Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno

apr 3rd, 2019 | Di | Categoria: Recensioni

di Gabriella Baptist

Jean-Luc Nancy

Cascare dal sonno

a cura di Rosella Prezzo

«Casco dal sonno» – così inizia la suggestiva riflessione filosofica di Nancy sul sonno –, come cado nella disperazione, nella spossatezza, discendo giù, sprofondo, sono prostrato, mi abbandono, mi lascio andare, rinuncio al controllo, all’autocontrollo. Ilsonnoriassume in effetti tutti i miei cedimenti, rinunce, fallimenti: vengo meno, manco, mi ritiro, mi assento, mi svesto dei miei panni, mi metto in disparte, sono vinto. Contrario ad ogni attenzione e intenzione, all’interesse, alla tensione – infatti mi stendo, sono disteso –, alla proiezione, allo slancio, all’attesa, al progetto, all’obiettivo, al calcolo, il sonno mi avvicina al grado zero della coscienza, all’inerzia e al torpore del corpo morto, alla sospensione radicale di ogni soggetto e alla sottrazione totale di ogni oggetto: affondo in una postura prostrata, coincidendo con ciò che mi è più intimo e che nel sogno si sa paradossalmente non sapendosi, e insieme aderisco perfettamente a ciò che mi è più esteriore, la mia stessa posizione, il luogo in cui mi abbandono, come se fossi ormai solo un sasso, una pianta o un animale in letargo. Sono in modo amorfo insieme dentro e fuori rispetto allo spazio e al tempo, un’esistenza assoluta senza nessun altro attributo, quasi una cosa in sé o un puro per sé senza io, nel senso di una presenza assente e apatica.

È in effetti una fenomenologia e un’ermeneutica paradossale quella proposta da Nancy, che anzi, riferendosi implicitamente a Maurice Merleau-Ponty, sottolinea: «non c’è fenomenologia del sonno», visto che il sonno è un «apparire che appare solo in quanto inapparente» e perfino il «fenomenologo desto che si avvicina al suo letto [percepisce] solo l’apparenza della sua sparizione, l’attestazione del suo ritiro» (p. 29) e a voler descrivere il suo stesso addormentarsi o manca la descrizione del suo perdersi o perde il sonno. Ma il sonno non è neanche – e qui è evidente il rimando implicito a Martin Heidegger – un’esperienza di autenticità o di ritorno ad un qualche fondamento di senso, visto che si dorme, gli uni come gli altri, e il sonno è appunto un «non essere più propriamente nel rapporto della proprietà di sé» (p. 28). Deponendo ogni intenzione e ogni costituzione, l’“io sono”, mormorato dall’inconscio nel sonno è un sé senza sé (cfr. ibidem: «Il “chi sono io?” si disgrega nella caduta del sonno»), assoluto nel senso letterale del termine: sciolto da ogni rapporto e connessione. Liberato dai suoi legami?

Cadendo nel sonno, sono in realtà io stesso il baratro in cui mi tuffo perdendomi, visto che non posso dire di star dormendo (come non posso dire di essere morto); ma non posso neanche dire di essere rientrato in me. Nel sonno il soggetto risucchiato che ha perso ogni controllo su di sé è di fatto spossessato, sottratto ai suoi aspetti e alle sue funzioni, concentrato in quell’unica funzione che non lo fa più funzionare: sono intento ai lenti processi metabolici e nutritivi che mi percorrono, mi alimento delle mie riserve, assimilando in qualche modo me stesso, respiro altrimenti, non mi distinguo più né dal mondo, né dagli altri e neanche da me stesso, coincido con il mondo qui e ora, con il luogo del mio esserci, con il tempo di un presente sottratto alla morsa e alle ossessioni del passato e del futuro: sono cioè rientrato in quella chora sostanziale che il soggetto contemporaneo, nel suo delirio di onnipotenza e nella sua frenesia produttivistica, ha del tutto occultato.

Dormendo mi cancello, diventando un paradosso a me stesso: esisto come un’inesistenza (cfr. p. 32), vedo l’eclissarsi della visione, lascio che prenda forma l’informe, che si realizzi una perfetta derealizzazione, che si levi il cadere e trionfi il sé dell’assenza a sé. Ma è proprio in queste contraddizioni che può trovare spazio l’inconscio:

Si potrebbe dire che il sogno si sa inconscio e, attraverso di esso, il sonno intero si sa e si vuole tale: la sua caduta non è una perdita di coscienza, ma l’immersione cosciente della coscienza nell’inconscio che essa lascia salire in sé nella misura in cui vi sprofonda. La verità di questa immersione supera e travolge ogni tipo di analisi (p. 22).

