Il comunismo del sensibile

mar 27th, 2020 | Di | Categoria: Dibattito Politico

 

Jacques Rancière

Il comunismo del sensibile

Manifesto a più voci per il XXI secolo

 

Pubblichiamo qui l’intervento di Jacques Rancière dal volume Comunismo necessario. