Pitagora, Marx e i filosofi rossi

ott 6th, 2014 | Di | Categoria: Recensioni

Di ROBERTO SIDOLI, DANIELE BURGIO, LORENZO LEONI

Dal volume Pitagora, Marx e i filosofi rossi in via di pubblicazione.

CAPITOLO PRIMO, parte I

Pitagora, Platone e Aristotele: inizia il “triello”.

Asia Minore, area del mar Ionio durante l’ultimo terzo del settimo secolo a.C./inizio del sesto secolo: una serie di città-stato greche, indipendenti e in via di rigoglio economico, iniziano ad utilizzare il nuovo strumento economico effettuato in Lidia della moneta e sviluppano i loro commerci.

I processi di riproduzione socio-politici delle colonie ioniche dell’Asia minore-Mileto Colofone, Clazomene, Efeso, tutte affacciate sul Mar Mediterraneo, oltre alle isole di Samo e di Chio si organizzano in forme politiche controllate da ristretti gruppi aristocratici mentre la loro economia registra un accentuato sviluppo, favorito dall’intensificarsi dei traffici marittimi. Mileto diventa la principale delle città ioniche, per la ricchezza dei suoi palazzi e dei suoi templi, per il fervore delle iniziative commerciali e della ricerca tecnico-scientifica che favorisce la crescita delle condizioni economiche, della cultura e del numero dei cittadini che si dedicano ad attività produttive; aumenta pertanto il numero degli artigiani e dei commercianti e diminuisce simultaneamente quello dei contadini mentre la schiavitù rimane ancora un fenomeno limitato, sebbene proprio in quel periodo a Chio inizia a fiorire il primo mercato internazionale di forza lavoro servile. Proprio in  questo particolare contesto socioproduttivo e politico-sociale sorse la filosofia occidentale e via via si affermò una cultura “laica” che pose a proprio fondamento il giudizio e l’elaborazione razionale, ossia dottrine filosofiche e non mitologie, poetiche e religiose.

Nella ricerca dell’“archè” e nel corso del processo di studio dell’universo, nell’indagine (utilizzando un metodo razionale e a-religioso, a-mitico) del principio unificante e fondante della natura – ivi compresi gli esseri umani – si impegnarono via via i primi filosofi, da Talete a Anassimene, da Anassimandro fino all’agrigentino Empedocle. Essi produssero una sorta di protomaterialismo, nel quale il principio unificante di tutti i processi esistenti era individuato in un particolare elemento materiale (l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene, ecc.) che vivificava tutte le cose esistenti: l’ilozoismo diventò per quasi un secolo la corrente egemonica all’interno del neonato pensiero filosofico occidentale. Rispetto ai processi economico-sociali del tempo e a fenomeni socioproduttivi importanti quali la proprietà privata e la moneta, la schiavitù e il profitto privato non ci è pervenuta alcuna forma di elaborazione effettuata da questi filosofi, dei cui lavori anche in campo ontologico-filosofico ci sono del resto rimasti pochi frammenti e soprattutto i resoconti sulle loro analisi filosofiche scritti da altri filosofi e storici, Aristotele e Plutarco in testa.

Al massimo si può rilevare il tacito “silenzio-assenso” espresso in relazione ai rapporti di produzione esistenti nella Grecia ionica del sesto secolo a.C.  dai primi filosofi occidentali, spezzato solo dal (già citato) aneddoto relativo all’attività di speculazione economica che avrebbe svolto Talete rispetto al mercato delle olive, comunque accompagnato dalla notizia contrastante secondo cui il “primo filosofo” non avrebbe tenuto per sé gli ingenti ricavi derivati dalla sua fortunata praxis economica. Ma con la produzione teorica di Senofane, che operò nella seconda metà del sesto secolo a.C., la filosofia greca iniziò a interessarsi seriamente delle tematiche politico-sociali grazie al primo esponente della “linea meticcia”, nella quale si mischiavano elementi classisti con alcune tendenze egualitarie e filocollettivistiche.

