Privatizzazioni – Parte I: l’eterno ritorno di una ricetta disastrosa

nov 18th, 2013 | Di | Categoria: Primo Piano

di Lorenzo Dorato

Tratto dal blog “coniare rivolta

Negli ultimi giorni, dopo un paio di mesi di apparente silenzio sul tema, si è tornati a parlare di privatizzazioni. Il Ministro dell’Economia, alla fine della scorsa settimana, ha dichiarato che entro dicembre verrà annunciato un piano di dismissione del patrimonio pubblico immobiliare e di parte delle partecipazioni azionarie (integrali e non) detenute in alcune imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Rai, Ferrovie, Poste ed altre aziende minori).

Il tono utilizzato nel dibattito corrente è lo stesso di venti anni fa, epoca in cui ebbe inizio la stagione delle gigantesche dismissioni di patrimonio pubblico messa in atto dapprima dai governi tecnici del tempo e poi dalle coalizioni di centro-sinistra e centro-destra che si sono alternate al governo dell’Italia.

Ciò che stupisce oggi, è proprio la persistenza del medesimo, identico tono usato in quel periodo nel dibattito corrente su un tema così rilevante come quello delle privatizzazioni. Come se venti anni di dismissioni non fossero meritevoli di qualche riflessione sul perché siano state realizzate, chi ne abbia beneficiato e quali siano stati i risultati economici di tali politiche.

Con lo stesso “spirito liberista” entusiastico dei “ruggenti” anni ’90, quando privatizzare era diventata una parola d’ordine di gran moda, si ripropongono oggi le stesse identiche argomentazioni di allora: 1- occorre privatizzare per fare cassa e abbattere il debito pubblico; 2- occorre privatizzare perché la proprietà pubblica è per definizione inefficiente ed elefantiaca; 3- occorre privatizzare perché così poi è possibile liberalizzare e senza concorrenza non può esserci efficienza.

La teoria economica dominante ci impone tre narrazioni mai dimostrate che renderebbero la privatizzazione di un’impresa pubblica una ricetta scontata.

La prima narrazione ci racconta che la presenza di un elevato (elevato rispetto a quale parametro non è dato saperlo) debito pubblico è di per sé un problema, che va risolto con la sua riduzione. Pertanto, le privatizzazioni concorrerebbero a fare cassa per ridurre il livello di indebitamento dello Stato. Il Ministro dell’Economia lo ha dichiarato espressamente affermando che: “i proventi delle privatizzazioni non saranno utilizzati per fare spesa, ma per ridurre il debito”. Ebbene non vi è alcuna ragione teorica né tanto meno evidenza empirica che suggerisca l’idea che un particolare livello di debito pubblico possa essere definito astrattamente insostenibile (tema che avremo modo di approfondire prossimamente); pertanto ogni argomentazione sulla necessità di fare cassa utilizzando i metodi più efficaci e veloci (tra cui, oltre alle manovre recessive di taglio della spesa ed aumento della tassazione, figurano in primo piano anche le privatizzazioni) cade automaticamente assieme al suo presupposto.

La seconda narrazione ci racconta che l’impresa pubblica è per definizione inefficiente, poiché senza massimizzazione del profitto come obiettivo preminente mancherebbero gli incentivi per assumere comportamenti efficiente. Questa argomentazione è estremamente debole sul piano teorico poiché non tiene conto dei numerosissimi incentivi che potenzialmente possono agire ed agiscono sul comportamento umano oltre alla massimizzazione del profitto; ed è debolissima sul piano empirico poiché non esiste alcuna verifica effettiva che abbia storicamente dimostrato l’inferiorità (sul piano dell’efficienza, intesa come minimizzazione dei costi a parità di prodotto) di un’impresa pubblica rispetto a una privata. Inoltre la suddetta argomentazione spesso non tiene conto dei fini propri dell’impresa pubblica, considerando come voci di costo elementi che fanno riferimento invece a finalità sociali specifiche che l’impresa persegue (come ad esempio la garanzia di qualità su determinati prodotti) o a norme sociali rispondenti ad equilibri distributivi di certo non catalogabili come costi impropri (come la presenza di vincoli normativi più rigidi sul mercato del lavoro).

La terza narrazione ci dice che senza concorrenza non può esservi efficienza. Qui, si trascurano completamente, in primo luogo, i numerosi vantaggi (verificati peraltro dalla stessa teoria egemone) che il monopolio ha in numerosi contesti frequentissimi nel mercato reale (economie di scala) e in termini di efficienza dinamica (cioè a dire capacità innovativa e di sviluppo di lungo periodo). Inoltre, si attribuisce meccanicamente al solo stimolo competitivo l’esclusività degli incentivi, dimenticando, anche in questo caso, la vastissima gamma di incentivi possibili di carattere non competitivo che hanno sorretto la florida attività produttiva di monopoli pubblici nel corso della storia dello stesso capitalismo (valgano da esempi, su tutti, in Italia, le eccellenti prestazioni economiche delle imprese pubbliche attive nel settore energetico, Eni ed Enel nei decenni del dopoguerra fino agli anni ’80).

