Leo Ferrè poeta contro, cantore dell’immaginario -

mar 15th, 2019 | Di | Categoria: Cultura e società

 

- Brel – Ferrè – Brassens -

 

 Questa lezione su Leo Ferrè è stata tenuta alla Scuola Popolare di Reggio Emilia.

Reggio Emilia 29 settembre 2017 –

 

 

Leo Ferrè poeta contro, cantore dell’immaginario –

 

 

Proveremo a tracciare un percorso che nelle intenzioni vuol portarci a comprendere l’opera di Leo nei suoi fondamenti poetici e musicali lasciando una traccia utile per l’approfondimento; ci accontenteremo di avere stimolato “curiosità”.

Immensa senza dubbio, è fuori di metafora, la sua opera: più di cinquecento canzoni, cinquanta album, due opere, una sinfonia, la messa in musica di cento poemi dei poeti “maledetti”, un romanzo, innumerevoli saggi, tre libri di poesia. Per quaranta anni è stato acclamato in tutta Europa, ma anche in Canada e Giappone, mentre in Italia è stato sottoposto a una forte censura, nonostante abbia vissuto gli ultimi vent’anni della sua vita a Castellina di Chianti con la sua ultima moglie e i figli.

E’ stato acclamato come uno dei poeti e musicisti di maggior statura del 900. La critica più esigente ha riconosciuto in lui un fenomeno raro, un puro letterato con il talento smisurato del grande compositore.

Ferrè il grande, Ferrè l’immenso…..il mare in tempesta, l’uomo che scuote le coscienze con le parole, con la musica, con la musica delle parole, coi significati delle note.

 

Arriva a Parigi nel ‘46 mettendo in pratica un progetto interdisciplinare che aveva maturato; incrociare la poesia con la musica, elaborando il progetto di una nuova forma cantata di versi scritti.

Rispetto alla nascente canzone di Saint – Germain la sua è un tipo di canzone più colta e raffinata nella parte letteraria, più vibrante e asciutta nelle veste musicale e, sopratutto più provocatoriamente libertaria nei contenuti sociali e politici.

L’altra costola del lavoro di Ferrè, la costola da cui rinascono, attraverso il veicolo emozionante da una lato e il misterioso dall’altro della musica, le opere dei poeti maledetti: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e altri appartenenti a scuole ed epoche diverse.

Apollinaire, Angiolieri, Pavese, Villon. L’elenco è lunghissimo, dagli anni ‘50 e per tutta la vita dedica gran parte del suo impegno alla messa in musica dei poeti. Occorre ricordare che compone la musica e gli arrangiamenti e dirige le esecuzioni con orchestre anche di 90 elementi. Sarà anche direttore d’orchestra in alcuni concerti in Europa, con musiche di Beethoven e Ravel.

 

Possiamo a questo punto identificare alcuni fronti fondamentali lungo il suo percorso artistico:

 

a) la canzone ancora legata alla tradizione francese, ma già epurata dal melò o dal realismo bozzetistico che diventa canzone “alta” di un nuovo corso poetico, ironico e rivendicativo.

 

b) le sue poesie cantate dove l’elaborazione formale di dimensione letteraria viene proposta al grande pubblico e dove anche la musica s’apre a spazi ora estatici ora tumultuosi.

 

c) Le prose poetiche in chiave di requisitoria insurrezionale recitate sempre con supporto musicale di fondo.

 

d) La messa in musica dei poeti per divulgarli nelle strade.

 

e) Le opere cioè la “summa” di tutto questo fardello creativo, “la vie d’artiste” e “l’opera du pauvre”, quest’ultima deriva da un libretto del 1956. Divisa in 4 parti per circa tre ore d’ascolto, per tutti gli studiosi di Ferrè è il massimo risultato di questo artista dal punto di vista poetico, musicale, interpretativo e drammaturgico. Leo Ferrè da vita a 15 personaggi attraverso metamorfosi continue, cantando, recitando. Il tema di un tribunale notturno di animali che deve giudicare la Notte, accusata di aver ucciso la Morte e di averne occultato il corpo. Tutte le tematiche dell’immaginario, tutto l’altrove evocato, le  rivendicazioni contro l’universo venute a rapporto con u dossier; tutte le fasce musicali jazz-pop, sinfonico, classica, si danno a convegno ortografico e sonoro in un grande falò che trova la sua coesione implodente nella voce-detonatore di Ferrè.

Le canzoni, le poesie, le prose poetiche potrebbero vivere autonomamente, separate dalla musica e dalle voce e sarebbero pura poesia.

E così anche la musica potrebbe esistere staccata dal testo e dalla voce, è la sua compiutezza grandiosa e profonda, raffinata, tenera e impetuosa, vivrebbe come epica del suono.

Ed infine la voce, la voce che da sola è tutto ciò che si è detto fin qui e che senza altri supporti provocherebbe ugualmente forti e irripetibili emozioni.

