Crisi e Transizione

giu 10th, 2019 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

 

I La crisi e il “fine ristretto” del rapporto sociale capitalistico

II Le transizioni di fase nel capitalismo e la marginalizzazione della “classe”.

III La nuova crisi sistemica e gli ostacoli alla sua risoluzione capitalistica

IV La reazione del marxismo ortodosso di fronte alla crisi sistemica del capitalismo e alla crisi del concetto di “classe”

V Cause e svolgimento dell’attuale crisi sistemica

I. La crisi e il “fine ristretto” del rapporto sociale capitalistico

1) Il sistema capitalistico è immerso in una nuova crisi sistemica. L’assetto uscito dalla Seconda Guerra Mondiale è ormai messo in discussione sia nella sua dimensione politica sia in quella economica e finanziaria. I fenomeni di perturbazione ai quali stiamo assistendo testimoniano tutti di questa crisi che, forse per la prima volta nella storia del capitalismo, è emersa immediatamente come crisi dei rapporti intergovernativi mondiali. La dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro in oro del 1971 e la connessa contestazione delle pretese di predominio statunitense in Asia, con la guerra del Vietnam, sono stati i primi segnali di questa crisi della quale stiamo vivendo la lunga fase finale. Segnali provenienti dai meccanismi di gestione del potere territoriale e solo secondariamente di quello economico.

2) La storia del rapporto sociale capitalistico è più storia di crisi che di sviluppo, in apparenza nonostante gli impressionanti cambiamenti tecnici, scientifici, produttivi, sociali ed antropologici che continuamente induce. Ma è, per l’appunto, solo una contraddizione apparente. In realtà questi cambiamenti, avvenuti a volte con salti discontinui, come durante i due conflitti mondiali, e a volte con processi lunghi, graduali e meno appariscenti, come durante la Grande Depressione della seconda metà dell’Ottocento, sono infatti reazioni alle crisi ricorrenti.

3) Le crisi sono conseguenze della natura del rapporto sociale capitalistico, ovvero del fatto che esso è intrinsecamente conflittuale. Ciò a sua volta dipende dalla caratteristica che contraddistingue tale rapporto sociale rispetto a tutti quelli precedenti: la sottomissione dell’intera società ad un fine non sociale, cioè la valorizzazione monetaria infinita del capitale. In quanto il lavoro sociale nel capitalismo si presenta sottoforma di valore e le crisi producono svalorizzazione dei capitali, esse sono un momento di svalorizzazione del lavoro sociale.

4) Le crisi sono storicamente indotte da conflitti tra agenti capitalistici alleati con differenti agenti del potere territoriale, per il controllo e l’utilizzo di tutti i fattori che concorrono alla valorizzazione del capitale: da quelli propriamente fisici come le materie prime, al lavoro, alle innovazioni di processo e di prodotto, al controllo dei mercati, per finire con fattori apparentemente simbolici e “immateriali” come quelli finanziari.

5) Di fianco ai conflitti intercapitalistici, od orizzontali, sopra descritti, si sviluppano conflitti verticali tra chi detiene la capacità di mobilitare i fattori della valorizzazione (in senso lato i capitalisti) e chi ha un ruolo sociale subordinato a tale mobilitazione. In questi conflitti verticali tra dominanti e dominati, decisori e non-decisori, assume un rilievo specifico quello che si svolge tra il capitale e il lavoro, per il fatto che i rapporti sociali di produzione sono funzionalizzati alla logica della valorizzazione infinita tramite l’estrazione di plusvalore.

6) Le contraddizioni capitalistiche sono dunque indotte da una sottomissione della società e dei rapporti sociali ad un fine non sociale, ciò che Marx ha chiamato “rovesciamento” capitalistico e descritto col concetto di “alienazione”. Questa sottomissione è avvenuta non per un’evoluzione “naturale” ma, al contrario, tramite l’utilizzo della forza, come Marx ha dimostrato nel capitolo sull’accumulazione originaria del Libro I del Capitale. L’utilizzo della forza, rumore di fondo del rapporto sociale capitalistico, riappare in superficie ogni volta che i puri meccanismi economici non riescono a riprodurre il rovesciamento. L’utilizzo della forza è un fattore organico indispensabile al mantenimento e allargamento di tale rapporto sociale rovesciato. Per questo motivo i detentori del potere del denaro, quelli cioè capaci di mobilitare economicamente e finanziariamente i fattori della valorizzazione, hanno sempre dovuto attuare uno scambio politico con i detentori del potere territoriale, quelli cioè che monopolizzano l’utilizzo della forza e hanno il potere e le capacità di formazione dello stato. Come aveva rilevato Schumpeter, i capitalisti da soli non sono in grado di difendere i propri interessi. Chiamiamo questo necessario scambio politico “rapporto di aggiunzione tra D e T”, tra potere del denaro e potere del territorio (che è poi ciò che è in grado di spiegare il fenomeno “imperialismo”).

7) Il rapporto di aggiunzione D-T è necessario perché i meccanismi di riproduzione della funzionalizzazione della società al processo infinito di valorizzazione, e quindi questo processo stesso, tendono continuamente ad incepparsi sia a causa del conflitto verticale, sia – e più spesso – a causa dei conflitti orizzontali. Gli agenti capitalistici di tali conflitti godono di una posizione privilegiata in termini di conoscenza e controllo dei meccanismi di riproduzione complessiva della società e in termini di capacità di mobilitazione dei fattori di questa riproduzione, mobilitazione che può avvenire anche transnazionalmente. E’ per questo che sono agenti dominanti. Al contrario gli agenti subordinati soffrono di una netta marginalità in termini sia di conoscenza, sia di controllo e mobilitazione dei fattori complessivi di riproduzione della società capitalistica e sono caratterizzati dall’essere vincolati ad un territorio nazionale (detto in un esempio, il capitale si può delocalizzare ma il lavoratore può solo emigrare, e le due cose sono molto differenti). E’ per questo che sono agenti dominati.

II. Le transizioni di fase nel capitalismo e la marginalizzazione della “classe”.

 8) Storicamente i rivolgimenti sociali sono stati compiuti non dai dominati ma da settori emergenti dei dominanti. Marx, sostenne però che nel caso specifico del modo di produzione capitalistico, essendo il lavoratore dell’industria una forza sociale collettiva cooperativa (che, con le sue parole, andava “dall’ultimo manovale all’ingegnere” ed era quindi associata alle forze intellettuali della produzione capitalistica – ciò che chiamò “General Intellect”), era destinato a prendere il centro della scena sociale in contrasto con una borghesia proprietaria dei mezzi di produzione che si sarebbe invece ritirata su posizioni di semi rendita. Scontrandosi con i rapporti di produzione tenuti in mano da questa classe ormai marginale e decadente, il lavoratore collettivo cooperativo era destinato ad essere classe intermodale, cioè a far transitare l’umanità dal modo di produzione capitalistico a quello comunista dei liberi lavoratori associati e i cui rapporti sociali non sarebbero stati mediati dal valore, non sarebbero stati “coalizzati” dalla merce.

9) La storia delle rivoluzioni comuniste è stata invece una storia di “rivoluzioni contro il Capitale” (nel senso delle tesi di Marx sopra esposte), come capì immediatamente Gramsci in relazione alla Rivoluzione d’Ottobre. Laddove i dominati sono andati al potere (rivoluzione leninista e maoista) lo hanno fatto grazie a un partito comunista che innanzitutto aveva la funzione di sopperire alla marginalità dei domi nati rispetto ai meccanismi di riproduzione complessiva della società capitalistica, meccanismi sui quali quindi i dominati non potevano incidere e interferire spontaneamente, se non limitatamente ad una rinegoziazione dei rapporti di sfruttamento. Il partito comunista svolse quel ruolo grazie al lavoro di conoscenza teorico, mettendo in atto una politica di alleanze di classe e incuneandosi nelle contraddizioni tra gli agenti capitalistici (strategia esemplificata dal treno blindato tedesco utilizzato da Lenin per tornare in Russia e fare la rivoluzione).

10) La sopraggiunta marginalità politica della “classe” non è una conseguenza predeterminata dalla logica capitalistica, se non nella misura in cui essa è stata un effetto della risposta alle crescenti contraddizioni indotte dal sistema capitalistico egemonizzato dalla Gran Bretagna. La centralità della “classe” durante quel sistema era giustificata. La società analizzata da Marx era quella delle imprese medio-grandi e a proprietà personale o familiare borghese, organizzate sul territorio in distretti industriali e che godevano, grazie all’impero britannico e alle economie di scala esterne da esso permesse, di una notevole flessibilità e capacità di spostamento da un settore produttivo all’altro, ma con necessità di innovazione di processo e di prodotto limitate proprio dai vantaggi e dalle esclusività che sia le imprese sia gli istituti di credito britannici godevano all’interno del doppio impero, territoriale e del libero-scambio, britannico. In un sistema con queste caratteristiche la forma giuridica proprietaria era in linea di principio un ostacolo allo sviluppo delle forze sociali di produzione. La “riprova capitalistica” materiale di ciò fu la rapida perdita durante la Grande Depressione della posizione di “opificio del mondo” da parte del sistema industriale britannico. In termini generali, il successo capitalistico britannico stava diventando causa della propria interruzione. Sul lato della “classe”, in quel successo aveva preso forma quella “aristocrazia operaia” in cui Lenin vedeva una delle cause del freno alla lotta di classe. La “classe” – definita formalmente tramite il suo rapporto coi mezzi di produzione – nella realtà delle società capitalistiche era stratificata al proprio interno, come giustamente percepiva Lenin. Ma, ancor più importante, stava ormai emergendo un problema più basilare: la sua marginalizzazione politica e sociale. La marginalità della “classe” diagnosticata da Lenin (che era testimoniata dal carattere “tradeunionistico” e non politico delle lotte spontanee operaie -l’esatto contrario di quanto aveva ipotizzato Marx) era stata indotta dai cambiamenti drammatici che si erano prodotti nel capitalismo in risposta alla Grande Depressione, crisi che era stata prodotta dalla crescente concorrenza intercapitalistica nell’ambito dell’impero britannico del libero-scambio. Tale concorrenza intercapitalistica era stata anch’essa generata proprio dal successo del ciclo sistemico di accumulazione egemonizzato dalla Gran Bretagna che aveva richiamato crescenti investimenti.

11) E’ un tratto tipico del capitalismo che proprio i suoi successi generino le contraddizioni che ne intralceranno il proseguimento e che queste contraddizioni possano essere superate solo da successi più ampi dei precedenti (e quindi mobilitandone gli ingredienti a scala più ampia) con ciò generando contraddizioni ancora più profonde e vaste. Marx sintetizzò questo giro vizioso dicendo che il capitalismo supera le sue contraddizioni solo per ritrovarsele di fronte ancora più grandi: «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso», ovvero il «fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente», e la produzione capitalistica supera continuamente questi limiti immanenti «unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta» (“Il Capitale”, Libro III).

12) Durante la Grande Depressione, 1873-1895, sono avvenuti diversi fenomeni che hanno rivoluzionato la sfera della produzione, quella finanziaria, quella sociale e quella delle relazioni internazionali. Quelli che più determinarono la direzione della storia capitalistica si sono concentrati negli Stati Uniti e in Germania. La sanguinosa Guerra Civile americana era terminata nel 1865 con la vittoria del Nord. Quella vittoria segnava l’uscita in competizione protezionistica degli Stati Uniti dal sistema internazionale egemonizzato dalla Gran Bretagna. Ed era l’uscita non di un piccolo stato ma di un continente. Messe al sicuro da misure protezionistiche, le imprese statunitensi iniziarono una trasformazione verso la loro integrazione verticale (cioè della loro “catena del valore”, diremmo adesso) che permetteva una pianificazione dei flussi transazionali e, per governare la nuova complessità organizzativa, una conduzione manageriale e non più borghese-proprietaria come in Inghilterra. Tale integrazione permetteva alle imprese, tramite i veloci flussi di cassa da essa abilitati, di essere parzialmente autonome dal settore finanziario. Inoltre la nuova notevole complessità organizzativa, popolata da una gerarchia di compiti altamente specializzati, era un ostacolo al formarsi di nuovi concorrenti. Sul suolo europeo, nel 1861 c’era stata l’unificazione italiana e dieci anni più tardi, 1871, quella tedesca. Nascevano quindi due potenze di peso che non potevano non alterare gli equilibri mondiali e innanzitutto europei così tenacemente e quasi ossessivamente ricercati dalla Gran Bretagna. In particolare in Germania come risposta alla Grande Depressione iniziò una politica, sostenuta dal Reich, di integrazione orizzontale (monopolistica) delle imprese, che assunsero anch’esse una conduzione manageriale, sotto la garanzia dall’apparato finanziario. Sarà questo il sistema di “capitalismo finanziario” cui faranno riferimento Hilferding e Lenin, una forma molto specifica di connubio industriale-finanziario-militare che loro interpreteranno erroneamente come generale (la “fase suprema” di Lenin).

