Per una problematizzazione del concetto di comunità in rapporto alla società e allo stato.

feb 20th, 2010 | Di | Categoria: Cultura e società, Teoria e critica

di Stefano Moracchi

comunità virtualeIl concetto di comunità, per essere pienamente e compiutamente realizzato, non può fare a meno del concetto di ethos (luogo di vita abituale, consuetudine, costume, uso, carattere).
Una comunità, per essere veramente distinta da tutto ciò che non le appartiene, deve essere espressione determinata in senso oggettivo (come costume) e in senso soggettivo (come carattere). Soltanto nell’incontro tra ethos (espressione di un comune sentire) e morale (espressione del sentire individuale scaturito da quello comunitario) si forma e sostanzia la comunità umana.
Il problema di come fondare un comune sentire affinché l’individuo possa sentirsi veramente libero (nel senso di “appartenere” a una comunità viva e non astratta) deve essere affrontato a partire dalla domanda delle domande: in che cosa consiste la comunità?
Oggi il concetto di comunità è sinonimo di società, nel senso che la sua definizione non ha come presupposto una fondazione etica (che non è una bestemmia ma un semplice concetto scaturito dalle determinazioni oggettive di un dato gruppo in rapporto con la realtà).
Per fondazione etica intendo lo stretto legame tra economia e politica.
Nel momento in cui l’etica (dalla quale deriva il diritto e tutto il suo ordinamento) si universalizza, nel senso che non si riferisce più a un sentire omogeneo espressione di un certo numero di individui costituitisi nel corso del tempo, ma pretende di rispecchiare tutti gli individui indistintamente, ecco allora che subentra un ethos cosmopolitico e un diritto universale, che per essere tali separano l’economia dalla politica (separazione che non può avvenire con l’individuo correlato alla comunità).
È a questo punto che l’individuo perde se stesso come soggetto portatore di una comune visione etica per assumere la funzione di oggetto costretto a subire una visione cosmopolitica che non gli appartiene.
Nel momento in cui si universalizza il concetto di appartenenza, si privatizza il concetto di comunità. Ecco apparire la comunità privata, costituita da individui privati delle loro prerogative essenziali: essere portatori di una visione del mondo e non passivi esecutori di un astratto universalismo.
L’unità di etica, economia e politica fonda la comunità intesa come espressione di esigenze proprie di quella comunità.
La misura di queste esigenze è il segno distintivo della comunità.
La comunità non ha esigenze illimitate ma si limitano a riprodurre la vita in comune, dove l’individuo si sente a casa propria e non gettato nel mondo in un processo reificato.
Quindi la comunità si fonda in un dato territorio e con date risorse.
La natura non distribuisce le risorse necessarie alla vita dell’uomo in maniera uguale per tutti: vi sono territori in cui l’acqua è un bene scarso e altri dove la coltivazione della terra, oltre a non essere agevole è anche insufficiente al fabbisogno collettivo.
Quindi vi sono comunità che hanno delle eccedenze e altre che hanno delle insufficienze.
Il concetto di misura che ho precedentemente descritto, nel senso di unione tra etica, economia e politica deve essere il medium tra le varie comunità.
Se la misura non è più il limite che definisce la comunità si avrà l’attuale sperequazione capitalistica e il senso di imperialismo che caratterizzerà le nazioni.
Se, al contrario, un mondo di comunità metterà in comune le eccedenze, si potrà saldare il concetto di sviluppo con quello di tradizione (ethos), appunto.
La comunità che dovrà sorgere lo potrà fare solo insorgendo.
Per insorgere non “contro” qualcosa ma a favore di qualcosa.
Insorgere significa ricostruire il tessuto della comunità di coloro che non sono più individui ma semplici “individuati”: dalle ricerche di mercato, dai giochi elettorali, dalle aziende pubblicitarie ecc.
Essere individui significa, prima di tutto, non essere divisi dalla comunità di appartenenza.
Si è veramente liberi se si è prigionieri di una verità, altrimenti si è un insignificante attributo.
Perché la comunità e non lo stato.
Per definire lo stato sono stati costretti a mettere in campo un esercito di demolitori della comunità: quelli del contratto sociale, dell’utilitarismo, dello stato assoluto ecc.
