Per una teoria dello stato comunista

giu 5th, 2019 | Di | Categoria: Primo Piano

Il problema dell’assenza di una teoria etico-politica del comunismo in Marx e l’utopia dell’estinzione dello Stato. Un vizio d’origine dalle pesanti ripercussioni. Note per una preliminare impostazione del problema. L’intero movimento comunista ispirato al marxismo ha da sempre convissuto in una contraddizione in merito al problema politico dello Stato. Ad una non-teoria politica di tipo utopistico sullo Stato che ha origine nel pensiero di Marx, per cui lo Stato è concepito in termini di inevitabile estinzione con il superamento del modo di produzione capitalistico, si é contrapposta la pratica di uno Stato forte e onnipresente di tipo socialistico nei paesi in cui il socialismo si è realizzato nelle forme novecentesche. Per chiarire anzitutto i termini del problema, un piccolo chiarimento sul termine “utopia”. L’utopia marxiana della fine dello Stato politico non è infondata in quanto è un’utopia. Esistono infatti utopie buone ed utopie cattive, utopie feconde ed utopie infeconde. L’utopia in sé indica soltanto qualcosa di idealtipico che attualmente non esiste. Non indica qualcosa che non può esistere per definizione, ma qualcosa a cui si tende e che potrebbe esistere anche se corretta e modificata poi nella realtà almeno negli elementi inessenziali. L’utopia comunista di un modo di produzione cooperativo senza sfruttamento è un’utopia buona. L’utopia capitalistica del libero mercato è un’utopia cattiva. L’utopia marxiana dell’estinzione dello Stato è essenzialmente un’utopia infeconda, per lo più cattiva, anche se legata al corretto presupposto (poi tradotto in errata conclusione) di vedere la società capitalistica come un’unica totalità espressiva di cui lo Stato è ovviamente parte integrante. Il problema quindi non è il fatto che si tratti di un’utopia, ma il fatto che tale utopia si discosti in buona parte dai caratteri essenziali della natura umana.

Per capire l’origine della contraddizione tra l’utopia dell’estinzione dello Stato e la pratica di uno Stato onnipresente di tipo socialista e per analizzare le sue ripercussioni bisogna anzitutto chiedersi cosa sia lo Stato. Marx lo considera come un semplice derivato dei modi di produzione classisti, come l’espressione politica dei sottostanti rapporti economici preminenti. Già nei Manoscritti del 1844 questo punto di vista emerge chiaramente. L’assenza di una vera e propria teoria politica comunista in un filosofo gigantesco nonché militante comunista rivoluzionario, come Marx, può apparire curiosa, ma non lo è affatto. Non si tratta infatti di una dimenticanza o di un semplice problema di specializzazione disciplinare (in parte anche presente), ma anche e soprattutto di una logica conseguenza del sistema filosofico marxiano che in un certo senso renderebbe futile una teoria politica del comunismo e del socialismo. Se lo Stato in quanto struttura di mediazione in sé é infatti null’altro che l’espressione diretta dei modi di produzione classisti, esso non è altro che il raddoppiamento politico del rapporto economico. E’ la veste politica della contraddizione tra uomo e società e tra uomo e natura. Se il comunismo è la risoluzione delle contraddizioni, lo Stato semplicemente cessa di svolgere la propria funzione e si estingue da sé. Il superamento del modo di produzione capitalistico porta di per sé alla graduale (per gli anarchici invece immediata) estinzione dello Stato. La dittatura del proletariato è vista quindi come una fase intermedia di esercizio del potere, diciamo una fase intermodale di passaggio al socialismo-comunismo, come un frutto contingente e transitorio, anche se necessario dei risultati della lotta di classe. Una volta avvenuto il passaggio anche il potere proletario non ha più ragion d’essere poiché non vi sono più classi e dunque non può più esservi Stato. Stando al ragionamento di Marx è evidente che lo Stato in quanto Stato di classe, ivi compresa la finale e intermodale dittatura proletaria (mezzo temporaneo per il rovesciamento della “dittatura” del capitale), espressione dei rapporti di produzione di classe, debba estinguersi in una società a-classista. Tuttavia se Stato significa anche entità organizzativa di una società-comunità, espressione dell’intreccio delle istanze collettive e della complessità degli interessi sociali, è allora da chiedersi se anche questo tipo di Stato sia destinato all’estinzione o al contrario esso continui ad esercitare una funzione fondamentale in una società socialista-comunista. La mia personale risposta é che lo Stato politico inteso come mediazione politica, giuridica, etica e culturale a carattere strutturale (e non come pura amministrazione neutrale delle cose) è una necessità insita nella stessa