Costanzo Preve La crisi culturale della terza età del capitalismo.

ott 25th, 2019 | Di | Categoria: Teoria e critica

    Costanzo Preve

     La crisi culturale della terza età del capitalismo.

     Dominanti e dominati nel tempo della crisi del senso e della prospettiva storica   

1. Il tema che ci interessa non è di facile inquadramento teorico, e bisogna allora iniziare con una “buona mossa d’apertura”. La mia mossa di apertura consisterà nel mettere in discussione un grande classico della tradizione culturale occidentale, il Manifesto del Partito Comunista di Marx e di Engels del 1848. Questa messa in discussione servirà solo da punto di partenza, e non ha affatto di mira una discussione critica generale su Marx e sul marxismo, discussione che non è oggetto di questo testo.

2. Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels interpretano tutta la storia passata come storia di lotte di classe, ed individuano le classi fondamentali della società capitalistica nella Borghesia e nel Proletariato. Il termine di “borghesia” è usato come sinonimo dell’insieme dei proprietari privati capitalistici dei mezzi di produzione, che hanno la disposizione reale non solo sulle materie prime ma anche sulla forza-lavoro salariata, mentre il termine di “proletariato” indica l’insieme di tutti coloro i quali, esclusi o espropriati dai mezzi di produzione, devono vendere la loro forza-lavoro ai capitalisti sotto l’apparenza di uno scambio eguale (ma in realtà diseguale) fra il lavoro salariato ed il capitale. Questa grandiosa “semplificazione” ha esercitato un fascino enorme, perché non si trattava di una semplificazione infondata, ma dell’effettiva descrizione dello “scheletro” della società capitalistica. Lo scheletro, ovviamente, non è tutto, ma ci vuole anche la carne, il sangue e gli altri organi vitali. È invece sbagliato pensare che lo scheletro equivalga a tutto il corpo. Si tratta, in estrema sintesi, dell’errore fondamentale della maggioranza delle forme di marxismo storico.

3. La mia tesi di fondo, che ispira questo intero contributo, è che Borghesia e Proletariato non sono classi strutturali e permanenti dell’intero corso storico del modo di produzione capitalistico, ma solo classi genetiche, iniziali e provvisorie di esso. Nell’attuale età del capitalismo esse sono nell’essenziale già tramontate, e senza comprendere la dinamica del loro tramonto non è possibile neppure impostare il problema della natura di una crisi culturale. A mio parere siamo infatti oggi in un’età post-borghese e post-proletaria.

Ritengo invece di dover usare la dicotomia di Dominanti e Dominati. Mi si potrebbe obbiettare che si tratta di una dicotomia tautologica e generica, che peggiora anziché migliorare la dicotomia precedente. Non lo credo. Non si tratta di fare il giochetto verbale di continuare a chiamare “borghesia” i dominanti capitalisti e “proletariato” i dominati salariati. Si tratta di comprendere che, in mancanza di una credibile terminologia scientifica ammessa da tutti, è meglio fare un passo indietro e limitarci a chiamare Dominanti e Dominati gli agenti storici attivi e passivi della riproduzione sociale complessiva del modo di produzione capitalistico. Almeno ci sottrarremo agli inganni del linguaggio consueto, quelli che Bacone chiamava idola fori.

4. Nel corso di questo testo userò i termini di “crisi” e di “cultura” in un senso molto preciso che chiarirò subito. Il termine di krisis, usato nella medicina greca, significa il momento cruciale in cui l’ammalato va o verso la morte o verso la guarigione. Al di fuori dell’ultima crisi terminale, dunque, tutte le altre crisi sono positive, benefiche e di guarigione, cioè di riproduzione del corpo e dell’anima. Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società.

5. La seconda “mossa di apertura” che farò consiste nel chiarire che la nozione di crisi culturale non può essere ricavata per estensione né dalla nozione di crisi economica né da quella di crisi politica. Vi è su questo un largo consenso, ma per chiarezza vi dedicherò egualmente alcuni paragrafi, perché ritengo che l’“economicismo” ed il “politicismo” siano approcci riduttivi ed errati al problema che ci interessa. È soprattutto importante capire però, contro l’approccio di Louis Althusser e della sua scuola, che la cultura non si identifica con l’ideologia, che ogni equazione fra cultura ed ideologia è fuorviante, e che respingo ogni tripartizione consueta delle diverse istanze del modo di produzione capitalistico secondo il modello della semplice distinzione fra economico, politico ed ideologico. La paideia, antica, moderna e postmoderna, non è una ideologia. Prima lo si capisce e meglio è per tutti.

6. Non sono un economista, e tanto meno un esperto professionale di crisi economiche del capitalismo. Ho tuttavia studiato un poco la letteratura marxista sull’argomento, e mi pare di poter aderire alla teoria della cosiddetta ricorsività, nella forma in cui è stata esposta da Gianfranco La Grassa in numerose opere. Questa teoria della ricorsività (da non confondere con quella delle cosiddette “onde lunghe” di Ernest Mandel) ha un doppio merito. Primo, intende segnalare l’esistenza di una crisi complessiva dentro il modo di produzione capitalistico, che è allora anche e soprattutto una crisi degli assetti di potere, e non solo una crisi di tipo monetario e/o tecnologico. Secondo, rompe con tutte le mitologie del “crollo” (Zusammenbruch) e della crisi finale e decisiva. Come è noto, questi annunci crollistici sono anch’essi “ricorsivi”, e sono strutturati su di una concezione storicistica, deterministica e stadiale del modo di produzione capitalistico, di cui si proclama sempre la “crisi finale”. Personalmente, non credo nell’esistenza di una crisi finale del capitalismo, e comunque non certo nel senso della teoria del crollo. Considero questa visione una inconsapevole secolarizzazione in linguaggio economico del profetismo messianico, e rilevo che essa nella storia ha favorito incredibili sbagli anche e soprattutto da parte di persone serie e competenti. Ad esempio, Rosa Luxemburg era convinta che il crollo economico del capitalismo sarebbe derivato dall’esaurimento di tutti gli spazi geografici pre-capitalistici del globo. Mi sembra un errore totale, se riflettiamo sull’attuale mondializzazione capitalistica chiamata “globalizzazione”. Per fare un secondo esempio, Paul Sweezy sostenne a lungo la teoria della stagnazione capitalistica in termini di esaurimento delle capacità di innovazione tecnologica del sistema. Se vediamo cosa sta avvenendo oggi, mi sembra un altro errore totale. Non mi interessa però infierire su questi maestri del pensiero economico, perché considero i loro sbagli una ricaduta ideologica di un wishful thinking, cioè di una speranza politica sul prossimo crollo del capitalismo.

7. Non sono un politologo, e tantomeno un esperto professionale di crisi politiche del capitalismo. A suo tempo, Lenin parlò di crisi rivoluzionaria in termini di incapacità dei dominanti a governare come prima e di rifiuto dei dominati ad essere governati come prima. Non sarà forse un approccio accademico, ma mi sembra un buon approccio. Più difficile è stabilire la natura non delle rarissime crisi politiche rivoluzionarie, ma delle ben più frequenti crisi politiche di riproduzione, legittimazione e rappresentanza. In Italia abbiamo assistito circa un decennio fa ad una tipica crisi politica di passaggio, quella fra la prima e la seconda repubblica. Personalmente, non ho mai ritenuto che si trattasse di una crisi di legittimazione, o meglio di delegittimazione (e cioè i giudici di Mani Pulite che delegittimavano giudizialmente la classe politica professionale corrotta dei vecchi partiti, PSI in primo luogo, ma anche DC e PCI). Queste delegittimazioni sono operazioni a forte impatto emozionale e mediatico, dovute all’approccio moralistico al potere tipico delle ideologie spontanee delle classi dominate, che si muovono in base alla semplice (ma irrilevante) dicotomia Onesti/Ladri. Si è invece trattato a mio avviso di una crisi di rappresentanza, legata all’eliminazione di un sistema elettorale proporzionale che in Italia era storicamente legato non tanto e non solo alla spartizione mafiosa dei posti (che caratterizza al 100% anche i sistemi elettorali maggioritari), e neppure alle rendite di posizione dell’intermediazione politica corrotta (che caratterizza anch’essa al 100% i sistemi elettorali maggioritari), ma soprattutto alle richieste di welfare dei gruppi organizzati della società. Bisognava alleggerire ed indebolire la rappresentanza, per alleggerire ed indebolire le richieste di welfare keynesiano (o para-keynesiano), in vista di una maggiore sovranità dei mercati finanziari internazionali. Ogni personalizzazione di questo delicato passaggio in termini di “craxismo” o di “berlusconismo” mi sembra solo una trappola per allodole credulone. Chi non è d’accordo con questa mia valutazione è pregato di riflettere sul fatto che l’ondata giudiziaria di delegittimazione delle classi politiche proporzionalistiche precedenti avvenne “in tempo reale” in quasi tutti i paesi del mondo, dal Giappone alla Germania, dalla Spagna alla Grecia, anche  se solo in Italia portò alla curiosa metamorfosi di praticamente tutti i partiti della prima repubblica. Ma siamo pur sempre il paese del Gattopardo, in cui il presupposto della continuità sotterranea è fingere che cambi tutto.