Nato nella ionica Colofone (non lontano da Mileto) nel 565 a.C., Senofane fu costretto a trasferirsi nella Grecia continentale attorno al 540, a causa della forte influenza politico-militare che l’impero persiano stava ormai iniziando ad esercitare sull’area greco-ionica. Pensatore estremamente concreto, che non concesse nulla alle tendenze spiritualistiche che invece si affermarono sul piano filosofico nei due secoli successivi, nel corso della sua lunghissima esistenza Senofane scelse innanzitutto di “parlare al popolo”, e non alle aristocrazie che allora dominavano gran parte dell’area geopolitica greca: infatti egli scrisse diverse poesie a carattere storico-filosofico redatte in versi, e non invece in prosa come avevano fatto i filosofi precedenti, in quanto questo stile risultava di più facile comprensione al popolo ed egli voleva proprio raggiungere un uditorio il più vasto possibile, per combattere l’influenza che su di esso ancora avevano Omero ed Esiodo. Pur accettando le concezioni scientifiche dei filosofi precedenti (Talete, ecc.), egli si occupò prevalentemente di teologia e si rivelò particolarmente importante la sua brillante critica all’antropomorfismo religioso, che  i poeti avevano contribuito ad alimentare: a questo proposito egli era convinto che se i cavalli potessero immaginare un dio, lo immaginerebbero simile a loro, e così ogni altro animale.

Per Senofane non avevano pertanto alcun senso i culti delle singole divinità nei singoli templi, in quanto a suo avviso era giunto il momento di concepire la divinità in modo unitario, illimitato e indifferenziato, facendo coincidere le divinità con e la natura e introducendo di conseguenza per la prima volta il panteismo nella storia della filosofia occidentale, anche se in forma embrionale. Ma  più è importante, per le sue implicazioni sociali, risulta il fatto che egli negò che esistesse una rivelazione divina e degli intermediari scelti per riceverla, concezione che era alla base dei privilegi dell’aristocrazia: non la rivelazione, devono quindi, ma la ricerca intellettuale diventò unica via che conduce alla verità: secondo Senofane. Egli non si limitò in ogni caso a criticare la religione e spinse il suo attacco anche ai valori degli aristocratici, affermando che la città greca ormai aveva bisogno di saggi e non di eroi o cavalieri o atleti, prendendo pertanto di mira tutta la tradizionale concezione elitaria e della gerarchia sociale dominante nel mondo ellenico. Secondo le sue parole, “la città” (le città-stato greche) “copre d’onori e di doni i vincitore delle gare, eppure non è degno quanto me; è pur migliore della forza degli uomini e dei cavalli la nostra sapienza! È ingiusto anteporre la forza corporale alla saggezza”.[1]

Anche se mai, negli scritti tuttora ritrovati di Senofane, emerse un processo di critica diretta alla proprietà privata e/o alle strutture socioproduttive schiavistiche, il suo duro attacco sia agli interessi del clero greco che alla posizione dominante dell’aristocrazia del paese, collegati ad una costante attenzione ai bisogni collettivi  del popolo, fanno risaltare la forte componente “rossa” e solidaristica presente nel suo vivo e pulsante pensiero filosofico. Non è certo un caso che il “Feuerbach dell’antichità” fu capace di rilevare lucidamente che “gli etiopi dicono che i loro dei sono camusi e neri, i traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli e che l’Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente”, riuscendo altresì di compiere “interessanti osservazioni naturalistiche: così dalla scoperta di impronte fossili di animali marini sulle montagne egli dedusse – a conforto della dottrina di Anassimandro – che la terra era stata un tempo ricoperta dal mare; soprattutto singolare è che egli diede un elenco completo di tali ritrovamenti fossili (a Siracusa, Malta e Paro), dimostrando un notevole scrupolo scientifico”.[2]

Alla “linea meticcia” della sfera filosofica-politica appartiene anche il pensiero del geniale Eraclito, nato a Efeso (Asia Minore greca) attorno al 540 a.C., e che può essere considerato il (lontano) padre del materialismo dialettico di Marx, Engels e Lenin. Sotto il profilo della dialettica, infatti, va notato come secondo il grande filosofo efesino l’unità e l’interconnessione reale del  mondo, di tutti gli oggetti ed i processi, scaturisse dalla stessa molteplicità dell’universo. “Per unità, infatti, egli intende il divenire, e questo deriva dall’esistenza degli opposti, in quanto è il loro fondersi, è lo svilupparsi dell’uno e dell’altro, è l’unità dei contrari. Un frammento di Eraclito fa in proposito la seguente affermazione, piena di fascino: “E’ la stessa cosa in noi il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; poiché queste cose mutandosi son quelle, e quelle a lor volta mutandosi son queste. Per Eraclito, dunque, i contrari non costituiscono due principi racchiusi ciascuno in sé e quindi inconciliabili tra loro: essi sono, invece, inscindibilmente uniti pur nel loro contrasto. La realtà, in continuo divenire, si alimenta della lotta dei contrari; e la guerra è la vera legge di tutte le cose. L’universo diviene, si trasforma, scorre; ma questo trasformarsi, questo variare, non è segno di irrazionalità: anzi, è l’attuazione della sua più profonda razionalità”.[3]