13) Germania e Stati Uniti, diventati competitor globali della Gran Bretagna grazie a quelle trasformazioni, avrebbero dato vita alla guerra dei trent’anni 1914-1945 per contendersi il ruolo egemonico che la Gran Bretagna stava inesorabilmente perdendo. Quelle innovazioni mandarono però in frantumi la composizione di classe individuata da Marx: gli “ultimi manovali” erano ormai nettamente separati come ruolo, finalità, interessi e visione del mondo dagli “ingegneri”, o in senso lato, dai direttori dell’impresa. Non solo, contrariamente a quanto previsto da Marx, i nuovi manager dominanti non erano avulsi dalla produzione, non si ritiravano in una posizione da semi-rentier come Marx aveva previsto per i borghesi-proprietari che caratterizzavano la rete di distretti industriali di medie aziende del capitalismo inglese trionfante ed egemone da lui analizzato. Anzi, i manager, non proprietari ma detentori della disponibilità dei mezzi di produzione, avevano un ruolo attivo nella produzione di quel plusvalore di cui si appropriavano, così come succedeva al borghese-proprietario all’inizio della storia del capitalismo industriale (come era stato descritto da Marx).

14) Parallelamente alla frantumazione del soggetto intermodale, cresceva però l’importanza numerica e produttiva di una parte di esso, le “tute blu”, base di massa dei partiti laburisti e socialisti. Tuttavia a questa crescita non corrispondeva più una centralità nei meccanismi di riproduzione complessiva della società. Era questa marginalità che Lenin voleva superare tramite le “avanguardie” del Partito, unico organismo che poteva avere una visone politico-strategica e non puramente tradeunionistica. A questa consapevolezza e a questa lucida visione politica, non corrispose però un’altrettanto lucida consapevolezza teorica e filosofica. Centrale rimaneva nel leninismo il concetto di “classe”. Era un omaggio all’ortodossia, stemperato da quella distinzione tra “classe in sé” e “classe per sé” – con relativo bisogno di avanguardie – che per decenni fu il modo filosofico per non riconoscere la sopraggiunta disarticolazione del soggetto originariamente concepito da Marx. Se Lenin accusava Kautsky di essere un rinnegato politicamente, tuttavia il rivoluzionario russo non si discostava teoricamente dall’ortodossia del “papa rosso” socialdemocratico tedesco. Solo una superiore mente politica faceva in modo che Lenin uscisse dalle pastoie della “ortodossia dei fini”, base della politica opportunistica di Kautsky. Quella superiore mente politica che gli permise di fare, per l’appunto, la rivoluzione “contro il Capitale”.