8. Ho esposto brevemente nei due paragrafi precedenti la mia personale opinione sulla natura delle crisi economiche e politiche, perché ritengo che la base dell’etica della comunicazione sia appunto non nascondere le premesse di valore ed i presupposti interpretativi. Ma non do a questi due paragrafi molta importanza, perché non sono in alcun modo il centro del mio intervento. È invece molto più importante chiarire subito l’erroneità delle posizioni alla Athusser, che identificano di fatto cultura ed ideologia. Una volta chiarito questo possibile equivoco, potremo finalmente iniziare il nostro discorso vero e proprio sulla natura specifica dell’attuale crisi culturale del capitalismo.

9. Il concetto di cultura porta con sé la dimensione della possibile educazione universalistica del genere umano (paideia, Bildung). Si tratta di una nozione prodotta da alcuni illuministi tedeschi alla fine del Settecento, e poi correttamente ripresa da Kant e Hegel. Questa nozione riprende il vecchio concetto greco di paideia, arricchendolo (o impoverendolo, a seconda dei punti di vista) con la nuova consapevolezza della dimensione storica e temporale. L’ideologia invece non è equivalente alla cultura, e non è neppure una sorta di “parte politicizzata” della cultura stessa. L’ideologia è una rappresentazione del mondo, o più esattamente un insieme organico e gerarchizzato di rappresentazioni, che risponde immediatamente (e cioè senza mediazione ulteriore filosofica e scientifica) al problema del conferimento di senso e di prospettiva alla vita quotidiana, non appena questa vita quotidiana diventa oggetto di autoriflessione, o più esattamente diventa un concetto trascendentale riflessivo. Come del resto avviene per la religione, di cui l’ideologia (anche quella atea, ed anzi soprattutto quella atea) è sempre una forma impoverita, semplificata e privata delle sue dimensioni esistenziali più importanti, si tratta di una antropomorfizzazione e di una conseguente soggettivizzazione (individuale o di gruppo) del mondo dei significati umani. L’equazione fra ideologia e cultura, fatta da Althusser e dalla sua scuola (con la conseguente tripartizione errata delle istanze del capitalismo in economia, politica ed ideologia), è del resto solo il triste raddoppiamento della precedente equazione fra epistemologia e filosofia, con la riduzione della filosofia stessa a riflessione di secondo grado sulle procedure di costituzione delle scienze naturali e sociali. In questo modo il problema diventa male impostato fin dall’inizio. L’ideologia, o più esattamente la produzione ideologica, è una dimensione strutturale permanente, e quindi antropologicamente e socialmente ineliminabile, dell’attività umana. Non esiste, ed ovviamente non può esistere, nessuna presunta “fine delle ideologie”. Quelle che finiscono, o quasi sempre si indeboliscono, sono solo delle formazioni ideologiche storicamente determinate e congiunturali.

La cosiddetta “fine delle ideologie” è a sua volta una ideologia, e per di più particolarmente povera. Parlare di fine dell’ideologia è come sentir dire da un medico, a proposito del corpo umano, che c’è la fine del sudore, dell’adrenalina, dello sperma e degli escrementi. Si tratta di idiozia pura. Filosoficamente parlando, la fine dell’ideologia intesa come fine di ogni falsa coscienza e di ogni rapresentazione antropomorfizzata del destino dell’uomo equivarebbe ad una impossibile divinizzazione dell’uomo stesso, trasformatosi integralmente in sostanza spinoziana o in Pensiero del Pensiero aristotelico. Una prospettiva da abbandonare esplicitamente.

10. Nel titolo di questo saggio si parla di terza età del capitalismo. Si tratta di una periodizzazione classica, che in questa forma ho preso dal bel libro in lingua francese di Luc Boltanski ed Eva Chiapello. La prima età del capitalismo, dalla fine del Settecento agli anni Trenta del Novecento, è quella dell’impresa patrimoniale e familiare, del “borghese” e del capitano d’industria alla Sombart. La seconda età del capitalismo, che si sviluppa a partire dagli anni Trenta, è quella del compromesso fordista in cui il proletariato rinuncia progressivamente alla critica sociale in cambio di un flusso stabile e garantito di consumi e di servizi sociali che ne possano propiziare l’accesso alla classe media. La terza età attuale del capitalismo, caratterizzata da una enorme crescita di peso dei mercati finanziari, vede alcune modificazioni radicali non solo in campo economico e politico, ma anche culturale. Ed è appunto questo l’oggetto di questo saggio.

11. Boltanski e Chiapello definiscono in modo corretto il capitalismo come «un processo retto da una norma di accumulazione illimitata del capitale». Ottima definizione. In altra sede ho fatto notare (e continuerò a far notare) che questa norma di accumulazione illimitata è incompatibile con la vecchia sapienza filosofica greca, fondata sul concetto di “limite” (peras), per cui il limite stesso è la precondizione veritativa del fondamento e della verità (logos). Incidentalmente, questa è la ragione per cui non amo che si definisca il processo di globalizzazione finanziaria e di mondializzazione degli scambi come “occidentalizzazione del mondo”. Il principio della illimitatezza caotica della ricchezza è un principio post-occidentale, non occidentale. È l’assassinio dei greci, nostri maestri, non certamente l’estensione della visione del mondo dei greci all’intero pianeta.

12. Boltanski e Chiapello distinguono due diversi tipi di critica culturale al capitalismo, la critica artistica e la critica sociale. Questa distinzione sarà il vero punto di partenza di questo mio saggio, la “terza mossa d’apertura” di cui ho parlato. Boltanski e Chiapello ritengono che l’unione, o quanto meno la convergenza e la sinergia di queste due critiche abbiano in qualche modo caratterizzato, sia pure in modo diverso, le prime due età del capitalismo, mentre il vero problema culturale di questa terza età del capitalismo sta nel fatto che esse si sono trasformate ed indebolite, fino ad assumere un’altra forma. Sono completamente d’accordo. D’ora in poi, però, svilupperò autonomamente questa distinzione in modo del tutto diverso dai due autori francesi cui ho fatto riferimento.

