Appunti per una pedagogia comunitarista: Anton S. Makarenko

feb 18th, 2019 | Di | Categoria: Documenti storici

Appunti per una pedagogia comunitarista: Anton S. Makarenko

(Remo Coccia – Pedagogista)

 

La storia la scrivono i vincitori, sempre e ovunque, i vinti la subiscono. L’intelligenza dell’uomo però è capace di discernere le “verità” dai fallimenti, nonostante questi.

 

Nonostante l’URSS di Stalin, la rivoluzione dell’ottobre socialista e comunista del 1917 è stata e resta, a tutt’oggi, la più grande e meravigliosa esperienza di emancipazione delle classi subalterne dal dominio-sfruttamento di un ceto latifondista feudale e dall’appena nato sistema di relazioni capitalistico-industriale.

 

La rivoluzione d’Ottobre non significò solo questo, essa fu contemporaneamente la più grande esperienza di avvicinamento di intere masse popolari verso l’alfabetizzazione e la cultura. Chi nega questo, oggi, lo fa per miopìa storico-politica e per gretto opportunismo politico, in un “tempo presente” dominato dall’ assenza di idealità nell’azione politica e nell’elaborazione culturale (per fortuna è un dato limitato all’Italia, nella provinciale italietta).

 

Nel contesto dinamico del processo rivoluzionario russo, si iscrive la figura di Anton S. Makarenko, insegnante, pedagogista per necessità, quasi ignaro dell’ideologia comunista così come verrà affermandosi nel leninismo, ma favorevole ad un’emancipazione individuale e collettiva dell’uomo dalla schiavitù della povertà, materiale ed intellettuale. Un comunista per istinto più che per formazione.

 

Anton Semënovič Makarenko nasce a Belopolje (Ucraina), da una famiglia operaia, il 13 marzo 1888.  Il padre è operaio nelle officine ferroviarie. La figura paterna, di umile operaio alfabetizzatosi frequentando il sindacato socialista delle ferrovie, influenza molto la formazione politico-culturale del giovane Anton.

Successivamente ad un corso di pedagogia, nel 1905 Anton S. Makarenko, inizia la sua carriera magistrale nella scuola ferroviaria di Krjukov. Dal 1911 al 1914 insegna presso la scuola della stazione ferroviaria di Dolinskaja. Lo stesso anno per concorso, è ammesso all’ Istituto Pedagogico di Poltava.

Nel 1917 (nel pieno della rivoluzione) ritorna presso la scuola dove aveva iniziato la sua prima esperienza da insegnante. Dopo circa tre anni, il Commissariato del popolo per l’Istruzione ucraino gli affida la direzione di un’ istituzione per ragazzi abbandonati, che chiamerà “colonia Gor’kij”.

 

Nasce così il primo laboratorio pedagogico destinato ad accogliere ed educare giovani abbandonati o disadattati.

 

Con la “ Colonia Gor’kij”, Anton S. Makarenko inizia realmente la sua eccezionale esperienza di pedagogista e di educatore.

 

Nella seconda metà del 1927 sposa Galina Sal’ko (1891-1957), che lo introduce al pensiero comunista così come verrà elaborandosi nella Russia sovietica.

 

Nel 1928, i suoi metodi educativi risultano troppo all’avanguardia e non compresi, ma nonostante questo passa alla direzione della comune Dzerzinskij, sotto “protezione” della polizia politica sovietica (la temibile Ceka).

 

Altri incarichi sono, la vice direzione della Sezione delle colonie di lavoro del Commissariato del popolo per gli affari interni dell’ Ucraina (1935).

 

Nel 1937 inizia un’intensa attività di scrittore, si trasferisce a Mosca e inizia un’instancabile attività di divulgatore pedagogico e conferenziere.

 

Anton S. Makarenko, muore improvvisamente per un arresto cardiaco il 1° aprile 1939.

 

L’opera più famosa di questo pedagogista è il “Poema Pedagogico”.

Makarenko lo scrive in forma di romanzo, narrando l’inizio della “Colonia Gor’kij”, del suo peregrinare da struttura a struttura, da paese a paese, nell’Ucraina post- rivoluzionaria.