Tutte concezioni che presuppongono il primato del mercato e la separazione dell’etica dalla politica, e cioè la morte della comunità e, quindi, dell’individuo.
Fino a quando le concezioni filosofiche, politiche ed economiche non cominceranno a pensare concretamente e sostanzialmente all’individuo in carne ed ossa rinunciando a continuare a pensare a soggetti astratti (quindi privati, cioè spogliati dell’umanità) non vi potrà essere nessuna insorgenza.
Prima di vedere in che modo il concetto di comunità insorgente può realizzarsi dobbiamo esaminare il ruolo che la società civile svolge all’interno (e nei confronti) dello stato. Secondo questa mia analisi il movimento della società civile è divenuto un movimento egemone rispetto sia alla famiglia che allo stato.
Farò pertanto una breve nota storiografica per evidenziare come si sia andata configurando questa egemonia.
Vedremo come lo stesso stato si è andato caratterizzando dalla sua nascita fino ai nostri giorni.
Parlando di movimento egemone della società civile si vuole evidenziare come questo movimento, nato come espressione “spontanea” (sic!) di collegamento tra la famiglia e il potere costituito, sia divenuto un movimento chiuso entro una gabbia ideologica.
Da questa analisi si evince un doppio rapporto problematico: quello dei cittadini all’interno della società civile e quello della società civile nei confronti dello stato. Questo doppio rapporto si configura come costrizione e come debolezza.
Come costrizione in quanto i cittadini non riescono a penetrare nello stato e come debolezza in quanto lo stato ha chiuso il movimento della società civile al suo interno.
Il rapporto di forza è rappresentato dall’uscita dello stato dal suo ruolo specifico: quello di essere l’elemento universale rispetto alla particolarità.
Questa perdita di espressione generale ha fatto si che è stato conferito alla società civile un ruolo che non gli poteva competere e cioè di essere allo stesso tempo movimento civile senza avere la possibilità di essere rappresentanza statale.
Lo stato rinunciando al suo ruolo cardine ha finito per rappresentare una oligarchia, perché perdendo l’universalità ha sposato il particolarismo.
Le istituzioni sono divenute emanazioni del particolarismo e come tali rappresentano le “sentinelle” della società civile, impedendo di fatto l’accesso allo stato.
Per questo l’egemonia della società civile rappresenta una debolezza, e la debolezza dello stato la sua forza.
Bisogna comprendere bene questi passaggi perché sono fondamentali per spiegare la frattura che si è creata tra cittadini e politica.
Parlando di egemonia della società civile si vuole intendere che qualsiasi istanza che viene dai cittadini non ha rappresentanza statale. Le problematiche che sorgono dal corpo sociale sono questioni che attengono alla società intesa come movimento della società civile.
In questo modo i problemi sociali sfuggono alla definizione concettuale politica e tengono al riparo la rappresentanza politica (i pochi) dalle insorgenze sociali (i molti).
Lo stato, chiudendo il movimento della società civile, lo rafforza come movimento di costrizione, ma lo indebolisce come passaggio necessario tra la famiglia e lo Stato.
Favorendo il movimento della società civile diviene di fatto un movimento indipendente, completamente staccato dalla società civile.
Se da un lato questo gli permette una certa libertà e una totale garanzia di rappresentatività; dall’altro lo espone a una visibilità di privilegio dovuta alla sua scissione dai movimenti fondamentali.
Il malessere sociale e la frattura che si è creata tra i cittadini e la politica non è altro che la chiusura della società civile come movimento egemone da parte dello stato.
Chiaramente questo disegno della società civile egemone richiede tutto un apparato parastatale che ha dei costi esorbitanti per il cittadino. Le “sentinelle” oltre che impedire l’accesso allo stato sono anche improduttive e costose.
Credo che il nostro periodo storico sia fondamentale per gli sviluppi successivi, sia per quanto riguarda i nuovi assetti che si stanno configurando, sia per il ruolo che avrà la politica nei confronti dei cittadini.
Questo periodo storico che stiamo vivendo rappresenta pertanto un rischio ma anche una grande opportunità.