Per quanto riguarda il materialismo in divenire ed eterno sviluppo di Eraclito, anche se a volte egli intese “il fuoco” (l’elemento costitutivo e l’archè del mondo, a suo avviso) come un principio divino in grado di animare il mondo, in altri passi  il filosofo efesino espose invece una concezione materialista estremamente chiara, che suscitò le lodi (e le citazioni) sia di Lenin dopo quasi 2500 anni, nei suoi “Quaderni Filosofici”, che di Stalin nel suo “Materialismo dialettico e materialismo storico”. Eraclito infatti notò che “il mondo, l’unità di tutte le cose non è stato creato da alcuno né degli dei né degli uomini, ma fu, è e sarà un fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne”: rispetto a tale splendido passo, Lenin notò che esso diventava  “un’ottima esposizione dei principi del materialismo dialettico”.[4] Anche se quasi sempre Eraclito è stato presentato come un lontano precursore di Nietzsche, la “corrente rossa” fluì in modo notevole sia nella sua vita pratica che nell’impostazione generale della sua riflessione teorica: per Eraclito, infatti, l’élite reale non è certo l’aristocrazia del tempo avida di ricchezze  e privilegi, ma viceversa “saggi” che rinunciano al potere e a “saziarsi come animali”. Il “saggio”, secondo il grande filosofo efesino, è un asceta dedito agli studi e profondamente alieno, distante e ostile al processo di accumulazione di beni, schiavi e potere, interessato invece solo alla “gloria eterna” derivante dal processo di ricezione/trasmissione del livello più elevato di coscienza. La “folla” che Eraclito disprezza furono, paradossalmente e principalmente, proprio i ricchi e i potenti del tempo, proprio quella (cosiddetta) élite dei “migliori” che, per il filosofo, invece assomigliava moltissimo a una mandria di buoi: il comunismo ascetico degli intellettuali risultava pertanto l’utopia desiderata dal geniale pensatore efesino.

Sul piano teorico, spesso ricorre nel pensiero filosofico di Eraclito la contrapposizione fra i desti e i dormienti: è “unico e comune il modo per coloro che sono svegli”, ossia quelle persone, che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose, mentre “agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo  di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo”, riferendosi alla mentalità degli uomini comuni, i dormienti. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all’interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita. Il pensiero eracliteo è quindi aristocratico, in quanto egli definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante. Secondo Eraclito infatti “rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come animali”. In un’altra celebre definizione, Eraclito affermò che “uno è per me diecimila, se è il migliore”, ribadendo la chiara distinzione tra i “migliori” e “i più”, tra i “desti” e i “dormienti”: se non che Eraclito non affermò mai la tesi che i “migliori” e quindi i “pochi” fossero coloro che detenerono il potere, non essendo presenti nei frammenti ad esso attribuiti parole composte come “aristocrazia”, “oligarchia” e “monarchia”.

Tutta la vita di Eraclito risulta invece una concreta e diretta conferma del suo “comunismo aristocratico” degli intellettuali-asceti, a partire dalla sua volontaria rinuncia alle ricchezze. Infatti il filosofo efesino, secondo le testimonianze degli antichi (in primo luogo Diogene Laerzio) nacque da una famiglia nobile, dato che il padre (Bautore o Erachione, a secondo delle fonti) era un discendente di Androclo, fondatore di Efeso, possedendo una posizione relativamente estesa di terreno: ma nonostante discendesse da una famiglia di nobile origine, a Eraclito non interessava né la fama né il potere né la ricchezza, e nonostante in quanto primogenito avesse diritto al titolo di basileus (che in greco significava re ed era la massima autorità sacerdotale), rinunciò a esso in favore del fratello minore.