natura umana sociale. Ma proseguiamo sul problema del rapporto tra il pensiero di Marx e la teoria politica dello Stato. Il fatto che Marx non si ponga il problema di uno Stato comunista con tutte le questioni di carattere filosofico-politico che ne scaturiscono, non dipende soltanto dall’identificazione di Stato in generale con Stato classista, ma, e qui veniamo al punto fondamentale, dipende dal fatto che il comunismo rappresenterebbe la fine delle contraddizioni sociali di cui il capitalismo è stata la massima ed esplicita nonché schietta espressione finale. Se si crede questo è evidente che al posto di uno Stato comunista-socialista, si può tranquillamente mettere la cosiddetta semplice e mera organizzazione delle cose da sostituire al potere sugli uomini. E’ questo il cuore fondamentale dell’utopia marxiana ed è questo il cuore del problema. Lo Stato, così come la stessa attività politica, il diritto e la stessa filosofia, sono visti come sottoprodotti delle contraddizioni originarie che devono essere ritrovate nei rapporti di produzione. Una volta sciolte nel comunismo le contraddizioni originarie, in ottica marxiana, si scioglierebbero tutte le contraddizioni derivate, di tipo politico, filosofico, culturale e giuridico ed ogni istituzione o struttura espressione di tali contraddizioni non avrebbe più alcun senso. Il comunismo sancirebbe così la fine naturale di ogni struttura condizionante (politica, filosofia, diritto) che si frapponga tra individuo ed universale. Si avrebbe cioè la definitiva riconciliazione tra individuo e universale senza intermediazioni strutturali di nessun genere. Si ha qui a che fare con una teoria integralmente anarchica del comunismo, con l’importante differenza che mentre l’anarchismo anche a base socialistica e comunistica, pone l’enfasi sulla liberazione dal potere politico come base per la cooperazione collettiva volontaria basata sulla sovranità assoluta dell’individuo liberato, la teoria (o meglio non-teoria) politica marxiana pone l’enfasi sul rovesciamento dei rapporti di produzione economici con successiva fase temporanea di dittatura politica del proletariato come base per la conclusiva cooperazione collettiva. Una cooperazione collettiva vista in termini di necessità e basata non tanto sulla sovranità dell’individuo liberato (anarchismo), quanto sull’autonomia dei processi economici e di produzione cooperativi, non più legati a necessarie intermediazioni politiche ed etiche a carattere strutturale. Nell’anarchismo il potere politico è il nemico dell’autodeterminazione individuale; nella teoria marxiana il potere politico è un vecchio arnese che perde di senso e dunque si dissolve nei nuovi rapporti di produzione, ovvero nella fine delle contraddizioni sociali (il cui unico fondamento è economico). Come abbiamo visto, il cuore della questione sta nell’idea della fine delle contraddizioni sociali con il superamento del modo di produzione capitalistico, l’abbattimento della proprietà privata e l’instaurarsi di relazioni produttive di tipo cooperativo. Il problema è infatti che le contraddizioni sociali permangono in un qualunque modo di produzione cooperativo e prendono la forma sia di contraddizioni economiche, sia di contraddizioni politiche in termini di potere, sia infine di contraddizioni etiche in termini di necessità di costituzione di un’etica comune forte, come fonte di continua mediazione tra le istanze individuali e quelle collettive. Istanze individuali e collettive infatti non si armonizzano da sé in una società basata su un modo di produzione cooperativo, ma permangono necessariamente contraddittorie e necessitano pertanto di strutture intermedie che leghino il particolare all’universale. Qualsiasi società comunista-socialista avrà bisogno quindi di strutture di mediazione forti, con necessari rapporti (più possibilmente partecipativi) di delega e necessaria divisione del lavoro sociale e del lavoro amministrativo. L’utopia della sostituzione della democrazia politica con la democrazia di fabbrica, diviene un palliativo storico per coprire il vuoto di riflessione esistente in ambito comunista sul fronte della democrazia politica in senso ampio. Anche in questo caso si è oscillato tra il mito iper-democratico utopistico delle masse che si autogovernano e la realtà di uno Stato (quello socialista) fortemente gerarchizzato e invasivo. La democrazia politica in una società comunista-socialista a base comunitaria va invece pensata come equilibrio di forze tra partecipazione di tutti i singoli e necessità di accentramento, di capacità decisionale e di divisione dei compiti di governo secondo le capacità e le predisposizioni individuali. In mancanza di un’equilibrata riflessione sulla democrazia politica e il potere popolare il socialismo