Sarà un rischio se non ci sentiremo coinvolti in prima persona come soggetti determinanti alla costruzione di un nuovo canale che apra finalmente le porte di comunicazione tra i tre movimenti fondamentali che reggono una nazione politica: famiglia, società civile, stato.
Sarà una grande opportunità se la sapremo vivere come Storia: intesa come costruzione di grandi ideali e non di semplici opinioni.
Ritornare a parlare di ideali significa riferirci alle persone come cittadini consapevoli di ricoprire un ruolo fondamentale. Per fare questo occorre il coinvolgimento pieno dei cittadini in progetti operativi all’interno della società civile, al fine di gettare, all’inizio, dei piccoli canali di comunicazione tra la famiglia e lo stato.
Questi progetti operativi saranno la base della produzione delle idee.
La produzione delle idee è il momento della scissione, perché avviene tra poche persone che si sono assunte la responsabilità generale.
Questo è il momento decisivo che rappresenta l’universalità, in quanto attraverso la responsabilità generale assunta si viene meno alla propria particolarità.
Nel momento della riproduzione riverifica l’attinenza tra teoria e pratica.
Questo è il momento vero e proprio politico che verrà analizzato.
Partendo dalla famosa tripartizione hegeliana (famiglia, società civile, stato) cercherò di chiarificare come si sia affermato il movimento egemone della società civile.
Ciò che risalta nel leggere la tripartizione è l’assoluta novità rappresentata dallo stato rispetto sia alla famiglia che alla società civile.
Di fatti. Solo in Europa, in un arco di tempo che va dagli inizi del secondo millennio alla Rivoluzione francese, che si mettono in moto dei processi che portano alla nascita degli stati e del sistema degli stati.
Possiamo ricavare tre tipologie di forme-stato che si sono affermate nella storia.
La prima è quella che pone la differenza tra società civile e stato, enfatizzando la correlazione tra dimensione economica e politica, avvalendosi dello schema triadico stato assoluto, stato di diritto, stato totalitario.
La seconda, invece, è più articolata, in quanto cerca di declinare una griglia interpretativa a limitazione del potere sovrano, mettendo in atto strutture costituzionali e principi giuridici: stato giurisdizionale, stato legislativo, stato costituzionale.
La terza privilegia, invece, un approccio sociologico per definire le peculiarità della costituzione materiale (e di conseguenza l’assetto dei poteri locali) così abbiamo in sequenza stato dei ceti, stato nazional-liberale, stato democratico dei partiti.
Da questa tripartizione del concetto di stato possiamo notare che alla base vi è sempre la ricerca di un certo equilibrio tra società civile e stato.
Questo rapporto è sempre stato problematico.
Nello stato assoluto la concentrazione dei poteri al vertice aveva privatizzato l’individuo ma allo stesso tempo aveva spoliticizzato il suddito.
Con lo stato diritto si è cercato di armonizzare il rapporto tra società civile e stato. Non c’è più divisione verticale tra sovrano e sudditi ma si instaura un rapporto orizzontale attraverso organi dello stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) e quelli della società (associativi, economici, religioso-culturali).
E’ nello stato di diritto che avviene per la prima volta un cambiamento profondo nel rapporto tra sovrano e sudditi attraverso l’assunzione del concetto di cittadino. Attraverso la rappresentanza parlamentare il cittadino può partecipare al governo degli affari generali. La società civile per la prima volta diviene il contraltare dello stato.
Con lo stato totalitario si azzera tutto quello che si era ottenuto con lo stato di diritto. Ritorna il rapporto verticale tra vertice e base. Questa volta le differenze sono di ordine “naturale” (razziale) o sociali (appartenenza di classe) per la discriminazione e persecuzione politica. Con lo stato totalitario non c’è più differenza tra società civile e stato: tutto il sociale è politicizzato e ogni vita associativa e gruppo sono diretta espressione del vertice statale.
Attraverso la pace di Augusta si pose fine al conflitto religioso, Si sancì che la libertà religiosa spettava soltanto ai sovrani, a cui competeva lo ius reformandi, mentre ai sudditi restava solo lo ius emigrandi, favorendoli così dal non essere vincolati alla religione dominante nel proprio territorio.
E’ attraverso il principio cattolico cuius regio, eius religio che viene così sancita l’uniformità confessionale nei singoli territori.