Il riferimento evidente alla psicoanalisi accompagna filosoficamente il rimando a Hegel e a Kant (cfr. p. 31) e l’implicito, ma pervasivo, riferimento al De anima di Aristotele o all’immagine cartesiana della nave e del suo nocchiero, e naturalmente allo Heidegger della Geworfenheit e della Gelassenheit, inframezzati dai numerosi abbellimenti mitici o letterari (a partire dall’esergo ripreso da un racconto di Nathaniel Hawthorne). Così si profila il gioco delle discese e delle risalite della coscienza, il gioco libero di distinzioni e indistinzioni, gli avanti e indietro di estensioni ed espansioni in nessun luogo e in nessun tempo: un’oscillazione che è quella del tremito della vita, del dondolio di una culla o della cadenza di una nenia, ritmi che abbiamo perduto «tra qualcosa e niente, tra il mondo e il vuoto» (p. 57). Più che il corpo o la mente o lo spirito, messi, per così dire in folle, per Nancy è l’anima ad animare il sonno (e la veglia), a sonnecchiare in veglia e a vegliare nel sonno, tenendosi sui bordi e in superficie: un’anima reclamata e che abbiamo trascurato, la psiche estesa di Freud, che non sa di esserlo, la natura dormiente di Hegel, che pure si risveglia. Perciò oggi il mondo è per Nancy un mondo

senza sonno né veglia. Che dorm[e] in piedi, che vegli[a] assopito. Sonnambolico e sonnolento. Mondo privo di ritmo, che si è tolto la possibilità di vedere i propri giorni e le proprie notti corrispondere al regime di una natura o di una storia. […]
Come dormire in un mondo senza ninnananna, senza un quieto ritornello, senza capacità d’oblio, senza inconscio […]?
Come dormire, una volta disfatta l’anima […]? (pp. 66-68)

Ma forse il tratto più significativo della riflessione filosofica di Nancy sul sonno è nell’accentuazione del suo tratto egualitario: tutti cadono infatti nello stesso sonno, l’esperienza del dormire ci è comune, pur essendo in linea di principio impossibile condividerla: «Tutte le notte sono uguali. Tutte sospendono ugualmente il tempo della differenza, delle differenziazioni di ogni tipo» (p. 40), anche se, come per la morte nella celebre poesia di Totò, anche nel caso di questa esperienza livellatrice restano ugualmente marcate, e anzi in grande evidenza, le differenze di classe, di censo, di collocazione, di provenienza: neanche nel caso del sonno cadiamo infatti in una fossa comune. Significativo è anche il potere di resistenza e di resilienza che comunque ne risulta, nel richiamo ad una onestà intellettuale che vuole far sul serio nell’assumere le proprie quotidiane apocalissi anche alla luce di un giudizio (universale?) da non mancare:

Non, dice il dormiente come il morto: non ci sono. Non lì, non ora, non qui, non così. Cercate altrove (p. 73).
Se resta sempre vero – di una verità assai severa – che il sonno della ragione genera mostri, non meno vero è che è anche lasciandosi disporre al sonno, al sogno e alla possibilità di non risvegliarsi più, che il pensiero si lascia risvegliare all’ultimo giorno possibile della sua intatta probità (p. 76).

E se fosse proprio questo la coscienza? Il non sapere se si sogni o si sia desti? Se ci si risveglierà o meno? Se si risaliranno quelle scale o se le si scenderà definitivamente? Quale abbandono è possibile nella deriva, se non quello animato da una qualche fiducia? – Come è noto, altri grandi protagonisti della filosofia del Novecento si sono chiesti se la coscienza debba essere ancora definita a partire dalla vigilanza o se essa non sia piuttosto proprio la possibilità di sottrarvisi e ritirarsi altrove. Per Emmanuel Levinas, per esempio, «La coscienza è il potere di dormire» (Il Tempo e l’Altro [1948], Genova, il melangolo, 1987, p. 25). Forse la meditazione di Nancy sul sonno deve a Levinas qualche importante suggestione, anche se tra i contemporanei compagni di strada è invece Jacques Derrida ad essere esplicitamente convocato, quello che in Glascontrappone alla classica filosofia dello spirito una letteratura “maledetta” del desiderio (cfr. p. 37).

La Postfazione di Rosella Prezzo (“Nottetempo”, pp. 83-103) parte dal Simposio di Platone, reinterpretato come un paradossale e ironico trattato sul sonno della ragione, che deve prima ammansire l’anima irascibile e concupiscibile dei poeti tragici e comici, prima di poter riposare in pace, senza essere preda delle passioni, anzi avendo offerto all’anima razionale un banchetto di nobili discorsi e meditazioni (come si afferma in Repubblica IX, 571 c – 572 b). Attraversando poi la riflessione novecentesca sul sonno, nel rimando alle riflessioni fenomenologiche di Merleau-Ponty e alle analisi ontologiche di Levinas, Prezzo sottolinea la specificità della proposta teorica di Nancy: sono “io” che casco dal sonno nel sonno, così cancellandomi e diventando «un io che s’interra, che sembra scavarsi la fossa» (p. 91). Se è alla morte il rimando più evidente, segnalato già dall’intraducibile titolo originale, che associa la caduta alla tomba (Tombe de sommeil), Rosella Prezzo rimanda quasi in controcanto alla riflessione di María Zambrano, a suo parere molto prossima a quella di Nancy, ma secondo prospettive capovolte: comune ai due autori sarebbe l’intravedere nel sonno il luogo di un vacillamento in cui lo spazio si fa tempo, ritmo, battito, ma in Zambrano si tratta dell’annuncio di una nascita di chi è qui, non avendo ancora aperto gli occhi, di chi è in esilio nel luogo in cui non può insediarsi e dove è insieme libero e abbandonato.

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