 

Un metodo pedagogico espresso in poema

 

“Nel settembre del 1920, il direttore dell’ufficio provinciale mi fece chiamare e mi disse….”, così inizia il Poema Pedagogico, attraverso un’accesa discussione fra il Direttore dell’ufficio provinciale scolastico (istruzione popolare) e Anton S. Makarenko.

Quest’ultimo si lamentava perché nella scuola dove insegnava (un istituto professionale) vi erano banchi rotti e pareti che cadevano a pezzi. Il Direttore gli rispondeva facendogli osservare che l’insegnamento non era questione di banchi nuovi, che la qualità dell’ educazione non poteva dipendere da edifici nuovi di zecca e aule perfette, soprattutto nella “visione” di quel periodo pieno di speranze ma anche di miserie dovute da un lato alla rivoluzione e dall’altro alla guerra civile in corso.

 

“Voialtri pedagoghi fate solo del sabotaggio: non va bene l’edificio, non vanno bene i tavoli. Vi manca proprio quel…..sai? quel fuoco dentro, quel fuoco rivoluzionario. Tirate a campare!” .

 

Anton S. Makarenko non poteva saperlo ancora, ma quelle parole, con cui gli veniva affidato l’incarico di costruire una colonia per “giovani delinquenti e sbandati”, avrebbero cambiato la sua vita e gettato la basi della nuova pedagogia sovietica che influenzerà il pensiero e l’elaborazione pedagogica mondiale.

 

Lo Stato Sovietico affida ad un giovane insegnante la costruzione di una colonia per giovani delinquenti e sbandati, figli di un’epoca segnata da un’estrema povertà e dalla corruzione, intesa però a riscattarsi attraverso la rivoluzione socialista del “proletariato di tutto il mondo unitevi”, del “né servi né padroni”.

 

La rivoluzione Sovietica voleva essere compimento e conclusione di un’altra rivoluzione, avvenuta più di un secolo prima e altrove, in Francia, della “libertè, ègualité, fraternité,”.

Come la Rivoluzione Francese, vero spartiacque fra l’epoca medievale e contemporanea, la rivoluzione Russa ebbe poi il suo terrore giacobino, il suo termidoro, e dunque il suo Napoleone. La storia, si sa, quando tende a ripetersi crea solo mostri.

 

Come per la Rivoluzione Francese, anche per quella Russa il sogno lasciò il passo alla bestialità dell’uomo, all’infrangersi di quel già labile confine fra tensione “mistica”, utopica, di libertà da un lato, e  autoritarismo, imposizione dall’altro.

 

Nonostante quello che poi si rivelerà l’URSS, nel periodo qui considerato (1917 – 1930) i margini di libera “libertà” erano molto ampi rispetto anche a molti sistema-stato europei ed occidentali in generale.

La Carta Costituzionale Sovietica fin dal 1917 introduceva, ad esempio, molte di quelle libertà e diritti civili che faticheranno, e  per alcuni casi faticano ancora oggi, ad affermarsi in alcune democrazie occidentali (ad esempio il diritto al divorzio e all’aborto, alla cura e all’istruzione gratuita e per tutti, al voto alle donne, alla parità uomo-donna nei posti di lavoro e negli organi di rappresentanza politica, al reato di discriminazione e razzismo, ecc.).

 

Come ben espresso attraverso le parole che il Direttore  dell’ufficio scolastico provinciale rivolge a Makarenko, molti uomini e donne vivevano quel periodo mossi da “un fuoco dentro” che li spingeva a guardare con ottimismo al futuro e “corciarsi le maniche” per costruirlo.

 

 

L’onda emancipatrice della rivoluzione

 

Nonostante una certa storiografia ufficiale, occidentale, descriva la rivoluzione Russa come un colpo di stato di poche migliaia di comunisti, molti testimoni oculari (soprattutto americani ed inglesi) ci hanno riferito che essa fu un grande movimento di popolo e di idee. Democratici, comunisti, socialisti, anarchici, liberali e socialisti utopistici, lanciarono le parole chiave che destarono in milioni di genti la sommossa che detronizzò l’ultima monarchia assoluta di tipo feudale dell’Europa. Il 1917 fu preceduto dal 1905, ovvero due rivoluzioni che educarono il popolo, che chiedeva pane e libertà, a disciplinarsi attraverso organizzazioni politiche e sindacali attraverso i quali rovesciarono definitivamente la barbarie zarista.