La scrittura di Ferrè e la sua concatenata interpretazione orale o canora, è carica di veemenza, di livore, di sfida che diventa anatema alla pari di un urlo, diventa collera, un richiamo irrevocabile a fermare le mani della tirannia, dell’imbecillità, uno sdegno viscerale contro l’autorità che si placa solo inneggiando all’insurrezione permanente.

Sembra dopo il ‘68 sotto l’urto esterno di quel fenomeno di rivolta, al quale da la sua adesione, trovare un estetica della lotta e sembra voler farla combaciare con quella artistica, una specie di esperanto dell’immaginario stesso.

 

“Finirò per trovarlo / questo stile dell’invettiva / ho il foglio che mi necessita / e anche l’inchiostro / aspetto”

 

Diventa una sorta di dinamitardo linguistico.

 

Per ultimo l’anarchia di Leo Ferrè: “L’anarchia è anzitutto un concetto umano, prima di tutto amore, poi solitudine, perché l’anarchia è la negazione di qualsiasi autorità. Ecco se la gente conoscesse l’anarchia sarebbe anarchica, così come sarebbe innamorata.”

 

La copertina del maggio ‘68 di “Le monde libertarie” (mensile della federazione anarchica di Francia), vede una sua foto con la sua scritta autografa: “Viva l’anarchia con una grande A come amore!”

Ferrè frequenta il gruppo “Luise Michel”, definirà Bakunin, “compagno vitamina”, frequenterà i fuoriusciti anarchici della guerra civile spagnola, farà un recital ogni anno per sostenere la stampa anarchica.

L’anarchia sarà presente e urlata nei suoi testi.

 

I fratelli adottivi da cui Ferrè si farà adottare, sono tutti coloro che in un modo o in un altro, con metodologie politiche violente o con strumenti strategici vellutati, vengono sistematicamente – in tutte le epoche – emarginati, repressi, condannati dalla società civile, che Ferrè definisce “l’orrore civile”. Parla dei condannati a morte commissionati dallo stato, del capitalismo inumano e vampirico, del socialismo reale livellatore e poliziesco, delle nefandezze del clero e della illusorietà delle religioni, della vuotezza squallida e desolante della borghesia, dei soprusi legali dei militari.

Canzoni come “Mon General” (contro De Gaulle) “Franco la muerte, monsieur Tout-Blanc” (contro il silenzio di Pio XII sull’olocausto) “Le tangò del Nicaragua, contro le prigioni di Castro a Cuba, “thank jou Satan” dedicata in ogni recital a Bobby Sands e ai repubblicani irlandesi.

Leo Ferrè accoglie e fa suoi i movimenti di protesta giovanili, dai Beatnik americani, ai quale urla in una canzone a loro dedicata “beatnik fatti anarchico”.

 

“Nel mio paese laggiù, non ci sono capi, non ci sono mezzi capi, non ci sono sottocapi, perché il potere quando si mette un cappello, diventa il potere della merda, e noi di merda ne abbiamo abbastanza, del potere della merda”.

Gli slogan “la musica nelle strade” poi la scuola di poesia dove non si impara, ma ci si batte:”il disordine è l’ordine meno il potere.”

L’altro per Ferrè include anche gli animali, cui si circonderà per tutta la vita. La morte di Pepeè, la scimmia fatta uccidere dalla moglie, lo segnerà profondamente.

Pepeè era uno scimpanzè femmina acquistato da un gruppo di girovaghi. Diventa intimo con la famiglia: mangia dorme vive con lui, dividono la stessa vita. Rientrando un giorno da un concerto, scopre che la sua prima moglie, con la complicità di una guardia l’ha fatta uccidere.

Dedicherà a Pepeè una poesia messa in musica, ed ogni volta che eseguiva questo pezzo, si alzava dal piano e….abbracciava il vuoto, creando una forte emozione tra il pubblico.

 

Leo Ferrè era il bambino che senza conoscere una nota, sognava di dirigere orchestre, il ragazzino internato in un istituto religioso a Bordighera, dall’età di otto anni e per nove anni. Quando la madre incontra il religioso che dovrà occuparsi di lui (lo cede in affittanza pedagogica) dice: “ecco padre, Leo Ferrè”. “No” esclama il sacerdote “Leo 38, il suo numero di matricola.”

Il padre un borghese, direttore del casinò di Montecarlo, dopo i suoi primi successi e le pesanti critiche della stampa, gli intimerà di non usare il cognome, perché lo infanga.

Straordinario il suo telegramma a Piero Grassi, direttore Rai, che lo aveva censurato. La censura viene definita “il terrorismo degli imbecilli”.

Ferrè è il trionfo dei contrari, della coerenza, della libertà, della rivoluzione, dell’amore.

 

 

Viappiani Annibale 22/1/2009 –

 

 

 

 

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