13. La critica sociale al capitalismo è vecchia più di due secoli, si fonda sulle due categorie di eguaglianza e giustizia, e si basa ovviamente sul rilevamento, empiricamente innegabile,  della diseguaglianza, della povertà ( e spesso di quella forma estrema di povertà che è la miseria, materiale e morale)  e soprattutto dell’insicurezza provocate dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico. La triplice domanda di giustizia, eguaglianza e sicurezza ha ovviamente una “lunga durata” storica, e non nasce certo solo due secoli fa. Per fare solo alcuni esempi, Thomas Münzer nel 1525 e Babeuf nel 1796 simboleggiano questa triplice domanda sociale e culturale, eppure non c’era ancora il modo di produzione capitalistico. La prima, ed a mio avviso principale, caratteristica della critica sociale al capitalismo sta nel fatto che essa eredita elementi simbolici essenziali delle critiche sociali ai diversi modi di produzione precapitalistici (asiatico, antico-orientale, schiavistico, feudale, meso-americano, ecc.). Si tratta di un punto sistematicamente trascurato dai marxisti ortodossi, per cui il mondo inizia solo nel Settecento, e prima è solo una nebbiosa e noiosa palude di arretratezza. Ma il mondo non inizia certo con Marx, e questo vale non solo per i marxisti, ma soprattutto per gli antimarxisti. Quasi tutte le grandi religioni (e ricordo Siddarta Gautama, poi detto il Budda, Gesù di Nazareth, e lo stesso Maometto) hanno come punto di partenza lo scandalo della miseria e della povertà. Sia per chi ci crede che per chi non ci crede Dio non può essere disgiunto da un concetto pretemporale e sovratemporale di giustizia, con cui gli esseri umani associati esorcizzano e contestano ad un tempo (e segnalo di prestare molta attenzione a questa unità dialettica di esorcizzazione e di contestazione, più esattamente di esorcizzazione teorica e di contestazione pratica) i rapporti sociali in cui vivono. Nell’unità di giustizia, eguaglianza e sicurezza è la giustizia a mio avviso il concetto fondamentale. Hanno dunque torto quei marxisti che, sia pure in perfetta buona fede, sostengono che il marxismo non è una teoria della giustizia, perché la distribuzione ineguale del plusvalore e la sua stessa produzione non derivano da scelte distributive ingiuste, ma da meccanismi del tutto indipendenti dall’etica. Se il marxismo vuole sopravvivere deve diventare una teoria della giustizia, anche se a mio avviso non in forma neocontrattualistica o neoutilitaristica. A differenza di come pensava il “ribelle aristocratico” Nietzsche le domande di eguaglianza e di sicurezza non sono affatto in conflitto con la giustizia, ma ne sono anzi degli elementi di specificazione assolutamente organici. Del resto, anche i bambini sanno che negli ultimi duecento anni non si è mai divenuti rivoluzionari dopo aver compreso il meccanismo della teoria del valore di Marx, ma sempre e solo per domanda di senso, richiesta di prospettiva e reazione all’ingiustizia, alla diseguaglianza ed alla insicurezza.

14. A differenza di come pensano tutti i marxisti (e gli stessi Marx ed Engels) ritengo che la sede sociale originaria di questa richiesta di giustizia, matrice della critica sociale al capitalismo, non sia stata la classe operaia ma la classe contadina. Esiste un pregiudizio storico contro i contadini, visti come indiviadualisti, superstiziosi, ignoranti, sempre in bilico fra servile sottomissione e sanguinosa ma breve ribellione, luogo della passività sociale e dell’egemonia dei preti. Più correttamente rileva Gianfranco La Grassa: «L’accumulazione originaria del capitale […] non poteva avvenire a spese del solo ceto sociale degli artigiani – con arricchimento di alcuni, diventati capitalisti, e fallimento di altri che si trasformavano in operai – ma richiedeva il trasferimento di imponenti masse dall’agricoltura all’industria. I contadini possedevano una reale complessiva cultura altra (pur se certo non in grado di diventare dominante nella società tutta) rispetto alla borghesia capitalistica nascente. Il loro trasferimento in un ambiente totalmente diverso, la loro irreggimentazione negli stabilimenti industriali, eccetera, creava un violento contrasto sociale con la nuova classe dominante oltre che un legame di solidarietà fra masse di individui in via di espropriazione dei loro saperi, delle loro precedenti modalità di vita e di ambientazione, dei loro usi e costumi, della loro cultura insomma». Qui La Grassa a mio avviso coglie il centro della questione. E lo coglie ancora di più quando fa ripetutamente notare che, mano a mano che i contadini si trasformano in operai, non diventano affatto più rivoluzionari, ma anzi si integrano sempre più nei meccanismi di legittimazione e di consumo della società capitalistica stessa. Non si tratta di negare l’assoluta pertinenza della teoria dello sfruttamento e dell’estorsione di plusvalore assoluto e relativo di Marx. La Grassa non la nega e tantomeno la nega chi scrive. Si tratta di capire che la spiegazione del meccanismo dell’estorsione del plusvalore non spiega, e non può spiegare, la reale dinamica della genesi e della formazione di una cultura anticapitalistica alternativa. Qui “cultura” non significa ovviamente solo educazione universalistica del genere umano (paideia, Bildung), ma insieme complessivo ed organico di visioni del mondo, abitudini, concezioni della vita, eccetera. Il sindacalismo riformista ha sempre dovuto lottare contro il cosiddetto “ribellismo operaio”, e lo ha sempre sistematicamente collegato a una classe operaia “arretrata”, in cui l’arretratezza era sempre una allusione alla recente provenienza contadina. Esso coglieva nel segno, assai più degli apologeti dell’operaismo integrale o delle operose formichine addette alla dimostrazione della corretta trasformazione marxiana dei valori in prezzi di produzione. 15. Quanto ho detto nell’importante precedente paragrafo non esclude ovviamente il fatto che è storicamente possibile parlare di “cultura operaia” come cultura improntata alla materialità tecnica ed alla solidarietà etica. Incidentalmente, faccio notare che durante un mio periodo di studi in Germania ho fatto una breve esperienza di “condizione operaia”. Dopo il Sessantotto in Francia alcuni studenti ed intellettuali scelsero la via del cosiddetto établissement, e cioè il lavoro in fabbrica. Robert Linhart vi ha scritto un interessante libro (ma a suo tempo già Simone Weil lo aveva fatto). Voglio qui ricordare un mio fraterno amico, il medico lombardo Dino Invernizzi, mancato prematuramente nel 1992, che per anni scelse di lavorare in fabbrica come operaio. Non mi spaccio certo per esperto, ma so bene che esiste una cultura operaia della materialità e della solidarietà, che considero anzi superiore a certe oscillazioni instabili della piccola borghesia intellettuale accademicizzata o subalterna ai media. Fatta questa ovvia premessa, tutto questo non fa una cultura altra da quella del capitalismo, come è invece possibile dire per la classe contadina (o almeno per molte classi contadine). Su questo punto Antonio Gramsci a mio avviso si è sbagliato, quando ha creduto che l’egemonia (indipendentemente poi da altre questioni come il Moderno Principe o il Blocco Storico) potesse espandersi nell’intera società a partire da un “ordine nuovo” derivato dall’esperienza collettiva della produzione di fabbrica. Si trattò, ovviamente, di una nobile illusione tipica dell’epoca, e sarebbe sciocco oggi criticarla con lo sterile senno del poi. Non a caso, l’“egemonia gramsciana” fu sempre e solo uno strumento ideologico di mistificazione da parte di burocrazie politiche professionali pienamente integrate nella cultura del capitalismo. Vi sarebbero in questa sede molte cose da dire sulle ragioni strutturali per cui non si è formato in passato un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, di cui la classe operaia avrebbe dovuto essere solo l’avanguardia politicamente e sindacalmente organizzabile. Era questo (e non certo un generico “proletariato”) il vero soggetto rivoluzionario inter-modale ipotizzato da Marx. Ma questo non è l’oggetto del presente saggio, e rimandiamo quindi ai testi in cui ciò è stato discusso nel dettaglio.

16. I rilievi storici e teorici fatti nei due precedenti paragrafi ci dicono semplicemente che è normale e fisiologico, e non è dunque un “tradimento”, il fatto che nel passaggio dalla condizione contadina alla condizione operaia i lavoratori diventino sempre progressivamente meno rivoluzionari, e non più rivoluzionari. E non si dica, per favore, che diventano meno ribelli, e diventando meno ribelli diventano rivoluzionari più maturi. Questo è un sofisma che non può resistere a qualsiasi esame storico comparativo svolto nell’arco di duecento anni. Bisogna dunque respingere con forza le due pseudoteorie della cosiddetta “aristocrazia operaia” e del presunto “imborghesimento”. La teoria dell’aristocrazia operaia, che sarebbe stata corrotta con dei sovraprofitti imperialistici dovuti allo scambio ineguale dello sfruttamento coloniale, fu come è noto avanzata da Lenin per spiegare l’integrazione politica e culturale delle socialdemocrazie della II Internazionale. Vera o falsa che sia, questa teoria non è una “integrazione” di Marx, ma è un mutamento radicale di terreno rispetto alla concezione autentica di Marx, che era quella della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato. Esattamente come per la teoria gramsciana dell’egemonia, la teoria leniniana delle aristocrazie operaie delle metropoli imperialistiche ha la scusante di essere stata prodotta in un momento di ricerca e di riflessione su fenomeni inediti. Chi pensa di non sbagliare mai, scagli la prima pietra. La teoria del cosiddetto “imborghesimento” della classe operaia non merita invece tanta comprensione. Ho sempre trovato vergognoso che ci si lamenti del fatto che gli operai vogliano comprare l’automobile, il frigorifero, la lavatrice, il televisore, il videoregistratore, la casetta di cattivo gusto con i nanetti sul prato, le vacanze organizzate, eccetera, anziché adempiere al loro (presunto) compito storico di riempire fumose sezioni di partito per organizzare rivoluzioni peraltro sempre dedotte (illusoriamente) da un processo storico (presunto) necessario ed inevitabile. Sul cosiddetto “consumismo” tornerò nel prossimo § 24, dedicato al doppio ruolo della circolazione autoveicolare e della televisione come fattori di una specifica forma storica di “individualizzazione”, e dunque non solo di spreco o di scemenza sociale. Qui mi basta solo ricordare che è assurdo sostenere (anche implicitamente, perché esplicitamente è impossibile farlo senza cadere nel ridicolo) che tutti possono consumare, ma gli operai no. E questo non certo per la nota argomentazione non solo keynesiana, per cui il potere d’acquisto dei salari sostiene la crescita economica e la domanda complessiva, ma per un fatto di etica elementare.