In questo modo nel territorio dell’Impero germanico vi potranno essere territori compatti di confessione cattolica, luterana e riformata.
La giustificazione di questo stato di cose è resa possibile dal fatto che la iurisdictio ecclesiastica nei territori protestanti è stata abolita e trasferita al sovrano.
Attraverso questo passaggio il signore locale non è solo il depositario del potere locale, ma anche di quello episcopale.
E’ da questo momento in poi che avviene quella separazione pubblico-privato che attraverserà la vita dei singoli e , al tempo stesso, la proceduralizzazione della vita sociale, con la conseguente formalizzazione delle differenze individuali e collettive di natura identitaria.
In primo luogo, che distinzione tra vita pubblica e vita privata, ha implicato la trasformazione della società religiosa in una scelta privata, riguardante la coscienza individuale.
In secondo luogo, che la proceduralizzazione delle differenze identitarie, ha determinato la trasformazione giuridica e sociale delle passioni collettive in interessi socialmente organizzati.
Interessi regolati, con la programmata introduzione di norme di comportamento pubblico, formali e informali, validi per tutti.
Questa istanza è l’autorità del sovrano statale, e perciò vale; auctoritas, non veritas facit legem. Quindi non si sviluppa un’etica universale in base alla legge della ragione collettiva, ma secondo un’antropologia meccanicistica attraverso una introiezione di valori puramente soggettivi, favorendo in questo modo la spersonalizzazione e atomizzazione degli individui.
E’ in questo passaggio che l’idea di società civile prende forma e si svilupperà in modo sempre più convulso finendo per rappresentare l’unico movimento egemone a dispetto della famiglia e dello stato.
Favorendo l’individualismo, era chiaro che ciò non poteva avvenire all’interno di un movimento universale come era quello di Impero: allo stesso modo avviene oggi con lo stato che per accrescere il suo potere politico (di pochi individui) favorisce il movimento egemone della società civile.
La società in cui viviamo è concentrata e orientata verso la tecnica, l’efficienza e la sicurezza e sempre in vista della razionalità.
Ma cosa significa razionalità. Con questo termine oggi intendiamo escludere tutto ciò che non rientra nello sviluppo tecnologico.
Se una persona ha dei problemi fisici molto gravi il medico usa la sua razionalità il che pregiudica tutto ciò che non rientra nella malattia. Ora quello che non rientra nella malattia è la persona con le sue esigenze, le sue credenze, la sua visione del mondo e soprattutto il suo essere persona prima che malato. Quando si entra nel mondo scientifico della medicina si entra come persona per diventare malato cioè oggetto di cura. La razionalità non riesce a cogliere l’uomo ma solo l’aspetto biologico della persona. Noi siamo sempre più identificati con la statistica, con la crescita, con lo sviluppo ma sempre meno come uomini e donne.
Anche la vecchiaia è vista come oggetto di studio ma sempre meno come condizione umana. La si studia in funzione di pensioni da erogare, e si elaborano calcoli statistici che ci dicono che la donna vive più dell’uomo, e quindi la sua rendita pensionistica dovrà essere diversa da quella dell’uomo. Quando si fanno questi discorsi non si parla della donna in carne ed ossa, con una sua personalità particolare, e con proprie esigenze, ma si parla della “donna” come numero statistico. La razionalità non può cogliere la donna in particolare e quindi esclude di per sé l’essere umano.
L’efficienza e lo sviluppo conducono l’essere umano a non essere più padrone della propria vita. La cura del corpo, la formazione, lo studio, le relazioni sociali sono definite in base a uno scopo tecnologico: creare una società efficiente e competitiva.
Siamo diventati una società rituale senza avere più riferimenti simbolici e di rito.
Ciò che caratterizzerà, d’ora in poi, la distanza tra società civile e stato, sarà il concetto di neutralità e indifferenza.
Lo stato non può assumere il valore dell’indifferenza verso questioni che attengono alla vita dei singoli membri della comunità statale.
Lo stato, avendo come sua base costitutiva l’universalità, contiene lo spirito generale di una nazionale. Se lo Stato si rende indifferente e neutrale si avrà, come conseguenza inevitabile, il movimento egemone della società civile dove prevarranno attaccamenti etici particolaristici, formazioni settarie, oppure raggruppamenti etnici.
