilità di fondo che segnalate sia tu che Fusaro deve quindi essere interpretata non tanto come una vittoria finale della tesi naturalistica su quella progressistica (anche se questo aspetto è il più visibile in superficie nel chiacchiericcio mediatico di giornalisti ed economisti), ma come il riflesso ideologico sovrastrutturale dell’approdo della produzione capitalistica globalizzata ad una fase “speculativa”, che si lascia alle spalle le precedenti fasi astratta e dialettica (non ripeto qui per ragioni di spazio la mia tesi periodizzante del capitalismo, già ampiamente esposta altrove), in quanto questa fase speculativa implica un grado, altissimo di destoricizzazione e di desocializzazione, quella appunto che tu hai brillantemente definito la privatizzazione della vita sociale. E’ anche legittimo ipotizzare, come del resto tu fai (ma sono d’accordo anch’io) che il capitalismo si mostra così logicamente un mondo chiuso ed un fenomeno compiuto e ormai esaurito, e questo paradossalmente perché non sono più i rivoluzionari o i marxisti a dirlo, ma lo dichiarano apertamente i suoi stessi apologeti. Dopo avere per un secolo battuto il tamburo sul marxismo come teoria escatologico-messianica della fine della storia (e per di più con alcuni argomenti assolutamente pertinenti, vedi Weber, Croce e Lowith), adesso sono essi stessi diventati i banditori di questa fine “naturalistica” della storia, implosa ormai in una fatalità crematistica intrasformabìle.

Che dire? Vergogna a tutti coloro che si fanno portatori di questa fine della storia, ed onore a tutti coloro che vi si oppongono!

Pubblicato anche sul sito www.centroitalicum.it


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