17. La progressiva perdita delle illusioni sulla centralità rivoluzionaria anticapitalistica della classe operaia di fabbrica (illusioni fin dall’inizio dovute alla mancata comprensione del passaggio storico dalla condizione contadina a quella operaia “normale”) ha oggi comportato un visibile spostamento delle attese rivoluzionarie su di un nuovo soggetto sociale complessivo, il “movimento dei movimenti” contro la globalizzazione dell’economia capitalistica. Questo movimento, detto nel linguaggio dei media movimento no-global, sembra per molti aspetti essere l’erede di quello che negli anni Sessanta era chiamato “terzomondismo”. Non è così. Il cosiddetto “terzomondismo” era un elemento ideologico ancora completamente interno al vecchio paradigma rivoluzionario marxista, e recuperava interamente la teoria leniniana dell’imperialismo. L’attuale movimento anti-globalizzazione, almeno nei suoi vertici mediaticamente legittimati, è invece estraneo ed ostile alla teoria dell’imperialismo, perché sogna una globalizzazione già avvenuta, in modo da avere un oggetto da poter contestare globalmente, appunto. A mio avviso, il recente successo delle tesi “imperiali” di Negri e Hardt è dovuto appunto a questo desiderio di completamento, che è però solo un wishful thinking travestito da analisi teorica. Si tratta di un “desiderio”, impropriamente attribuito a Spinoza anziché a Lacan e Deleuze, in cui appunto il desiderio fa da legittimazione teorica. Il movimento anti-globalizzazione trova la sua fondamentale legittimazione culturale non solo nel senso di giustizia, che resta sempre il vero movente originario, ma anche nella decostruzione del vecchio paradigma operaistico marxista, ormai palesemente insostenibile. Che poi si tratti non tanto di una “decostruzione” quanto di una “metamorfosi” è una mia radicata convinzione, che considero però ancora troppo prematura per essere veramente compresa dai polloi (che propongo di tradurre sia come “molti” che come “polli”). In ogni caso è interessante vedere come Che Guevara, che al tempo del terzomondismo era una persona reale in carne e sangue, sia oggi divenuto un logo, cioè appunto un simbolo consumistico ed identitario criticato da molti no-global scopritori dell’acqua calda.

18. La critica artistica al capitalismo, secondo la proposta terminologica di Boltanski e Chiapello, non è soltanto quella dei pittori, scultori, poeti, e scrittori, e neppure quella soltanto dei filosofi critici della società borghese nelle sue varie fasi storiche. È anche quella di chi ha scelto forme di vita contestatrici ed anticonformiste rispetto ai canoni di vita “rispettabili” proposte appunto dallo stile sociale borghese. Questa critica artistica vede il mondo borghese, e di conseguenza il capitalismo concepito come suo prodotto necessario, come ad un tempo alienato ed inautentico. Più esattamente, inautentico perché “alienato”, in quanto fondato sull’alienazione della vera essenza umana, che è creatrice e “generica” (Gattungswesen), nella sola dimensione unilaterale dei valori borghesi e della riproduzione capitalistica. Nel linguaggio di Erich Fromm, l’Avere al posto dell’Essere. Nel linguaggio di Herbert Marcuse, l’uomo ad una dimensione. Questa critica artistica entra in profonda sinergia con quella sociale, se ne nutre e la influenza, ma non le si sovrappone mai, e resta sempre in via di principio distinta. Questa distinzione fra le due critiche è benefica per entrambe, perché garantisce l’autonomia e nello stesso tempo la collaborazione dei lavoratori salariati e degli intellettuali critici. Nessuno dei due, in nessun momento delle prime due età del capitalismo, ha mai il sopravvento sull’altro, al di là della presunta unificazione fittizia nel cielo della politica e dell’ideologia, più esattamente nella nebbia dei politici e degli ideologi professionali. I discorsi sulla alienazione e sulla inautenticità si nutrono di fonti filosofiche serissime, che precedono tutte Marx ed il marxismo. Si tratta delle promesse mancate e non mantenute del migliore Illuminismo e del migliore Romanticismo, ed in più dell’elaborazione ulteriore della cosiddetta “coscienza infelice” hegeliana, fonte primaria di ogni critica non solo della religione, ma anche del capitalismo. Le forme di vita anticonformiste prendono nell’Ottocento e nel primo Novecento l’aspetto della cosiddetta bohème, e nel secondo Novecento il titolo di beat e di hippy. È questo un segno del passaggio dall’egemonia della lingua francese a quello della lingua inglese. Il movimento operaio organizzato sospetta di queste forme di vita anticonformistiche, e ne condanna il carattere piccolo-borghese. Ma nell’essenziale l’alleanza non viene mai spezzata completamente, e viene comunque ricomposta dopo ogni crisi.

19. Le cosiddette “avanguardie storiche”, non solo artistiche e letterarie, ma anche filosofiche (anche se questo termine non è usato abitualmente nel campo della filosofia), sono un esempio di questa critica artistica al capitalismo, della sua strutturalità e della sua permanenza. Il destino di tutte le avanguardie, ovviamente, è sempre quello o di morire nel primo grande scontro con il nemico, o di essere superate dal grosso dell’esercito, di riposarsi e di diventare così “retroguardie”. In questo non c’è nulla di strano, nessun tradimento, nessuna corruzione e nessuno scandalo. Tuttavia il carattere ambivalente delle avanguardie, ad un tempo protesta ed anticipazione inconsapevole di tendenze storiche dominanti, sta proprio nel fatto che esse sono certo scandalose nella prima età protoborghese del capitalismo, diventano solo imbarazzanti ed inquietanti nella seconda età borghese-matura del capitalismo stesso, ed infine finiscono con l’essere fisiologiche ed organiche alla terza età del capitalismo, integralmente post-borghese e post-proletaria, caratterizzata da nuovi ed inediti ceti sociali, dalla classe media globale americanizzata al nuovo lavoro salariato flessibile e precario. In questa terza età del capitalismo l’obsolescenza rapida delle merci diventa programmata, la pubblicità diventa dominante, e per usare la corretta definizione del situazionismo francese, “il valore d’uso delle merci tende a zero e quello di scambio tende all’infinito”. Ed in questo clima di frenetico movimento l’avanguardismo diventa l’ultimo stadio del conservatorismo. Un educato convegno di antichisti che parlano sottovoce di Seneca è infinitamente meno “conservatore” (dello spirito del capitalismo, intendo) di quanto non lo sia un concerto rock dei centri sociali con musica ad altissimo volume. L’apologia avanguardistica del gesto diventa così l’anticamera del falso anticonformismo della pernacchia televisiva. Il mercato dell’arte fagocita tutto, e la critica artistica del capitalismo finisce simbolicamente il giorno in cui un pittore italiano, di cui mi scuso di non ricordare il nome e di non voler perdere tempo a cercarlo, riesce a vendere a buon prezzo un suo barattolino che ha come etichetta “merda d’artista”.