Due uomini si affermarono per le loro lucide analisi sul da farsi, Lenin e Trotsckij. Quest’ultimo, in particolare (mentre Lenin era in Scandinavia nascosto sotto una parrucca bionda), teorizzò e cercava di realizzare la prima forma di democrazia partecipativa: il Soviet. L’idea del Soviet (consiglio) concepiva un sistema-stato organizzato in comunità autonome, ognuna di queste si regolava, nelle leggi e nel funzionamento, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini ai soviet, appunto.

L’obiettivo generale era quello di liberare il collettivo dal dominio di pochi uomini (i burocrati delle leggi, dello stato, delle istituzioni) creando forme di partecipazione diretta alla gestione e alla conduzione ed elaborazione della “cosa pubblica”. In Italia sarà Antonio Gramsci a teorizzare qualcosa di simile.

 

Partecipazione collettiva attraverso organi di base deputati alla gestione della comunità. La comunità come fondamento della società intera. Il collettivo come processo e percorso culturale da contrapporre all’individualismo.

 

Questo sogno politico, sociale e culturale si ripercuoteva nella nascente scuola e pedagogia sovietica. La parola d’ordine, soprattutto in ambito intellettuale e studentesco, era: “basta con la disciplina da caserma!”. Era naturale approdare verso miti libertari dopo secoli di cieca oppressione in tutti gli ambiti della vita. In questa parola d’ordine vi era la sacrosanta necessità di farla finita con una disciplina puramente esteriore, con metodi educativi completamente supini alle logiche del potere costituito.

Ma i pericoli di questo estremismo libertario erano la deriva verso nuove forme di individualismo attraverso l’esaltazione del mito naturalistico dello sviluppo puramente spontaneo della personalità dell’uomo e del fanciullo. Nelle scuole, infatti, si arrivava a negare ogni forma di autorità al maestro, condannando qualsiasi intervento dell’adulto nel processo educativo del bambino. Anton S. Makarenko, in contrasto con l’allora “Mondo Pedagogico” si oppose a tale deriva libertaria.

 

Per comprendere meglio il punto di vista pedagogico di Makarenko, occorre ricorrere a Gramsci che quasi contemporaneamente e pur non conoscendosi, arrivava alle sue stesse conclusioni a proposito della pedagogia libertaria.

 

Gramsci scriveva ai figli, ancora piccoli e alle prese con l’alfabeto: “non si è liberi di scrivere da destra verso sinistra” e continuava rimproverando alla moglie, affettuosamente, di essere imbevuta di “spirito ginevrino”, di lasciarsi andare a torto al mito dell’”educazione secondo natura”, che aveva trovato nell’Emilio di Rousseau la sua più completa espressione.

 

La preoccupazione di Gramsci era l’affermarsi di una sorta di “anarchia culturale” nei rapporti docente-discente o educatore-educando.

 

Tale preoccupazione caratterizzò l’opera educativa di Makarenko durante tutta la sua attività. Da un lato si voleva che il bambino, il ragazzo, potesse affermare sé stesso nella più completa libertà di linguaggio e di azione, dall’altro si cercava di preservare il collettivo dalla piena e totale affermazione dell’individualità. Ogni individuo è in sé importante ed è valore aggiunto in termini di ricchezza culturale ed esperienziale per gli altri, dunque è giusto che l’individuo abbia le proprie aspirazioni da realizzare.

Un collettivo però non è solo e semplicemente la somma di più individui; nel collettivo nasce un’intimità affettiva o relazionale (dettata da necessità comuni) capace di creare aspettative e aspirazioni condivise, capaci a loro volta di fare “società”.

Come in una catena di anelli, dove ogni anello è necessario affinché la catena risulti solida, armoniosamente compatta e resistente agli agenti negativi esterni, così nel collettivo ogni individuo è fondamentale , ma in ultima analisi deve rispondere a regole ed equilibri necessari alla resistenza, all’armonia e alla compattezza della “catena” della comunità.

 

Questo non significa che una comunità, una società debba essere sempre uguale a sé stessa, tutt’altro. Ogni comunità deve aprirsi al contributo e alle novità espresse da istanze generazionalmente e geograficamente nuove e diverse, deve garantire i diritti individuali e realizzare le aspirazioni di ognuno dei suoi membri, ma non subordinare l’interesse generale all’interesse particolare.