Uno stato che fonda la sua identità sulla privazione di identità non può che favorire il movimento egemone della società civile intesa come gabbia ideologica al cui interno si svilupperanno relazioni prettamente utilitaristiche, dove le culture e le religioni non avranno nessuna possibilità di accedere nella sfera pubblica (stato).
Questa d’altra parte è la famosa tesi di Rawls: tutte le dottrine comprensive siano messe da parte nella vita pubblica.
La società civile doveva diventare un semplice motore produttivo, favorendo interessi particolari e utilitaristici, privando i cittadini del loro diritto di cittadinanza nel senso pieno della parola come cooperazione e partecipazione alla vita statale.
Secondo Rawls un credente non può svolgere la sua partecipazione alla vita politica (statale), quando il riconoscimento politico esige che anche le ragioni per cui si crede siano ammesse al dibattito pubblico, proprio perché esse fanno parte di una identità culturale e religiosa.
Tale concezione risponde ad istanze relativistiche e negative.
La società civile in questo modo favorisce l’individuo a privatizzarsi, chiudendogli ogni possibilità di accedere allo Stato (politica)., relegando ogni questione di cultura religiosa (identità) all’interno della gabbia ideologica della società civile.
Ma favorisce anche il frantumarsi della famiglia, perché non avendo più nessuna identità e valore da far valere, non rimane che assumere delle verità passeggere e momentanee.
Lo Stato diventa una oligarchia, il cui accesso è regolato da sentinelle costituzionali, che giudica in base ad una forma contrattualistica e utilitaristica le persone che vanno a rappresentarlo. La società diviene rituale.
Per società rituale intendo la società razionale, fredda e priva di significati trascendenti. La persona agisce sotto impulsi ripetitivi e rassicuranti della ritualità.
Il movimento meccanico ci spinge a cercare una via di fuga nel privato dove crediamo di ritrovare noi stessi. Ma il privato, come dice la stessa parola, non contiene nulla di quello che cercavamo, perché non abbiamo più una vita di relazione sociale ma semplicemente un comportamento sociale che implica diffidenza e convenzionalità, in vista dello scopo e dell’interesse.
Le nostre azioni cercano di ricalcare le vecchie consuetudini e le vecchie analogie con un passato di cui non conosciamo le motivazioni che l’avevano fatte emergere e rendere necessarie. Non abbiamo più uno spazio e un tempo per “attuare l’azione” nel senso di agire in vista di uno scopo sociale in cui il privato diventi finalmente pubblico. Le nostre esigenze individuali devono trovare spazio e tempo pubblico per essere finalmente libere di manifestarsi.
E’ paradossale che una civiltà rituale come la nostra non abbia più il senso del rito che una volta contraddistingueva un popolo, una comunità, una tribù.
A noi non mancano i riti, mancano i riferimenti che li giustifichino. Manca pertanto l’azione compiuta e consapevole. Attuare l’azione compiuta nella sua attualità è l’esigenza dell’attuazionismo.
Il pensiero razionale tecnologico non sa e non può cogliere l’azione spontanea il cui significato si giustifica essenzialmente da una relazione disinteressata e altruistica.
Le credenze sono cadute ma rimangono le superstizioni a ricordarci che l’uomo non è un essere razionalizzabile e oggetto di tecniche. Non possiamo continuare a metterci in fila per prendere il treno tecnologico e dimenticarci delle azioni che stanno alla base della nostra ragione d’esistere. Il lavoro non può diventare un esercizio di mortificazione, oppure un semplice arbitrato d’uso, o peggio ancora, un concorso alla crescita produttiva, se non vi è alla base il gesto, l’azione consapevole e prettamente umana e ricca di significato, come quella di attuare l’azione reciproca, e partecipata, nella sua attualità.
Noi cerchiamo di dare un senso e un significato all’azione umana quando sfuggiamo alla ritualità senza trascendente, e quindi perfettamente razionale e utilitaristica, e ci caliamo in un rituale collettivo riconosciuto dal tempo storico e che assume significato per motivazioni che nella quotidianità non hanno ragione.