20. Il Sessantotto, il mitico Sessantotto (1968 e dintorni) è certamente una data importante, anche se forse non epocale, nella storia dell’integrazione della critica artistica al capitalismo. Il fatto che molti attori sociali del Sessantotto lo abbiano soggettivamente vissuto come l’anticamera di una rivoluzione comunista classica, edificando nel decennio successivo organizzazioni politiche dotate di falsa coscienza ideologica di tipo marxista, leninista, staliniano, bordighista, trotzkista, maoista ed anarchico è certo interessante sul piano della ricostruzione del “vissuto”, ma lo è molto meno sul piano che qui ci interessa, che è quello di una ricostruzione prospettica delle tendenze di fondo e di lunga durata dell’epoca contemporanea. Nell’ottima formulazione sintetica di Gilles Lipovetsky, «[...] il Sessantotto è stato una rivoluzione senza finalità, senza programma, senza vittime né traditori, senza cornice politica [...] un movimento lassista e molle, la prima rivoluzione indifferente, la prova che non c’è motivo di disperarsi nel deserto [...] in una società intimistica che misura tutto con il metro della psicologia, l’esito post moderno della logica democratica consiste essenzialmente nel compimento definitivo del secolare obbiettivo delle società moderne, cioè il controllo totale della società e, per altro verso, la liberazione crescente della sfera privata consegnata ormai al self-service generalizzato». Sono perfettamente d’accordo. Da un lato, controllo sociale che si vuole totale. Dall’altro lato, ed in sinergia complementare, self-service generalizzato negli stili di vita personali e di gruppo. Per capire questo quasi tutto il marxismo politico tradizionale è inutile, e ci vogliono soprattutto Alexis de Tocqueville e Christopher Lasch. Ma è interessante che a conclusioni analoghe giunga anche il militante politico italiano Guido Viale: «Con il Sessantotto il linguaggio si unifica, nasce il “sinistrese”, un misto di marxismo, di sociologia industriale, di contrattualismo americano, di terminologia medica e psicanalitica. Ma viene parlato da tutti. Scompaiono i dialetti, ma anche il linguaggio accademico e quello letterario. Le condizioni per la scalata del Sessantotto al potere sono poste. Il potere si riorganizza ed il controllo sociale viene restaurato nelle forme, con gli strumenti e con il linguaggio forniti dal movimento: nasce il consenso politico organizzato». Il Sessantotto è dunque una importante tappa nella storia dell’affermarsi dell’individualismo subalterno che assume in un primo momento adolescenziale di acne giovanile la forma di un collettivismo politico esasperato. Un segreto, ma anche un segreto di Pulcinella.

21. Dopo il Sessantotto, nel suo apparente momento di massimo successo, il marxismo si frantuma in pezzi disorganici e non comunicanti, costituiti dall’operaismo sindacalistico, dal femminismo differenzialista, dall’ecologismo prima radicale e poi addomesticato dal ceto politico, dal pacifismo generico, dal giornalismo progressista “sinistrese” politicamente corretto, ed infine dall’incorporazione dei linguaggi universitari, in cui non c’è alcuna comunicazione fra il dialetto storico, quello filosofico, quello economico, quello sociologico, quello psicologico, quello politologico, eccetera. Questa esplosione della critica marxista è ovviamente preliminare e complementare alla implosione del sistema culturale complessivo del capitalismo di cui parlerò fra poco nel § 23, che è la chiave teorica di questo intero saggio e ne giustifica il titolo. In questa terza età del capitalismo, l’incorporazione universitaria (e poi giornalistica nella forma dell’“opinionismo autorevole”) della critica sociale assume caratteri quasi totalitari. Ci fu un tempo in cui Rosseau, Marx, Engels, Gramsci, ecc., non erano professori universitari e neppure cercarono di diventarlo. Oggi questo “dilettantismo” non è più consentito. In questo rilievo non intendo affatto riprendere la vecchia polemica contro la cultura universitaria inaugurata da Schopenhauer. In giusti e moderati limiti, io sono un fruitore della cultura universitaria. Ma qui noto un fatto storico e sociale, non un oggetto di facile polemica. L’incorporazione universitaria della critica sociale (ed artistica) al capitalismo ne rappresenta anche in modo evidente la neutralizzazione. Adorno aveva ancora un piede dentro ed uno fuori dall’Università, ma il suo allievo Habermas ormai né è solidamente dentro con entrambi i piedi. Che questo non c’entri nulla con il contenuto del pensiero lo lasciamo a coloro che credono che il 6 gennaio il carbone per i bambini lo porti una vecchietta chiamata Befana.

22. Possiamo qui fare una breve pausa, tirare le conclusioni del discorso iniziato nel § 12, in cui ho proposto la distinzione di Boltanski e Chiapello sulle critiche sociali ed artistiche al capitalismo. In questa recente terza età del capitalismo si sono entrambe indebolite ed hanno entrambe subìto un progressivo e graduale processo di integrazione e di neutralizzazione. Il loro spostamento fuori dal sistema capitalistico vero e proprio inteso in senso “metropolitano” (terzomondismo, movimento antiglobalizzazione, ecc.) è certo giustificato sul piano morale, ma sul piano pratico non fa che evidenziare il successo dell’integrazione, o almeno della neutralizzazione. È necessario partire da questa presa d’atto, ammesso che sia esatta (come io credo), per poter avanzare una diagnosi realmente credibile sulla natura profonda dell’attuale crisi culturale del capitalismo. Ed è quello che farò nel prossimo importante paragrafo.

23. L’indebolimento, la metabolizzazione, la neutralizzazione e l’incorporazione dei due tipi di critica precedente, sociale ed artistica, basate sulla convergente denuncia dell’ingiustizia e dell’inautenticità della vita nel capitalismo borghese, hanno portato egualmente ad una crisi culturale del potere in questa terza età del capitalismo stesso. Questa crisi culturale è una crisi implosiva, nel senso che la vittoria temporanea conseguita contro i suoi precedenti critici è stata talmente grande da essere anche eccessiva. In che senso diciamo che è stata eccessiva? Nel senso che essa non si è limitata a dominare il senso e la prospettiva dei suoi critici, ma li ha praticamente annientati, al punto da far sparire non solo il senso e la prospettiva “critici”, ma il senso e la prospettiva in quanto tali. Di una vittoria di questo tipo si può anche morire. Un cabaret culturale fatuo può anche continuare a dire che Dio è morto, Marx è morto, il senso è morto, la prospettiva storica è morta e ciò nonostante non siamo mai stati tanto bene, AIDS e Bin Laden permettendo. È possibile concentrare nei mercati un gigantesco ammasso di merci e di servizi, ed è anche possibile (anche se molto più difficile) aumentare gradatamente il numero dei potenziali clienti solvibili, ma è impossibile sostenere che tutto questo è senso e prospettiva a sé stesso. I discorsi sul “virile disincanto” del mondo prodotto dalla scienza possono soddisfare qualche laico deluso dal suo precedente marxismo messianico-economicistico, ma sono costretti a coesistere con gli anziani pellegrini di Padre Pio da Pietrelcina con i loro piedi gonfi e le loro immagini sacre. Si possono marginalizzare i critici, definendoli in lingua inglese lunatic fringes (frange folli), etichettare chi si oppone alle guerre ed ai bombardamenti “pacifisti ideologici” (come se gli altri non fossero guerrafondai anch’essi ideologici), insultare chi si oppone ad un unico impero mondiale unilaterale come “antiamericano” (facendo così diventare anti-americani milioni di americani critici e sensibili), ecc. Ma in definitiva questo interminabile cacofonico bla-bla mediatico non può riempire l’assordante vuoto del senso e della prospettiva. Ora, l’uomo per sua natura è un animale lavorativo, linguistico e simbolico, e dunque un animale “generico” che vive di senso e prospettiva. Possiamo chiamare questo natura umana, oppure anche “anima umana”, secondo una prospettiva aperta dal venerando pensiero di Platone e recentemente riproposta con grande coraggio linguistico e teorico dal giovane studioso italiano Luca Grecchi. In ogni caso, comunque vogliamo chiamare questo fondamento veritativo dell’esistenza individuale e sociale, appare chiaro che l’implosione integrale del senso e della prospettiva configurano non solo una crisi, come è evidente, ma una crisi specifica e relativamente inedita, che è necessario prima inquadrare sommariamente nei suoi tratti essenziali, e poi cominciare a discutere in dettaglio. Nei prossimi paragrafi mi limiterò ad alcune osservazioni introduttive per una discussione ancora da fare.