Quando il re di Persia Dario, dopo aver letto il suo libro “Sulla Natura”, lo invitò a corte promettendogli grandi onori, Eraclito rifiutò la sua proposta, rispondendogli che mentre “tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia” (che per Eraclito consisteva nel “placare l’insaziabilità dei sensi” e nell’ambizione al potere), “lui invece è immune dal desiderio e rifugge ogni privilegio, fonte d’invidia, restando a casa sua e accontentandosi di quel poco che ha”. Per il suo distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e per la ricchezza, Eraclito non piaceva molto ai ricchi, che erano esattamente l’opposto; per questo venne criticato da loro quando riuscì a convincere il tiranno Melancoma ad abdicare e ad andare a vivere nei boschi, ad aperto contatto con la natura. Visse a sua volta in solitudine nel tempio di Artemide ove, stando a quanto dice Diogene Laerzio, elaborò la sua opera “avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo”, trascorrendo gli ultimi anni prima della morte sui monti e cibandosi di sole piante: un vero asceta comunista, in estrema sintesi.

Ritornando al piano teorico, anche dai pochi frammenti ritrovati dell’opera eraclitea si può facilmente notare che il filosofo di Efeso subito rilevò che “comune a tutti gli uomini è pensare”, facoltà quindi disponibile senza distinzioni di classe o sesso, sottolineando poi che “se la felicità fosse nei piaceri del corpo, dovremmo dire felici i bovi quando trovano le vecce da mangiare; inoltre per Eraclito “giustizia condannerà gli artefici e i testimoni della menzogna”, dei falsi pensieri filosofici e politici, chiarendo subito che “il popolo” (non solo, e neanche principalmente i ricchi aristocratici) “deve combattere per la legge” (intesa come giustizia, razionalità collegata a sapienza) “come per le mura della città”.[5] Contro la brama di beni e la corsa sfrenata al processo di accumulazione di ricchezze che regnava nell’élite della sua città natale, Eraclito inoltre arrivò fino al punto di pronunciare una dura  maledizione di matrice ascetico-comunista: “non venga mai meno la vostra ricchezza, o Efesii, perché nelle vostre opere possiate essere svergognati”.[6]

Eraclito non condannò mai la guerra (polemos) nel suo complesso e a volte “oscuro” processo di elaborazione teorica, nel quale anzi lo scontro e la lotta – ivi compreso il conflitto armato – assunse anzi il decisivo e vitale ruolo di forza motrice essenziale e universale per il processo di sviluppo della natura e dei fenomeni umani, e come nel caso di Senofane anche il filosofo efesino non criticò apertamente proprietà privata e schiavitù, almeno dai pochi frammenti delle sue opere che sono state ritrovati.  Ma la potente vena e la tendenza antiaccumulatrice della sua praxis teorica (e pratico-individuale, a partire dal suo distacco volontario da ricchezze e privilegi) consentono di collocarlo tra gli esponenti principali della “linea meticcia” in campo filosofico-politico: si può interpretare il pensiero del filosofo efesino in senso filoclassista e solo facendo finta di non notare il significato sovversivo e “rosso” dell’odio espresso da Eraclito per la ricerca dei piaceri terreni e della ricchezza, in una società rigidamente classista quale era Efeso (e l’intera Grecia) alla fine del sesto secolo avanti Cristo, oppure passando sotto silenzio la sua condanna della “hybris” della superbia e “dismisura”, dell’avidità che contraddistingueva l’aristocrazia efesina di quel periodo. Infatti a giudizio di Eraclito bisognava “spegnere la dismisura più che la fiamma di un incendio” (frammento 108), anche se ovviamente non poté indicare i mezzi e i protagonisti capaci di “spegnere” la (sanguinosa, feroce) linea di marcia principale di una società ingiusta e classista, nella quale il rapporto sociale di produzione schiavistico e la “dismisura” a esso collegata stavano via via diventando sempre più importanti.