15) Il concetto di “classe”, in quanto categoria teorica, si riferisce in Marx alla posizione sociale rispetto ai mezzi di produzione in una qualsiasi società capitalistica. Marx nel Libro I del Capitale ha descritto il modello della società capitalistica. Anche se oggi noi sappiamo che quel modello sintetizzava una particolare configurazione del sistema capitalistico, quella centrata sull’impero britannico del liberoscambio, tuttavia nel Libro I non veniva descritta nessuna specifica società di quel sistema, nemmeno quella britannica. Marx aveva iniziato il suo percorso scientifico dalla cellula base, la merce, per potere eseguire programmaticamente la “risalita dall’astratto al concreto”, laddove la descrizione immediata della società sarebbe stata solo fonte di caos (“Per la critica dell’economia politica. Introduzione del ‘57”). Perché Marx in 16 anni non pubblicò più nulla del Capitale dopo il Libro I? L’ipotesi che avanziamo è la seguente. Quando Marx dovette rivedere i libri successivi, il cui contenuto si situava ad un livello più alto nel percorso dall’astratto al concreto, capì che il suo metodo espositivo era giunto ad un punto critico. Ad esempio il tema scientifico e il quadro materiale in relazione a ciò che doveva essere descritto nel Libro III erano mutati rispetto al Libro I e Marx, essendo uno scienziato cosciente e non un imbonitore, se ne rendeva conto. Il manoscritto del Libro III venne steso tra il 1864 e il 1865, subito di seguito alla stesura del manoscritto del Libro I. Ma mentre lo stesso Marx non ebbe problemi a mandare alle stampe il Libro I nel 1867, per i manoscritti successivi qualcosa, dunque, s’inceppò. Chiediamo ai marxologi professionisti: può essere che ciò sia dovuto al fatto che il sistema britannico aveva iniziato a disarticolarsi, così come descritto nei punti precedenti? Gli argomenti trattati nel Libro I non coinvolgevano i rapporti tra stati e le politiche istituzionali: si parlava di merce ed estrazione del plusvalore. Solo il Capitolo 25 parlava “a sorpresa” della “moderna teoria della colonizzazione”. Ma in realtà non è una sorpresa perché era evidente anche ai pastori evangelici metodisti e a maggior ragione a Marx, che l’impero britannico del libero-scambio – ovvero il sistema oggetto della sua “risalita dall’astratto al concreto” – si reggeva grazie alla spoliazione delle ricchezze provenienti dall’Impero (territoriale) Britannico. Ma il Libro III doveva parlare di commercio e credito. Come ipotizza Michael Heinrich nel suo studio sulla differenza tra il manoscritto di Marx e l’edizione di Engels: Per il concetto di esposizione ascrivibile a Marx, la questione fondamentale è se si possano effettivamente discutere, al livello molto astratto del Capitale, le leggi che riguardano il credito o se siano legate a una serie di fattori istituzionali storicamente specifici, come la costituzione del sistema monetario e bancario, e che quindi non possa esservi una teoria generale del credito. Nel manoscritto originale la questione resta in sospeso. Engels optò per un’esposizione a un livello generale del materiale di ricerca rinvenuto nel manoscritto, condannando Marx al biasimo per aver generalizzato indebitamente le specifiche condizioni storiche del sistema del credito nell’Inghilterra del XIX secolo. Un appunto simile si può muovere riguardo alla descrizione dei rapporti commerciali internazionali (che sono manovrabili da scelte politiche e dai rapporti e conflitti diplomatici, come tutta la storia successiva ha dimostrato). In entrambi i casi si era ormai in presenza della necessità di descrivere meccanismi relativi a società concrete. Non è una sorpresa allora, specialmente se il mondo “condensato” nel modello stava cambiando, se il modello astratto doveva cedere il passo (con una cesura che Marx non voleva) a scelte politiche concrete, che Engels, secondo Heinrich, spacciò invece per generali, pensando di rendere omaggio al metodo di Marx. In altri termini stava radicalmente mutando il quadro del capitalismo borghese proprietario che si era sviluppato sotto il sistema stabile e internazionalista dell’egemonia mondiale dell’Impero Britannico del libero scambio, implicito oggetto dell’analisi di Marx. E i meccanismi più legati al funzionamento concreto della società capitalistica, ovvero quei fenomeni che non erano espressione del nucleo più interno e più stabile del modello e che fu consegnato alla storia del pensiero universale dal Libro I, erano ora difficilmente deducibili con strumenti puramente logici da quel nucleo “astratto”, in quanto erano soggetti alla politica, cioè al regno della vichiana “eterogenesi dei fini”, pur se alcune linee erano più definite, stabili e importanti di altre e analizzabili teoricamente.

16) Parimenti, il concetto di “internazionalismo proletario” avrebbe in seguito dovuto fare i conti col fatto che se era concepibile in un mondo unificato dal doppio impero britannico, esso andava in crisi parallelamente al frantumarsi di questa mondo in potenze in crescente competizione. E’ qui che avvenne quella “nazionalizzazione delle masse” con cui, complici i partiti socialisti fedeli all’ortodossia dei fini, si mandarono popoli interi al macello interimperialistico. Ma è anche qui che Lenin innalzò ancora il vessillo dell’internazionalismo proletario per uscire (con ogni ragione) dal primo conflitto mondiale e fare così la rivoluzione. Da quel momento in poi l’internazionalismo proletario esisterà solo nei desideri e negli ideali dei militanti e degli intellettuali, nelle azioni di volontari, o a scopi propagandistici per difendere le “patrie del socialismo” (oltre alla classica cintura protettiva nei confronti dell’URSS, ricordiamo che ad esempio la Cina di Mao chiederà ai maoisti indiani – a loro legati in virtù proprio del supposto “internazionalismo proletario” – addirittura di sostenere i massacri pakistani nel futuro Bangladesh, per puri scopi geopolitici. Ovviamente per sentirsi dire che la proposta era irricevibile).

Continua

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