reale ha schernito la democrazia politica come feticcio borghese richiamandosi all’iperdemocrazia economica dei luoghi di lavoro (nei fatti post-politica e nella sostanza non realizzata nelle forme pensate dai primi comunisti e socialisti). Le eresie comuniste anziché mettere in discussione questa logica, l’hanno esasperata ribaltandola, accusando il socialismo reale di essere iper-politico e dispotico e di non aver attuato il mito della democrazia di fabbrica come forma reale di democrazia. Il problema della mancanza di una teoria politica dello Stato socialista in Marx è direttamente legato come visto ad una furia del dileguare che vorrebbe l’individuo legato in maniera diretta all’universale ed al sociale senza bisogno di strutture sociali di intermediazioni dotate di “eticità”. Si tratta di un punto decisivo e delicatissimo. Per strutture etiche (contrapposte a strutture puramente amministrative di gestione delle cose) intendo lo Stato ed ogni sua appendice politica, come organo politico sovrano, partecipato politicamente, frutto non della pura somma di individui sconnessi , né tanto meno della mera organizzazione pratica della vita sociale. Stato, invece, come espressione delle istanze collettive in senso generale, in ogni ambito sociale. L’etica infatti è oggi vista esclusivamente come sfera limitata a problemi marginali (non per questo meno importanti, anzi fondamentali, ma pur sempre marginali in senso generale), quali la fine della vita, il matrimonio, la fecondazione assistita etc. etc.

Si tratta di un trucco semantico (particolarmente “sistemico”) per nascondere il fatto che in verità tutta la vita sociale ha una sostanza etica, dai rapporti economici a quelli familiari, dalla sessualità come fatto non unicamente privato all’educazione dei bambini, dall’aborto alla morte come fatto comunitario passando per l’arte. Il fatto che ogni espressione della vita sociale sia etica non significa affatto che l’individuo scompaia e che i suoi diritti di autonomia, libero pensiero ed espressione non siano degni di massima tutela. Anzi, tutt’altro! Parlare infatti di strutture sociali etiche a 360 gradi include anche l’esigenza di inserire entro il problema dell’eticità collettiva lo stesso dibattito sul confine tra sfera personale e sfera comune. L’assurdo della cultura individualistica a base liberale, spesso fatta propria dal laicismo di bandiera è proprio quello di far morire sul nascere il dibattito sui confini tra sfera personale e sfera comune, proprio perché non si dà al dibattito stesso nessuna valenza valoriale aperta. Il dibattito sui confini tra sfera individuale e sfera collettiva sarebbe infatti predeterminato da un unico presupposto assoluto: quello relativistico e a priori indiscutibile della pluralità dei valori personali tutti relativamente validi e relativamente veri, unificabili nell’unico principio liberale generalizzabile per cui tutto è ammesso finché non danneggia direttamente l’altro (criterio della libertà negativa). Se il dibattito sul confine tra sfera personale e sfera comune è chiuso sul nascere, evidentemente non è possibile discutere in merito e bisogna rimettersi all’assolutismo del relativismo con la comica cornice di apparente libertà di opinione e punto di vista. Ma cosa c’entra tutto questo con Marx e con il problema di una teoria politica dello Stato in una società socialista-comunista? C’entra perché il problema del confine tra sfera personale e sfera collettiva e dell’etica sociale come elemento di mediazione tra particolare ed universale, tra persona e comunità non può essere liquidato come problema minore o ancor peggio come problema inesistente se si vuole pensare ad una società diversa da quella capitalistica, fondata su un modo di produzione cooperativo e socialistico. La società capitalistica-liberale, infatti, risolve a suo modo, il problema del confine tra sfera personale e sfera sociale con il presupposto relativistico assoluto: un presupposto naturalmente che funge da comoda copertura per la legittimazione delle dinamiche nichilistiche (dunque totalmente relative) e senza fine sociale del sistema economico nonché dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che non può essere messo radicalmente in discussione (se non nei suoi eccessi quantitativi in forma moralistica) in quanto esso stesso è frutto della libertà relativa di ogni individuo. La contraddizione tra individuo e comunità nel capitalismo è risolta logicamente dal presupposto relativistico (tutto è vero, valido e lecito relativamente, dunque nulla è vero e nulla può fungere da fondamento stabile di un’armonia collettiva, pertanto l’armonia compensativa va ricercata in ideologie prive di fondamento etico, come il progresso in sé; e le ideologie forti sono accettabili soltanto se