Oggetto dell’interesse di Marx fin dalla sua splendida tesi di laurea del 1841, rivolta al confronto tra le sue teorie e quella di Epicuro, il grande filosofo Democrito dimostrò un livello di elaborazione teorica comparabile a quello espresso da Eraclito, diventando assieme al suo maestro Leucippo il principale fondatore del materialismo meccanicistico all’interno della filosofia occidentale: e come in Senofane, nel suo pensiero emergono alcuni importanti spunti e tematiche di carattere democratico e egualitario, oltre che contrarie allo sciovinismo aggressivo che invece contraddistingueva la cultura e la concezione del mondo egemone nel mondo ellenico.

Democrito nacque ad Abdera, una città-stato greca nel 470 e morì in tarda età attorno al 370 a.C.: anche se ci sono rimaste poche notizie sicure sulla sua lunga esistenza, e soprattutto pochi frammenti delle sue molteplici opere, a partire dalla “Piccola cosmologia”, egli sarebbe cresciuto in una famiglia facoltosa ma avrebbe rinunciato a una parte dei suoi averi per dedicarsi esclusivamente ai suoi studi e all’osservazione sistematica della natura, all’inizio sotto la guida di Leucippo, trasferitosi ad Abdera dalla sua città natale di Mileto dopo una controrivoluzione di matrice aristocratica, avvenuta al suo interno nel 450 a.C. Grazie all’insegnamento di Leucippo, oltre che lunghi studi ai suoi numerosi viaggi, Democrito elaborò la celebre teoria atomistica contro cui polemizzarono aspramente Platone e Aristotele e che, secondo il corretto giudizio di L. Geymonat, “ebbe una funzione determinante, nel XVI e XVII secolo, per la formazione della scienza moderna”. Le categorie teoriche di atomo e vuoto, nella loro profonda connessione dialettica, risultano centrali all’interno dell’ontologia democritea, in aperto contrasto con l’opposizione irriducibile prevista dalla scuola elearica (Parmenide, Zenone, ecc.) tra essere e non essere. L’atomo secondo Democrito costituiva infatti l’elemento originario e fondante, l’archè dell’intero universo: un elemento che a suo giudizio non poteva essere percepito a livello sensibile, ma viceversa solo attraverso un processo gnoseologico di natura intellettuale e teso alla scomposizione – e ricomposizione successiva – del mondo sensibile. “Gli atomi erano concepiti come particelle originarie invisibili, come quantità o grandezza primitive e semplici (ovvero non composte), omogenee e compatte, la cui caratteristica principale era indivisibilità.

Pertanto Democrito contrappose alla divisibilità infinita dello spazio geometrico, sostenuta da Zenone con i suoi paradossi (celebre tra tutti quello della corsa tra Achille e la Tartaruga), l’indivisibilità dello spazio fisico, che trovava appunto nell’atomo un limite invalicabile. Gli atomi in quanto principio primo di ogni realtà, risultavano eterni ed immutabili, non erano stati generati né potevano essere distrutti, ma esistevano da sempre e sempre sarebbero esistiti. Gli atomi, però, in quanto particelle quantitative costituivano il pieno, che rimandava a sua volta necessariamente alla realtà di un vuoto in cui potersi collocare e in cui poter esistere. Il vuoto infinito costituiva quindi anch’esso una realtà originaria, analoga a quella degli atomi, poiché rendeva possibile la loro esistenza: infatti gli atomi non sarebbero stati nemmeno pensabili senza uno spazio vuoto infinito entro cui potersi muovere incessantemente. In questo illimitato vuoto spaziale non esistevano più punti di riferimento, tanto è vero che il filosofo greco, quasi anticipando il moderno concetto di infinito fisico, così affermò: “non esiste basso né alto, né centro né ultimo, né estremo”. Pieno e vuoto costituivano pertanto i due principi originali a cui ricondurre l’esistenza di tutte le cose e l’uno rimandava dialetticamente all’altro poiché la realtà era il risultato della loro inscindibile sintesi, secondo la concezione del mondo di Democrito. Inoltre gli atomi possedevano il movimento come loro caratteristica intrinseca, visto che essi si muovevano esternamente e spontaneamente nel vuoto, incontrandosi e scontrandosi: il divenire del cosmo e della natura e la molteplicità degli enti erano dovuti proprio a questo incessante movimento da cui tutto si formava per poi disgregarsi. Il movimento quindi costituiva una proprietà intrinseca e spontanea degli atomi e, come tale, non era generato da una causa esterna ad essi: spontaneamente, per loro natura, essi si muovevano. Dato che per Democrito gli atomi risultavano delle quantità infinitesime, erano del tutto privi di determinazioni qualitative: sono fatti tutti dalla medesima materia, ma differiscono per quanto riguarda gli aspetti quantitativi, vale a dire forma, ordine e posizione. Dal punto di vista della forma, ad esempio, l’atomo A era diverso dall’atomo B (la forma evidentemente includeva anche la grandezza): la posizione indicava il fatto che l’atomo A occupasse un posto diverso di quello di B; infine l’ordine (o contatto reciproco) indicava l’esistenza di una relazione A B che era diversa da B A. Tutte queste differenze, come si vede, erano di natura geometrico-quantitativa, e davano luogo ad una realtà caratterizzata esclusivamente dai rapporti quantitativi, secondo quell’idea che era stata già intuita dalla scuola pitagorica”.[7]