L’ambiente sociale si definisce come comunità quando tra i suoi componenti l’azione viene attuata su basi attuali, che sfuggono alla ripetitività razionale e spersonalizzante del quotidiano, dove l’attualità non ha il senso del momento d’essere, in quanto è prodotta in sequenza, dai momenti che si succedono l’uno dopo l’altro.
L’attuale non ha la serialità dei momenti susseguenti poiché, il momento,viene vissuto nella sua integrità, senza divisione di un prima e un dopo. L’azione attuale presuppone il gesto partecipato e significativo della collegialità. L’individualità è, così facendo, integra e riconosciuta dalla partecipazione dell’atto attuale condiviso, perché chiunque può riconoscersi nei gesti e nei simboli utilizzati allo scopo.
Affinché l’azione si possa attuare bisogna che i valori e la partecipazione divengano oggetto di consenso.
La sensazione nevrotica, spersonalizzante di essere vissuti, ma di non vivere, deriva appunto da questo tempo rituale, ripetitivo, automatico.
La ripetitività è dovuta prima di tutto dall’assenza di comunicazione tra un istante e l’altro. Non c’è passaggio di significato ma solo un trasmigrare da un punto indefinito ad un altro indefinibile. Sono momenti assenti, dove la coscienza non può avere posto perché rifugge dall’inconsistente e dall’indeterminato. L’istante ha una sua magia, una sua temporalità ma proprio per questo è istante da cogliere, da saggiare e da rendere “presente”.
Il passaggio da un istante all’altro lo si può cogliere soltanto in un completo e indivisibile momento organico delle facoltà umane che sono in relazione partecipata l’una con l’altra, dove il senso dello stare insieme non è frantumato da comandi agiti o da esistenze agite, ma nella comunione di un progetto attuativo condiviso e relazionato.
La successione temporale degli istanti rituali consiste nella assenza di vita cosciente perché la successione rituale pregiudica la spontaneità che richiede l’atto libero e proprio perché libero non può essere stabilito con movimenti comandati e scadenzati.
La razionalità rituale delle società tecnologiche rifiuta, affinché tutto possa procedere secondo scadenze previste, tutta la serie di atti liberi e spontanei. L’atto libero pregiudica il funzionamento razionale, distrugge la scienza statistica, il pensiero omologato, la disciplina e l’ordine. L’uomo rituale conosce le sue giornate e quindi non le vive e non le pensa. Vede la vita scandita da successioni temporali, da istanti non colti e che gli sfuggono come perle rare alle quali non può concedere riflessione ulteriore. Per questo l’attuazionismo impiega la propria esistenza su rituali riconosciuti, che siano impregnati di senso spontaneo perché nati da un agire collettivo e condiviso, in quanto prodotti maturati nell’attuazione del gesto attuale, unico indiviso nella sua successione di istanti assaporati nella riflessione statica.
Attuare l’azione significa “concedersi” all’atto spontaneo, rifuggire la serialità conosciuta e vissuta una volta su tutte.
Lo scetticismo e l’indifferenza sono al centro delle nostre riflessioni.
Scetticismo e indifferenza sono, allo stesso tempo, questioni che attengono al ruolo egemone della società civile rispetto alla famiglia e allo Stato.
Vediamone in breve il cammino che hanno compiuto nella Storia.
Lo scetticismo e il nichilismo sono strettamente legati al problema teologico del criterio di verità.
Come abbiamo finora visto tutte le questioni che attengono all’identità di una persona e alle sue credenze non hanno possibilità di accedere allo Stato e rimangono come questioni “private” (nel vero senso della parola cioè la persona privata delle sue qualità fondanti la sua identità, operando una frustante spersonalizzazione che favorisce lo scetticismo e il nichilismo).
Al centro della nostra indagine sul come sia stato possibile favorire il movimento egemone della società civile dobbiamo per forza di cose passare ad analizzare il concetto di fede che sta alla base del concetto di verità.
Questa posizione fideistica è quella espressa sia da S. Agostino che da Kierkegaard in quanto entrambi riconoscono che senza una componente di fede, religiosa, metafisica o di altra natura, non si può individuare o stabilire nessuna verità indubitabile.