24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana. Non intendo discutere Charles Darwin, di cui sono ovviamente ammiratore. A suo tempo Herbert Marcuse colse una parte del problema, quando scrisse che una bomba è molto più pornografica del pelo del pube di una donna. Infatti è esattamente così. Ma Marcuse non coglieva integralmente il centro della questione, perché riteneva liberatorio il disvelamento non-repressivo degli ultimi organi sessuali non ancora consentiti dal moralismo borghese. È vero che lo spettacolo più pornografico è quello della violenza organizzata. Personalmente, non ricordo uno spettacolo televisivo più pornografico di quello messo in onda ogni giorno, e parecchie volte al giorno, della partenza dei bombardieri della NATO da Aviano fra il marzo ed il maggio del 1999, direzione Belgrado. La domenica ondate di pornografi socialmente approvati invadevano con le loro automobili i dintorni degli aeroporti militari.

Eppure nell’odierna pornografia, venduta in busta chiusa ed in videocassetta, e soprattutto dilagante in Internet, c’è qualcosa di specifico, e cioè la derealizzazione della stessa materialità del corpo umano, del contatto fisico e della conseguente affettività che ne deriva (perché nessuno negherà che contatto fisico ed affettività spirituale sono legati), in vista di una virtualità integrale. La masturbazione non è più dunque un momento iniziatico giovanile, ma la modalità adulta normale con cui la sessualità è proposta e praticata nella terza età del capitalismo. Contro la circolazione autoveicolare è stato scritto molto, non solo per le conseguenze devastanti sull’inquinamento ambientale e sulla salute umana, ma anche per la desocializzazione che un inutile uso eccessivamente individuale dell’auto comporta. Sarebbe sbagliato negare che l’auto è stata e può ancora essere un formidabile momento di libertà e di avventura. Chi scrive fa parte della generazione che negli anni Sessanta scoprì l’Europa in autostop, ed io personalmente mi onoro di far parte del ristretto club di chi è andato in autostop fino a Capo Nord in Norvegia (luglio 1963). Non mi piace sputare nel piatto in cui ho mangiato. E tuttavia la circolazione autoveicolare, inferno fordista per i produttori e paradiso turistico per i consumatori, ha imboccato la strada senza ritorno di un modello di vita non più sostenibile. È stato notato che se la circolazione autoveicolare oggi presente negli USA, in Europa, in Giappone e in Australia, fosse estesa al resto del mondo, gli equilibri ambientali salterebbero definitivamente. Le città storicamente non fatte per le auto (ed io cito solo alcuni casi che conosco personalmente, Napoli, Il Cairo, Istambul, Atene) sono già state di fatto uccise dalle auto stesse. Ma ancora una volta l’aspetto culturale che ci interessa sta in ciò, che l’individuo viene socializzato in modo ormai del tutto artificiale, come guidatore inscatolato nel traffico in perpetua oscillazione fra la rassegnazione e la rabbia, ed anche come supremo giudice non solo della sua vita ma anche di quella altrui sulla base delle sue sovrane scelte di comportamento e di velocità. Fatte queste ovvie ed un po’ banali premesse, è chiaro che la televisione resta a tutti gli effetti lo strumento più noto e meno conosciuto del tempo presente. Jean Baudrillard ha avuto il merito di rilevare il carattere dirompente e passivizzante di questo mezzo rispetto soprattutto alla guerra e alla violenza, ridotte a simulazioni da videogioco ed a luci di tracciati nella notte, senza il contorno di sudore, di sangue e di distruzione. Come molti francesi della rive gauche, egli si compiace narcisisticamente dei suoi paradossi, ma finisce con il cogliere l’aspetto principale della questione. Un aspetto che a mio avviso non è colto molto bene da Popper, altro grande nemico della televisione, che finisce per fare un’eccezione nella sua ostilità al dirigismo per la televisione stessa, in cui sembra che auspichi un intervento di filosofi-re platonici per limitare l’onnipervasività diseducativa di questa scatola di scemenze. Un’interessantissima contraddizione. Ma è forse Pierre Bourdieu che coglie meglio a mio avviso il centro della questione. Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la CNN americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta.

25. Nel paragrafo precedente ho fatto una breve fenomenologia di quattro fenomeni sociali contemporanei. Questa fenomenologia è indubbiamente povera ed un po’ banale, ma il suo scopo era esclusivamente quello di mettere a fuoco il processo sinergico di individualizzazione e di socializzazione del suddito della terza età del capitalismo come cittadino dimezzato di una nuova “folla solitaria”. Utilizzando la classica espressione di David Riesman di “folla solitaria” intendo ricordare che non si ha qui più a che fare con il “popolo”, l’espressione moderna che indica la base sociale ed elettorale di una “democrazia partecipativa”. La folla solitaria non è il popolo. Il popolo produce programmi politici alternativi, li discute e ne fa oggetto di negoziazione razionale. La folla solitaria è oggetto di strategie prevalentemente televisive di seduzione personalizzata di leaders mediatici, i cui programmi politici sono al 95% identici in quanto preventivamente compatibilizzati con i vincoli economici e finanziari transnazionali. Solo alla luce di questa comprensione storico-politica è possibile impostare problemi come quelli del discorso sportivo, della pornografia e del sesso virtuale, della circolazione autoveicolare patologica e della manipolazione televisiva. Toccherò in questo paragrafo altri tre problemi, quello della cosiddetta anomia giovanile, quello della famiglia e quello della scuola. Enormi problemi, che però toccherò solo nell’ottica dell’ipotesi della individualizzazione adattativa precedentemente avanzata. Recentemente vi è tutto un fiorire nel mondo (e quindi anche in Italia) di discorsi sulla cosiddetta “afasia giovanile”, sui giovani culturalmente piallati, sull’impoverimento del linguaggio giovanile ridotto a messaggio SMS, sulla diminuzione delle capacità di ragionamento e scrittura, sulla malvagità della “violenza di branco”, eccetera. Insegnanti, psicologi, teologi, mamme preoccupate, politici ipocriti e distratti, eccetera, tutti si esercitano su questo tema. Alcuni giovani reagiscono con vivacità a queste diagnosi di rincretinimento, ma la maggioranza non se ne accorge neppure. Tentiamo un ragionamento. Personalmente, non credo che i giovani oggi siano moralmente più cattivi ed intellettualmente più cretini di noi o dei nostri padri e nonni. Queste diagnosi ricorrenti, già sicuramente espresse in sumerico, antico egizio e miceneo, sono generate da un’ideologia spontanea della prima senilità (50-70 anni), che in questo modo reagisce fisiologicamente allo spaesamento temporale dei costumi.

La seconda senilità è in generale più tollerante, ma non perché invecchiando si diventi più buoni, ma perché con l’approssimarsi della morte si ha altro a cui pensare e non si ha più voglia di perdere tempo sparando sugli adolescenti indifferenti. In ogni caso, bisogna dire che al di là della vecchia ideologia spontanea della prima senilità si è oggi effettivamente in presenza di una novità storica da sottolineare. Se è vero che l’implosione del senso e della prospettiva caratterizza l’attuale terza età del capitalismo, che non solo ha vinto contro le due critiche sociale ed artistica, ma ha stravinto e dunque vinto troppo, allora i giovani sono le prime vittime. I giovani infatti vivono di senso e di prospettiva. Questo fu detto molto bene dai romantici, e da Fichte in particolare. La trasformazione dei giovani in un gruppo consumistico generazionale è effettivamente una preoccupante novità storica. Se gli insegnanti notano nel mondo intero una caduta delle capacità logiche degli studenti, questo è dovuto al fatto che ormai il general intellect capitalistico ha raggiunto un tale livello di incorporazione anonima di conoscenze da avere sempre meno bisogno di una famiglia in cui si parli e di una scuola in cui si ragioni. La questione giovanile è dunque storica e filosofica, non psicologica e pedagogica. I giovani devono tornare ad avere senso e prospettiva. Allora, si vede subito che recuperano d’incanto capacità logiche, espressive ed emozionali. La tendenza della famiglia a ridursi ad un “centro di consumo” di merci e servizi non è certo nuova.