Eppure, malgrado le tre narrazioni che “impacchettano” la ricetta delle privatizzazioni presentino evidenti contraddizioni e palesi forzature, si continua a voler presentare tali politiche come panacea di tutti i mali senza tener conto non soltanto delle numerose obiezioni teoriche, ma soprattutto delle esperienze storiche concretamente verificabili. La stagione delle privatizzazioni, in Italia, così come in tutti i paesi dove sono state attuate nell’ultimo trentennio, ha prodotto un fallimento economico-sociale di immense proporzioni e dalle disastrose conseguenze sul piano distributivo, sul piano dell’accessibilità universale ai servizi pubblici e sul piano della sovranità industriale del paese ai fini delle scelte strategiche di politica economica.

Decine e decine di imprese pubbliche sono state vendute (o meglio svendute visti i prezzi particolarmente favorevoli accordati agli acquirenti) a capitalisti privati in fuga dalla manifattura (sempre meno redditizia a causa della crescente concorrenza internazionale) e in cerca di facilissimi profitti garantiti (a rischio zero) in settori spesso di prima necessità o comunque di larghissimo consumo (dove è bassissima l’elasticità della domanda al prezzo e il prodotto è quasi sempre non sostituibile): è il caso dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei servizi creditizi (banche) e finanziari (assicurazioni), ma anche di pezzi importanti di industria pesante (acciaio, alluminio, meccanica) e alimentare (catene distributive).

Il risultato è stato il seguente: laddove le imprese pubbliche realizzavano profitti riutilizzabili a fini sociali, si è avuta una drastica perdita di gettito rappresentato da quelli che erano utili reinvestibili in Stato sociale o in piani di sviluppo industriale del Paese. Imprese sane e profittevoli come l’Eni e l’Enel o diverse banche pubbliche sono state in tutto o in parte privatizzate causando la perdita di risorse che venivano dirottate a fini sociali. In cambio, il denaro ottenuto dalla loro vendita è stato utilizzato per tentare inutilmente di ridurre il debito pubblico (che nel frattempo, ironia della sorte, è continuato comunque ad aumentare per tutti gli anni ’90); laddove, invece, le imprese pubbliche producevano servizi universali sotto costo o con la sola copertura del costo (senza profitto) si è avuta una progressiva mercificazione del servizio prodotto a scapito delle fasce di popolazione economicamente più deboli ed a vantaggio dei profitti dei nuovi proprietari dei servizi pubblici privatizzati.

Infine, in tutti i casi, è stata pesantemente erosa la capacità di controllo da parte dello Stato sui settori strategici del sistema produttivo, rinunciando così ad una leva fondamentale per la stabilizzazione del livello della domanda e per l’orientamento delle scelte produttive in chiave di sviluppo industriale e sociale.

Il tutto senza avere mediamente come contropartita alcun aumento verificabile dell’efficienza interna alle imprese, evidenza ammessa dagli stessi fautori del processo di privatizzazione dell’economia pubblica su larga scala (come testimonia il rapporto di Andrea Goldstein sulle privatizzazioni italiane del 2003).

Nonostante questo quadro desolante, la ricetta magica viene oggi riproposta con le stesse argomentazioni insostenibili di un tempo. Del resto, nel lasso di tempo intercorso da allora, l’egemonia della teoria economica dominante e di posizioni politiche sempre più orientate alla pura e semplice difesa dell’interesse di un’esigua minoranza di popolazione ricca – e conseguentemente sempre più ostili alla presenza di elementi di economia pubblica all’interno del capitalismo – è andata via via crescendo. Non c’è quindi da stupirsi se il governo attuale, in continuità con le scelte dei precedenti governi, segua il fulgido cammino della privatizzazione come soluzione privilegiata dei mali dell’economia.

Peraltro, nel contesto dell’attuale profonda crisi economica del capitalismo occidentale trainata e alimentata dalle politiche di austerità di matrice europea, nuove privatizzazioni, oltre a causare i danni già prodotti dal lungo ciclo attuato dal 1992 al 2003, non farebbero altro che aggravare la crisi impattando negativamente sulla domanda pubblica e, indirettamente, sui consumi delle famiglie a seguito dei prevedibili aumenti del livello di prezzi e tariffe.

A fronte di questo, occorre una strategia seria di difesa delle imprese pubbliche e della produzione pubblica. Una strategia che rivendichi il ruolo e rilanci le vere finalità proprie delle imprese che ad oggi permangono in alcuni casi solo formalmente pubbliche, e contestualmente rilanci l’idea di una progressiva rinazionalizzazione di ciò che è stato privatizzato per gli interessi di pochi a danno della stragrande maggioranza della popolazione.

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