Il concetto di fideismo è controverso, e come definirlo è in parte terminologico e in parte dottrinale.
La scelta della definizione, ovviamente, chiama in causa la distinzione fondamentale tra il pensiero della Riforma protestante e quello del cattolicesimo romano: il cattolicesimo romano, infatti, ha condannato il fideismo come eresia e ha visto in esso un difetto fondamentale del protestantesimo, mentre i protestanti non liberali hanno visto nel fideismo una componente essenziale del cristianesimo, un elemento che ricorrerebbe già negli insegnamenti di San Paolo e di Sant’ Agostino.
Il pensiero scettico partito dall’antica Grecia penetrò nel tardo Rinascimento e fu il dibattito centrale della Riforma, disputando sulla natura e sul valore della conoscenza religiosa, ossia su quella che venne chiamata regula fidei.
Le posizioni di Martin Lutero e la sua disputa con Erasmo possono considerarsi un’indicazione significativa del risalto che la Riforma avrebbe dato al nuovo problema.
Ma questo dibattito non attiene solo a questioni di ordine teologico ma, come vedremo, ha profonde ricadute sul rapporto tra società civile e Stato.
Perché la disputa fra Lutero e Erasmo può essere considerata uno dei momenti che segnano il tramonto dell’ideale della Respublica christiana, provocato anche dalla percezione, nel pensiero prima che nella pratica, dell’impossibilità di vivere all’interno di un’assoluta unità politico-religiosa.
La risposta moderna alla crisi aperta nel XVI secolo dalla disputa sul libero arbitrio tra Lutero e Erasmo, che segna la fine dell’affermazione univoca della Verità oggettiva, raffigurata nell’unità della Chiesa di Roma, sta da un lato nel movimento che trasforma l’uomo in un soggetto che assume su di sé una individualità che non corrisponde più in un concetto armonico universale.
L’angoscia davanti alla desolazione di un mondo privo di Dio e la paura della morte provocano nel singolo la necessità di costruire un ordine artificiale (l’inizio della società civile) dove poter dimenticare paure e sensazioni spiacevoli. L’indifferenza e l’individualismo esasperato sono fughe da quella paura primordiale che la Riforma generò e che noi oggi abbiamo deificato attraverso la società civile.
Questo movimento verso l’individualismo caratterizzato dalla società civile è anche la costruzione di un attore portatore di valori universali, che si identifica nell’individuo proprietario naturalmente di diritti, che non aliena mai definitivamente, ma rivendica costantemente contro l’universale in nome della propria libertà e razionalità.
E’ con lo Stato giurisdizionale che abbiamo la prima forma moderna di Stato. In questa forma di Stato concorrono diversi soggetti giuridici che partecipano alla definizione, insieme al sovrano, alla definizione dei loro diritti particolari ma non all’abrogazione, rimettendo alla giurisdizione e non alla legislazione la soluzione delle controversie politiche.

Con lo Stato legislativo postrivoluzionario abbiamo il potenziamento del ruolo del della legislazione e subordinando alla legge la pubblica amministrazione. Con lo Stato legislativo abbiamo la universalità del potere sovrano. La legge non è concepita solo in senso formale, come norma emanata dall’organo legislativo competente, ma anche in senso materiale, come norma qualificata oggettivamente dal suo contenuto di razionalità e giustizia al servizio dei diritti naturali degli individui.
Con lo stato costituzionale, in fine, riprende sia la vocazione pluralistica, sia l’affermazione della centralità della giurisdizione che erano proprie della prima forma di Stato.
Abbiamo una concezione della legge che pur conservando la sua centralità appare ora sempre più imbrigliata dalla esigenza di tutelare quel nucleo indisponibile della convivenza che è rappresentato dai diritti fondamentali.
Noteremo che la società civile ha avuto un lungo periodo in cui si è caratterizzata con il movimento di “differenza”. Altrettanto lungo è stato il movimento di “unità”, dove il concetto di identità è stato fondamentale.
Dopo la rottura dell’unità vi è stato il periodo di cambiamento e di ripetizione, poi quello di alienazione (caratterizzato dall’apparato burocratico) e infine quello di egemonia nel quale siamo tutt’ora.

Stefano Moracchi

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