 

 

Conclusioni (aperte)

 

Oggi, le società, le comunità sono disgregazioni di individualità, di clan, in quanto non esiste nessun collante utopistico verso cui tendere se non il profitto in quanto tale e, proprio perché tale, la supremazia dell’uomo sull’uomo.

E’ fondamentale non solo l’ “utopia” come collante fra gli individui, ma soprattutto il tipo di relazione fra le generazioni di individui. Se Makarenko riconosce fondamentale il “conflitto” fra le generazioni come motore della crescita, non solo individuale ma anche sociale e culturale,  allo stesso modo è fermo nel rivendicare la gestione del conflitto attraverso momenti deputati all’incontro-scontro (i consigli di istituto, di quartiere, i Soviet) in cui l’adulto non assume le vesti del padre-padrone ma neanche si conforma al ragazzo (insegnanti-amici, educatori-giovanilisti, ecc.) ma ne riconosce semplicemente le competenze, ne riconosce a pieno titolo la “cittadinanza”.

 

Nella “Colonia Gor’Kij” la vita di comunità era regolata innanzi tutto dalla semplice imposizione naturale di dover mangiare per vivere, e quindi organizzare il lavoro nei campi e nei laboratori artigianali. Questa organizzazione però avveniva attraverso la “partecipazione partecipata” di tutti i membri della Colonia, indipendentemente dal ruolo ricoperto (insegnante, direttore, allievo, ospite).

 

L’incontro avveniva attraverso le competenze e si abituavano i ragazzi a incontrarsi-scontrarsi su queste in base alle diverse necessità della Colonia (non dimentichiamo che gli ospiti e gli allievi della “Gor’kij erano “giovani sbandati”, assassini, ladri, orfani, o come diciamo oggi, con i nostri a volte un pò melliflui termini, adolescenti a rischio di devianza, di emarginazione sociale, ecc.). E’ molto interessante leggere, nelle pagine del Poema Pedagogico, la vicenda di un ragazzo, inviato alla “Gork’ij” dopo mesi di prigione ( per necessità rubava e incidentalmente uccise un uomo durante un furto) che, nella necessità della Colonia di dotarsi di un mezzo di trasporto, scoprì e fece conoscere agli altri di avere doti manuali e meccaniche notevoli assumendo formalmente nella comune il ruolo di responsabile officina.

 

A ognuno in base alle proprie necessità, da ognuno in base alle proprie capacità.

Il rapporto tra pari o fra le generazioni non avveniva attraverso masturbazioni psicologistiche ma attraverso il “fare”. Metodo utilizzato molti anni dopo da don Milani nella sua “scuola di Barbina”. Il “fare” come collante fra gli individui e nel gruppo.

 

 

 

 

 

L’etica del lavoro, come base per lo sviluppo di valori morali comunitari, e la costruzione di una prospettiva sociale, è prioritaria rispetto alle altre dimensioni dell’educazione.

Nell’opera di M. si percepisce l’importanza del “fare” come base per il confronto-relazione fra gli individui. Il lavoro come momento di condivisione di saperi e di conoscenze. Intendendo per lavoro ogni attività umana svolta individualmente e in gruppo il cui fine è il miglioramento della qualità della vita globale della comunità. Dal lavoro dei campi alla pittura artistica, l’attività del singolo o del gruppo è indirizzata al bene del collettivo in cui riconoscere la propria e individuale utilità, il singolo talento. Discriminante sociale non è il possedere (in termini di ricchezza materiale) come lo è oggi in occidente ma è l’essere nel collettivo.

La comunità trova in sé le risorse per sostenere i propri componenti nelle vicissitudini quotidiane, materiali ed esistenziali, attraverso l’etica del lavoro.

I luoghi dell’esistenza dell’individuo sono quelli necessari alla comunità, la libertà non è lo spontaneismo individuale ma è l’accettazione responsabile di regole, la democrazia non è delegare ad altri fuori-da-sé il potere di decidere ma è concreta esperienza vissuta attraverso la partecipazione reale alla vita del e nel collettivo. La solidarietà non esiste, esiste la condivisione.