La demenziale ideologia futuristica della cosiddetta “sinistra” ha sempre sparato sulla famiglia, ed ancora una volta la convinzione di essere antiborghesi ed emancipati ha solo accompagnato una tendenza del capitalismo nel suo passaggio dalla sua seconda alla sua terza età. La borghesia colta, la cultura contadina e le religioni organizzate sono state sempre meno stupide, anche se come si suol dire “ci vuole proprio poco”. I centri di consumo prima implodono nell’anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computers, ecc.). Diventano inutili, ed il loro patetico brontolio non riesce a vincere il clima di disattenzione in cui vivono. Mamme trafelate passano la giornata ad accompagnare rampolli e rampolle a lezione di inglese, danza, flauto dolce, ecc., ma questo non fa cultura ma solo presenzialità ansiogena. Il deserto familiare è provvisoriamente coperto da tate e badanti messicane negli USA e moldave in Europa, ma questo non fa senso e prospettiva. La famiglia borghese, che a suo tempo Hegel correttamente ed intelligentemente metteva alla base della “eticità” viene liquidata dal capitalismo stesso, e non certo dai fumatori strafatti di canne e di paglie. Il sistema scolastico si trova di conseguenza nel centro di un tifone, e cioè nella crisi più grande dal tempo in cui ne è nata la versione moderna, fra il Settecento e l’Ottocento. Non si tratta solo di alcune stupidità assolutamente congiunturali ed alla moda oggi, come l’annientamento dell’educazione classica, l’odio provinciale e regressivo per la lingua francese in favore di un inglese da portieri d’albergo, l’indebolimento della stessa matematica in favore di una semplice alfabetizzazione informatica, ecc. Queste sono disgrazie come le invasioni delle cavallette, cui si può forse resistere. Più pericolosa e decisiva, a mio avviso (e parlo da competente sulla questione scolastica) è la scelta strategica dei quiz nel sistema di esami e controlli. Il sistema dei quiz, che a mio avviso merita solo di essere fatto saltare con una resistenza ad oltranza, è concepito per distruggere la lunga consuetudine al ragionamento logico ed ancor più al dialogo su cui si basa da più di due millenni la tradizione occidentale. Dialogo significa etimologicamente in greco dia-logos, il fatto cioè che la ragione passa attraverso due interlocutori almeno, ed in questo modo si incrementa e si modifica. La fine della scuola del dialogo è la fine della scuola così come l’abbiamo conosciuta, e questo al di là di tutti i discorsi secondari sull’asse umanistico e/o sull’asse scientifico, eccetera.

26. La rapida fenomenologia svolta nei due precedenti paragrafi intende suggerire al lettore che ci troviamo ormai in un paesaggio culturale nuovo. Le vecchie mappe non servono più. Un terremoto ha cambiato il corso dei fiumi ed ha spianato alcune montagne. I ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo lo stanno cominciando a capire in molti. Fra questi molti non ci sono però i “marxisti”, o almeno la maggioranza di essi. I più conservatori, numerosi fra i militanti di base e gli animatori dei gruppetti fondamentalisti, sono fermi alla prima età del capitalismo. I più vivaci ed aggiornati sono giunti confusamente a capire che c’è una seconda età del capitalismo, e sono pertanto in ritardo solo di mezzo secolo, e non di un secolo intero. Bravi, mi compiaccio. Mi compiacerei però ancora di più se qualcuno prendesse atto che ormai siamo giunti alla terza età, non solo alla seconda. Ma questo presupporrebbe una rivoluzione culturale gigantesca. Io conosco abbastanza bene il mondo culturale dei cosiddetti “marxisti”. Nessuna illusione. Non sono preparati a fare questa rivoluzione culturale. Giocano a fare i progressisti contro i conservatori, e non capiscono che il capitalismo della terza età non intende conservare più niente. Giocano a fare gli atei contro i credenti, e non capiscono che la religione non è più un’ideologia di legittimazione di questo capitalismo maturo, ma lo è stata solo in epoche passate da tempo. Giocano a fare i “sinistri” contro i “destri”, e non capiscono che questa dicotomia obsoleta è rimasta solo una sorta di protesi elettorale artificiale da reintrodurre durante gli scontri simulati delle campagne mediatiche. Giocano a fare i “materialisti” contro gli “idealisti”, senza neppure sospettare che questa dicotomia fu introdotta da Engels nel lontano 1878 sulla base delle classificazioni dei professori positivisti tedeschi, barbuti borghesi che più barbuti proprio non si può. Giocano alle figurine ed alle biglie in un’epoca di videogiochi, e questo non sarebbe neppure sbagliato, se non credessero di essere alla cosiddetta “avanguardia”. Questa impotenza è tragicomica. Alla base, naturalmente, c’è sempre lo smarrimento del senso e della prospettiva. A suo tempo (esattamente nel 1956) il grande Lukács individuò nella “prospettiva”, cioè nella prospettiva storica credibile, l’elemento fondamentale e primario del marxismo teorico e del comunismo politico. Se mi si consente un semplice gioco di parole, un movimento senza prospettiva non ha prospettiva. E questo è proprio il caso del movimento comunista oggi. Lo smarrimento del senso è legato al disprezzo tradizionale del marxismo verso una concezione conoscitiva e veritativa della filosofia. Alla lunga l’overdose di ideologia annienta l’organismo. L’alleanza fra dirigenti cinici e disincantati e militanti credenti ma creduloni ha distrutto per ora ogni tessuto vitale. Ma la situazione non è forse irreversibile, anche se tutto è nelle mani di una possibile nuova generazione che sappia disfarsi dell’orribile ciarpame teorico e pratico accumulato nell’ultimo mezzo secolo. Essa deve credere nella filosofia, non smettere di praticare la scienza, ridurre l’ideologia al minimo possibile (non credo nella sua eliminazione integrale, e neppure la auspico), aprirsi agli altri e non credersi autosufficienti.

27. L’implosione del senso e della prospettiva frutto dell’eccessiva e smodata vittoria del capitalismo della terza età sui suoi deboli nemici, si accompagna oggi ad una nuova idolatrica religione imperiale. Essa è compendiata nella stesura del documento sulla Strategia nazionale di sicurezza degli USA, presentata a Washington il 20 settembre 2002, e dichiara testualmente: «L’umanità ha nelle sue mani l’occasione di assicurare il trionfo della libertà sui suoi nemici. Gli Stati Uniti sono fieri della responsabilità che incombe loro di condurre a termine questa importante missione». Questa missione, ovviamente, nessuno gliela ha affidata. Se la sono affidata da soli. Questa è la mossa imperiale per eccellenza. In questa neolingua profetizzata da Orwell nel 1948 non ci può essere conflitto fra la comunità internazionale e gli USA perché gli USA si sono autodefiniti “comunità internazionale”. Il “terrorismo” è ciò che viene fatto contro di loro, mentre ciò che viene fatto da loro (e dai loro servi-padroni sionisti) non è terrorismo, ma legalità internazionale. Gli ultimi scritti di Noam Chomsky sono tutti dedicati a questa “neolingua” scandalosa e orribile. La legalità internazionale si manifesta nella forma della guerra umanitaria per liberare i popoli dai dittatori che li opprimono. Diamo la parola a Gian Enrico Rusconi, che ha cercato di definirla: «La logica delle guerre umanitarie del nuovo interventismo unilaterale si basa su quattro elementi: a) la prova di gravi crimini, in forma di massacri indiscriminati, di genocidi effettivi o anche solo potenziali; b) questa prova, affidata al sistema mediatico internazionale, colpisce la pretesa di insindacabile sovranità dello stato interessato…; c) il soggetto internazionale deputato ad intervenire in prima istanza è l’ONU, ma in caso di paralisi o lentezza di riflessi dell’ONU si fa valere un’informale comunità internazionale, costituita di fatto dalle grandi nazioni occidentali che si candidano all’intervento umanitario armato; d) lo scopo finale dichiarato dell’intervento è la ricostruzione di un ambiente … pacificato, in forme democratiche possibilmente di stampo occidentale»

Il pensiero imperiale è un pensiero fondato su una logica circolare, in quanto parte da se stesso e finisce con se stesso. La prova (evidente) del comportamento non-umanitario è data dal sistema mediatico internazionale (CNN, ecc.), che mette in movimento l’informale comunità internazionale (da cui sono escluse India, Cina, Africa, mondo arabo, Russia, ecc., in base al principio orwelliano per cui sono tutti internazionali, ma alcuni sono più internazionali degli altri). Questa informale comunità internazionale ristabilisce se stessa allargata. Tutto questo è semplicemente ripugnante per ipocrisia e violenza. L’universalismo non è più un progressivo processo dialogico, ma una proclamazione preventiva in cui ci si autoinveste di una Missione Speciale la cui investitura è quella di un Dio sionista-protestante che per definizione esclude non solo i musulmani ed i buddisti, ma anche i cattolici e gli ortodossi. In sintesi, possiamo dire che il nucleo dell’attuale crisi culturale del capitalismo globalizzato della terza età sta in una implosione del senso e della prospettiva coperta da una idolatrica religione imperiale. È difficile frenare il disgusto scrivendo queste righe.