non mettono in discussioni a tutti i livelli della vita sociale il fondamento relativistico che copre lo scambio e lo sfruttamento capitalistico a livello ideologico). Una società socialista deve anch’essa fare i conti con il problema del rapporto tra individuo e comunità e non può avere come proprio fondamento unico l’esclusiva libera cooperazione degli individui liberati dalla catene dello sfruttamento, poiché in tal modo elude il problema permanente della contraddizione tra particolare e universale fingendo che tale problema sia un problema puramente storico, quando invece è un problema eterno costitutivo della natura umana. Per Marx tale contraddizione veniva meno in termini generali nel comunismo realizzato. Ma il comunismo non fa altro che rendere tale contraddizione più umana, ovvero la mostra nella sua autenticità scoprendo meglio le carte così ben occultate dai rapporti di produzione capitalistici. Ma una volta scoperte le carte è necessario iniziare la partita senza pensare che il gioco sia già finito prima di iniziare. E la partita è una meditata riflessione sui rapporti (generali e non solo legati economicisticamente al modo di produzione classista) tra individuo e comunità, tra particolare ed universale, tra persona e strutture di contesto, cui si lega la centralità di una teoria eticopolitica del comunismo-socialismo e di una teoria ben meditata dello Stato comunista-socialista come asse centrale di una teoria e di una prassi rivoluzionaria. Non si può pensare di risolvere la soluzione relativistica al problema offerta dalla dottrina politica liberale, in tutte le sue numerose varianti, a fondamento delle relazioni capitalistiche, credendo che il problema semplicemente cessi di esistere nel comunismo. Tali riflessioni, naturalmente, in ambito comunista e marxista sono state fatte innumerevoli volte nel corso della storia, ma senza quasi mai mettere in discussione il presupposto utopistico dell’estinzione dello Stato e della futilità di un’etica comunitaria strutturale presente nel pensiero di Marx. In questo modo tali riflessioni senza la critica dei presupposti del problema subivano due importanti degenerazioni: 1)in buona parte del marxismo sia di scuola socialista reale sia di scuola teorica occidentale diventavano riflessioni di tipo emergenziale e temporaneo, in attesa del compimento finale delle basi materiali per la costruzione della vera società comunista basata sull’utopia marxiana. Le riflessioni di carattere politico-istituzionale diventavano quindi necessità contingenti e di fase, mentre l’orizzonte finale restava l’utopia comunista marxiana senza Stato. Nelle società socialiste novecentesche la promessa utopistica andava di pari passo con una pratica opposta (in buona parte necessaria almeno concettualmente) di rafforzamento degli Stati e degli apparati di potere e di controllo, nonché delle gerarchie e sistemi di intermediazione sociale fino all’esasperazione dispotica. Si trattò di una contraddizione che Domenico Losurdo descrive con grande acume nel suo libro su Stalin “rimproverando” al capo di Stato sovietico l’incapacità di saper ammettere pacificamente ed ufficialmente l’inesistenza dell’orizzonte utopico post-politico traendone quindi le dovute conseguenze in una gestione più prudente e democratica del presente. D’altro canto lo stesso Stalin viene inserito tra coloro che si resero ben presto conto all’indomani della rivoluzione di Ottobre dell’insostenibilità di un abolizionismo sociale ad oltranza finalizzato alla distruzione di ogni presupposto della vecchia società in nome della liberazione comunista totale, in un’ottica ultra-rivoluzionaria post-politica. Il “tradizionalismo” di Stalin (al di là della giustissima critica radicale dello stalinismo politico), così come in altro ambito il pragmatismo di Lenin (al momento dell’approvazione della NEP) è giustamente collocato una spanna più in alto della furia del dileguare delle correnti bolsceviche dissolutrici (interessantissimo a proposito il dibattito sovietico sulla famiglia all’indomani della rivoluzione). Nei paesi a ispirazione socialista dove, invece, maggiore è stato il contributo rivoluzionario di componenti non marxiste (esperienze vecchie e nuove sudamericane, socialismo arabo etc etc), non a caso la questione politica del socialismo venne posta già a priori e tutt’oggi viene posta in termini molto più forti (a grande beneficio delle oggettive capacità e possibilità rivoluzionarie). Per quanto riguardo invece il marxismo teorico di scuola occidentale, le riflessioni politiche, sullo Stato e sulle istituzioni prendevano anche qui la forma di riflessioni di carattere puramente strategico di breve periodo all’interno degli Stati capitalisti, in attesa della fase materiale in cui sarebbe stato possibile il trapasso verso la società comunista senza-Stato marxiana. 