Quando, in una comunità e in una società in generale, si arriva a parlare di opere buone e ad organizzare istituzioni per l’aiuto ai bisognosi, per la solidarietà ai più deboli, occorre prendere atto che quella comunità e quella società, o meglio i modelli culturali che la ispirano, sono fallimentari.

I luoghi delle opere buone sono la condivisione quotidiana, nel bene e nel male, il senso di appartenere l’uno all’altro in quanto membri di un medesimo spazio geografico ed esistenziale.

Martin Lutero soleva dire: un calzolaio che ripara bene le scarpe, compie lo stesso servizio divino del prete all’altare.

 

 

 

Educare alla socialità e alla cooperazione di gruppo è indispensabile, se il legame sociale permette l’espressione creativa e l’accettazione consapevole dei ruoli


Prefazione

L’autore che ci accingiamo a scoprire costituisce la massima espressione di un pedagogista così lontano come periodo storico ma tanto vicino come modello d’ispirazione di un formatore d’uomini.

Basterebbero metà delle caratteristiche esplicitate da Makarenko per diventare un buon educatore o formatore in ogni settore della nostra società.

Makarenko, determinato, ottimista e coraggioso, inizia l’esperienza educativa nel suo modo ideale di vedere l’uomo e la società.

Non ha ancora un metodo scientifico per fare questo, come d’altronde si può capire dai suoi testi più famosi che compone scrivendo ciò che è stata la sua reale esperienza e non in un modo che già qualsiasi altra procedura metodologica avesse individuato e sperimentato.

Di conseguenza viene anche lui influenzato dall’ideologia sovietica e dalle condizioni disastrose del suo paese ereditate dallo zarismo, trovando nell’educazione del collettivo il giusto mezzo per una  ricostruzione dell’uomo nuovo e della nuova società dopo i notevoli cambiamenti socio-politici avvenuti nella sua epoca.

 

SU

 

 

Opere

Makarenko quando scrive le sue opere predilige la forma di narrazione del “romanzo” pedagogico, perciò durante il racconto, le sue idee assumono forme figurative. Oltre alle opere che andremo a sintetizzare, negli ultimi anni della sua vita (1937-1939) egli redige molti scritti, partecipa a diverse conferenze esponendo sempre e comunque i punti fondamentali delle sue esperienze educative pedagogiche.

Le opere di maggiore importanza sono:

Ø      POEMA PEDAGOGICO (1928)

In questo scritto, pur mantenendo una tonalità romanzesca, vi è una narrazione più specifica dei fatti fondamentalmente veri:

§    tratta la creazione di un collettivo partendo da individui traviati e abbandonati e come esso operava;

§    descrive il principale strumento di educazione, il collettivo e indica il carattere dialettico del suo sviluppo;

§    mostra il collettivo in azione.

Tra le righe del Poema si viene a conoscenza che i fondatori della Colonia “Primo Maggio”, sono dei Pedagogisti e l’incognita del “Dopo Rivoluzione”, è “Educare l’Uomo Nuovo”. La Colonia era ubicata a Poltava in mezzo a villaggi e campi, nello stato dell’Ucraina; con il passare degli anni (precisamente otto, dal 1920 al 1928) il collettivo si arricchiva sempre di più ragazzi e nei villaggi circostanti aumentava la maturazione politica dei giovani che sentivano ormai il potere e lo “spirito comunista” influenzati dalla presenza della “gioventù comunista” della colonia stessa.

Ø   MARCIA DELL’ANNO ’30

Scritto nel 1930 e pubblicato nel 1932, Makarenko presenta la vita della comune Dzerzinskij dal 1927 al 1930, toccando in brevissimi capitoli i principali elementi della sua organizzazione pedagogica.

Ø   BANDIERE SULLE TORRI (1938)

E’ un romanzo pedagogico scritto e pubblicato nel 1938 e rappresenta la logica maturazione delle idee del Poema. In questo testo si parla del Collettivo quale protagonista già perfettamente formato e organizzato dove vi lavora energicamente il gruppo della “Gioventù Comunista” e vige in pieno l’Autogoverno con il “Centro”, il direttore, i reparti e relativi comandanti, il consiglio, le assemblee generali.

 

 

 

Lascia un commento