28. La resistenza alla religione imperiale della Missione Speciale diventa quindi oggi la premessa per ogni azione culturale dotata di senso e di prospettiva. Questa resistenza non può essere evitata, ed è un dovere dell’ora presente. Essa verrà certamente diffamata come anti-americanismo. Naturalmente non lo è per nulla. La resistenza si esercita contro la religione imperiale della Missione Speciale, non contro l’America, il popolo americano nel suo insieme e la cultura americana come tale. Se si è contro Franco non per questo si è anti-spagnoli, se si è contro il sionismo non per questo si è anti-semiti, se si è contro Stalin non per questo si è anti-russi (o anti-georgiani), se si è contro Mussolini non per questo si è anti-italiani. È quasi ridicolo dover ricordare queste banalità, ma ci troviamo oggi in una tale situazione di barbarie e di manipolazione da dover ricordare continuamente anche elementari ovvietà. È invece necessario rilevare (e faccio qui riferimento a temi anticipati nel § 17) che la teoria dominante nel movimento anti-globalizzazione non è in grado di comprendere i termini del problema. Come ha recentemente rilevato in un lucidisimo contributo Danilo Zolo, il movimento detto no-global ritiene che la globalizzazione capitalistica sia escludente, cioè escluda politicamente ed economicamente i popoli e gli stati, laddove al contrario secondo Zolo (ed io concordo pienamente) essa non è affatto escludente, ma è includente. Essa “include”, ovviamente in forma subalterna e con grandi differenziali di ricchezza e tecnologia, il più possibile di popoli e di stati, distruggendo le identità nazionali e le sovranità statuali. Bisogna dunque favorire l’esclusione, nella forma della secessione politica, economica e culturale, non chiedere pietosamente l’inclusione. Bisogna favorire alleanze, federazioni, confederazioni, ecc., di stati, popoli e nazioni che siano disposti a resistere all’impero della Missione Speciale, non chiedere in modo querulo di esservi “inclusi”. È questo un punto essenziale, e nello stesso un punto talmente decisivo da poter essere sicuri che le soverchianti forze della “sinistra istituzionale”, dominanti negli apparati politici, partitici e mediatici anche e soprattutto nelle aree chiamate di “movimento”, faranno di tutto per cancellare, confondere ed impedire. È vero che la cultura resta nell’essenziale paideia, educazione universalistica del genere umano, ma se non si ha anche il coraggio di passare attraverso il purgatorio della resistenza politica all’arroganza imperiale non si arriverà mai a nessun universalismo, ed il discorso resterà astratto e vuoto.

29. Segnalando la necessità imprescindibile di resistere alla cultura imperiale della Missione Speciale si è solo posta una precondizione, ma non si è neppure lontanamente impostato il problema di una cultura alternativa alla implosione del senso e della prospettiva concepita come meccanismo di individualizzazione e di socializzazione adattativa. Resistenza significa solo anti, ed ogni cultura costruita solo negativamente sull’“anti” (anticapitalismo, antifascismo, anticomunismo, ecc.) è per definizione insufficiente. Un “anti” (e si pensi solo al cosiddetto ateismo) è sempre prigioniero della problematica cui si oppone, ed è perciò destinato a girare in tondo dentro la circonferenza che lo tiene sotto controllo. Dopo e con la resistenza ci vuole ovviamente una cultura, intesa come educazione progressivamente universalistica del genere umano (paideia, Bildung). In proposito, chi definisce formalisticamente l’universalismo in modo di fatto procedurale (ad esempio Habermas, ma non solo) non avrà mai nessun universalismo, ma solo l’ipostatizzazione in falsa coscienza delle regole di produzione della propria limitata cultura particolare. La “civile conversazione” di Richard Rorty ne è un esempio, perché si universalizza solo lo stile comunicativo dei campus americani. Nessuna universalizzazione potrà mai avvenire se non si parte dal diritto imprescindibile delle comunità e delle nazioni di preservare la loro identità linguistica e culturale contro i progetti di omogeneizzazione imperiale globalizzata. Questo non solo non è in opposizione all’universalismo, ma ne è un presupposto.

30. Finiamo qui, dove il discorso in realtà incomincia. Ma non avrebbe senso cercare di dire qui qualcosa di più, e cioè “riempire” i contenuti di questa possibile nuova cultura di educazione universalistica del genere umano nella inedita condizione storica, politica e militare di riduzione dello stesso genere umano a “platea di cosumatori”. Sarebbe facile riempire pagine con la segnalazione dei contenuti storicamente prodotti dalla paideia greca e dalla Bildung tedesca. Platone ed Aristotele, Kant e Hegel, eccetera, sono a disposizione di tutti. Il novum che verrà fuori nei prossimi decenni non può essere prefigurato e previsto. In questo contributo ho cercato non certo di prefigurarlo e di prevederlo (cosa impossibile) ma solo di inquadrarne sommariamente le condizioni storiche di possibile emersione. Il resto è chiuso da sette sigilli.

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Il principale testo di riferimento di questo mio saggio (tre età del capitalismo, critica sociale ed artistica, ecc.) è L. Boltanski-E. Chiapello, Le nouvel ésprit du capitalisme, Gallimard, Paris, 1999. Sulla distinzione fra Borghesia e Capitalismo (§ 3) vedi il mio La passione durevole, Vangelista, Milano, 1989. Sul concetto di educazione filosofica come educazione universalistica del genere umano (§§ 4 e 29) vedi il mio L’educazione filosofica, Editrice CRT, Pistoia, 2000. Sulle crisi capitalistiche (§ 6) vedi G. La Grassa, La tela di Penelope, Editrice CRT, Pistoia, 1999. Sulla crisi politica della prima repubblica in Italia (§ 7) vedi G. La GrassaC. Preve, Il teatro dell’assurdo, Punto Rosso, Milano, 1995. Sul concetto di civiltà post-occidentale (e non invece occidentale, come sempre si dice) si veda D. Fennel, The Postwestern Condition, Minerva Press, London 1999 (§ 2). Sul Sessantotto (§ 20) si veda G. Lipovetsky, L’era del vuoto, Luni, Milano, 1995 e G. Viale, Il Sessantotto, Mazzotta, Milano, 1978, pp. 256-270. Sull’incorporazione universitaria della critica ($ 21) vedi dello scrivente Il ritorno del clero, Editrice CRT, Pistoia, 1999. Per il § 24 si veda, per la circolazione autoveicolare,Koiné. Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001, pp. 21-26, ed i saggi di A. de Benoist in “Diorama letterario”, n. 232, gennaio 2000. Sulla televisione si veda K. Popper e J. Condry, Cattiva maestra televisione, Donzelli, Roma, 1996 e P. Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano, 1997. I §§ 27-28 sono dedicati al cruciale tema della religione imperiale della Missione Speciale. Sulla “neolingua imperiale” si vedano soprattutto gli scritti di Noam Chomsky, cui c’è ben poco da aggiungere. Sulla nozione di “guerra umanitaria” si veda G. E. Rusconi, Guerra e intervento umanitario, in “Annale 18 della Storia d’Italia Einaudi”, 2002. Sul carattere “inclusivo” e per nulla esclusivo, della logica globalizzante imperiale, e sulla necessità di attuare una secessione organizzata, e non di chiedere in modo querulo (o aggressivo, poco importa) una inclusione, si vedano le sei stupende pagine di Danilo Zolo, Pace contro l’universalismo imperiale, in “Rivista del Manifesto”, n. 32, ottobre 2002.

In queste sei pagine è compendiato anche il mio punto di vista sulla questione

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