2) In altri filoni di pensiero di sinistra nei paesi capitalisti, il marxismo veniva spogliato (giustamente) dell’impossibile (e incubesca per giunta) utopia dell’estinzione dello Stato e della politica. Questo corretto abbandono veniva però accompagnato da una contemporanea accettazione del terreno concettuale politico interno al capitalismo stesso, per cui il marxismo poteva essere ridotto a semplice pratica redistributiva e il problema dello Stato veniva imposto in termini di Stato capitalista, mediatore del conflitto sociale e garante della piena occupazione e di alti salari. Non si trattava quindi di una seria discussione in merito ad una teoria politica socialistacomunista, bensì di una teoria politica interna al capitalismo favorevole agli interessi legittimi e sacrosanti della classe sfruttata. Si tratta naturalmente di un piano imprescindibile di qualsiasi punto di vista politico serio che rifiuti un approccio estremisticorivoluzionario immediato, ma si tratta pur sempre di un piano limitato che non va confuso con il problema dell’assenza di una teoria politica socialista e di una teoria dello Stato comunista-socialista (trattandosi di tutt’altro). Per giunta l’utopia marxiana veniva in molti casi considerata un incidentale residuo filosofico, emendabile semplicemente con la tecnica della rimozione, senza capire che proprio su quel punto si giocava invece un’importantissima battaglia in termini di proponibilità e credibilità dell’opzione socialista. Nel primo caso, quindi, l’utopia veniva rimandata all’infinito nascondendone la debolezza strutturale e rafforzando nel tempo corrente (nel caso dei paesi socialisti) pratiche negative di tipo dispotico di segno opposto per giunta prive di qualunque fondamento e giustificazione morale meditata (che non fosse la teoria assolutizzata del fine che giustifica i mezzi); nell’altro caso l’utopia veniva abbandonata (correttamente) ma al prezzo di rimanere fatalmente entro le stesse coordinate concettuali imposte dalle dinamiche conflittuali del capitalismo relegando a tale piano la propria forza di incisione politica. Trattare invece in modo compiuto il problema di una teoria politica e di una teoria dello Stato socialistacomunista significa scontrarsi apertamente e consapevolmente con il significato dell’utopia marxiana sapendone cogliere alcuni aspetti fecondi rigettandone invece alcune proposizioni infondate. L’aspetto fecondo dell’utopia è la capacità di cogliere l’unità sintetica della società capitalistica con conseguente necessità (poi erroneamente espressa in termini abolizionistici) di superare l’intero apparato economico-politico-culturale espresso dal rapporto sociale capitalistico. L’aspetto infecondo e infondato è invece, come già ampiamente detto, l’idea che la fine della contraddizione economica porti con sé la fine delle contraddizioni sociali e conseguentemente la fine della necessità di intermediazioni strutturali, dallo Stato alle istituzioni, fino all’etica comunitaria come struttura essa stessa. Trattare il problema di una teoria politica comunista-socialista e di una teoria dello Stato comunistasocialista significa, in particolare, provare a sfuggire da un lato il paradigma utopistico-abolizionistico alternato alla opposta e complementare pratica dispotica e invasiva; dall’altro il paradigma statalistico interno alle dinamiche conflittuali capitalistiche. L’impostazione della questione non può che avere come base di partenza il riconoscimento delle dinamiche politiche e sociali come non integralmente e univocamente determinate dalla struttura del modo di produzione. L’origine logica dell’utopia dell’estinzione dello Stato in Marx sta in buona parte (anche se non solo) nell’idea che le contraddizioni sociali in generale si estinguono una volta estinte le contraddizioni dei modi di produzione classisti (e in quanto tali contraddittori). Se invece si dà centralità al problema del rapporto tra individuo e società/comunità anche al di là del (non indipendentemente dal, ma al di là del) modo di produzione in quanto tale e se si considerano permanenti (non nella loro realizzazione determinata, ma nella loro essenza generica) determinate strutture condizionanti quali la politica, il diritto, la filosofia, la religione etc etc…, l’esigenza di una teoria politica socialista-comunista diviene assolutamente prioritaria e la sua mancanza è percepita come gravida di conseguenze politiche. Poste le premesse per affrontare il problema, naturalmente, la questione rimane aperta. Nei prossimi scritti proverò ad entrare nel vivo dell’impostazione di una possibile teoria eticopolitica e dello Stato di tipo socialista-comunista.

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