Sempre sul piano ontologico, il filosofo di Abdera sostenne cha anche gli dei risultavano formati di atomi e che soprattutto essi non si interessavano delle vicende e dei processi umani: una concezione deista in seguito ripresa da Epicuro e che entrava in evidente, diretta contrapposizione con la sovrastruttura e gli apparati religiosi della società classista ellenica. Democrito si interessò anche di etica, ritenendo che l’interesse prioritario dell’uomo dovesse essere l’acquisizione della felicità, da raggiungersi a suo avviso attraverso un processo di progressiva cancellazione della paura per via razionale. Il “filosofo del riso” e della gioia, come venne definito nell’antichità Democrito, sostenne inoltre – in latente antagonismo con le dinamiche della società classista greca del suo tempo – come la felicità non derivasse dal possesso e accumulazione “di beni materiali, nel prestigio o nel potere, ma nell’esser moderati e nel condurre una vita giusta: risulta necessario essere coraggiosi non in guerra, bensì contro i piaceri sensibili che rendono l’uomo schiavo dei sensi. Il razionalismo etico di Democrito assume come concetto guida il ragionamento dell’euthynia, ossia della tranquillità, della serenità dell’animo: vero saggio è colui che indirizza la sua vita a regole di moderazione, di accorda misura e di equilibrio, rifuggendo i turbamenti e le passioni. Il discorso morale di Democrito ebbe un carattere prevalentemente personale e privato, in quanto si rivolge al singolo e alla sua ricerca della felicità e del bene più che della comunità sociale e politica: la tranquillità interiore d’altro canto non implicò affatto la passività e l’ozio, anzi egli apprezzò la vita attiva e produttiva, affermando tra l’altro che: le fatiche sono più piacevoli dell’inerzia”.[8] Proprio partendo da questa base di elaborazione etico-sociale, dai pochi frammenti rimasti dell’elaborazione di Democrito emerge innanzitutto rispetto alla sfera politico-sociale l’allora e inedita categoria universale di uguaglianza, applicata anche e soprattutto alle relazioni umane. Il filosofo di Abdera infatti sottolineò che “bella in ogni cosa è l’uguaglianza: non mi garba né l’eccesso né la mancanza”, esprimendo in modo indiscutibile la sua preferenza a favore di rapporti sociali e politici di uguaglianza tra gli uomini, contraddistinti dall’assenza di processi tesi all’accumulazione delle ricchezze (“l’eccesso”) e dalla simultanea presenza di una quantità di mezzi di sussistenza sufficiente a garantire a ogni uomo un’esistenza dignitosa: il suo “non mi garba” “la mancanza”, la penuria materiale come la ricchezza, risulta una evidente indicazione a favore di una società egualitaria, senza poveri né grandi signori.

Ma non solo. Anche in base ai suoi viaggi e all’esperienza di filosofo-protoscienziato maturata via via nel corso della sua lunga vita, il grande pensatore di Abdera rilevò con forza che “la patria di un anima bella”, di un pensatore e di un uomo saggio, “è il mondo intero”. Seppur in forma ancora embrionale, quindi, Democrito iniziò a elaborare una concezione tendenzialmente ugualitaria per gli esseri umani di ogni etnia, sesso e nazione, superando decisamente il razzismo esplicito che caratterizzava invece la cultura classista ellenica verso i “barbari” e i non-greci: almeno rispetto ai saggi, ai pensatori e alle “anime belle” presenti nelle diverse aree del globo, sussisteva per Democrito un appartenenza comune a una comunità transnazionale, pacifica ed egualitaria, nella quale l’acquisizione di beni materiali e di potere/prestigio risultavano processi privi di senso e ipernegativi. In base ai suoi pochi iscritti rimasti, il filosofo di Abdera sembrava considerare lo stato, le leggi e le norme giuridiche della sua area di appartenenza in qualità di mali necessari e strumenti negativi in sé, ma indispensabili per il processo di riproduzione della collettività: ma anche in assenza di una sua chiara opzione collettivistica e di un progetto su ampia scala di ricostruzione ugualitaria dei rapporti sociali di produzione e di potere, la concezione politico-sociale elaborata da Democrito risulta tuttavia permeata da forti tendenze e spunti anticlassisti di natura umanistica. Senofane, Eraclito e Democrito andavano in ogni caso contro corrente, rispetto alla tendenza dominante nella civiltà greca del sesto e quinto secolo a.C., visto che in particolar modo la città-stato schiavistica di Atene, a partire dal 480 a.C., diventò sempre più la nuova patria d’elezione del processo di sviluppo della filosofia occidentale e mantenne tale egemonia culturale per più di un secolo, fino al grande “opus magnum” e ricapitolazione di Aristotele.

Nel periodo di massima fioritura di Atene, tra il 480 ed il 404 a.C., qualsiasi mansione poteva essere svolta da uno schiavo eccetto la politica, la sola attività sulla quale i cittadini detenevano il monopolio, mentre i rimanenti ruoli dovevano essere lasciati il più possibile ai non cittadini, schiavi o stranieri. L’attività che vedeva impiegati il maggior numero di schiavi era l’agricoltura, base dell’economia greca. Lo attesta un abbondante letteratura composta da manuali per proprietari terrieri (come l’Economico di Senofonte o quella di pseudo-Aristotele), e si ricorreva alla mano d’opera servile quando la forza lavoro richiesta superava quella della cellula familiare: nei grandi possedimenti, gli stessi amministratori erano per la maggior parte schiavi. Nelle miniere e nella cave, il lavoro servile era di gran lunga il più importante e vi erano vaste popolazioni di schiavi, spesso affittati da ricchi privati. Così lo stratega Nicia affittò un migliaio di schiavi alle miniere d’argento del Laurion, in Attica, Ipponico 600 e Philomides 300, mentre lo storico Senofonte stimò un totale di 30.000 mila schiavi che lavoravano al Laurion, nelle miniere d’argento gestite da Atene, o ai mulini a lavorare del materiale grezzo. Gli schiavi erano utilizzati anche nell’artigianato, alla maniera dell’agricoltura, ricorrendo loro solo se la mole di lavoro non era più sostenibile dal nucleo familiare: tuttavia la proporzione della mano d’opera servile era molto più importante nelle botteghe, visto che ad esempio la fabbrica di scudi di Lisia impiegava 120 schiavi, e il padre di Demostene 32 coltellinai e 20 fabbricanti di letti. Infine gli schiavi sono presenti anche in casa, in qualità di domestici che rimpiazzano il padrone di casa nei suoi mestieri e lo accompagnano nei suoi tragitti e viaggi, mentre le schiave si occupavano invece di faccende domestiche, in particolare della preparazione del pane e la fabbricazione di tessuti. Secondo le stime più prudenti di quasi tutti gli storici, il numero degli schiavi come minimo superava quello dei maschi liberi nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo: in questo particolare contesto storico, esplose in modo aperto la contraddizione e il duello teorico tra la “linea nera” e quella “meticcia”, tra Aristotele e Platone (influenzato sensibilmente dalla scuola pitagorica, su cui torneremo tra poco)…

Prosegue nella parte seconda…

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[1] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, volume primo, L’antichità, p. 49
[2] Op. cit., p. 49
[3] Op. cit., p. 56
[4] V. I. Lenin, Quaderni Filosofici, p. 334, ed. Einaudi; I. V. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico; Eraclito, I frammenti e le testimonianze, frammento 37, p. 21, ed. Mondadori
[5] Eraclito, I frammenti…, op. cit., frammento, 10, 101, 105 e 107
[6] Op. cit., frammenti 124
[7] Geymonat, op. cit., p. 152-153
[8] Geymonat, op. cit., p. 157-158

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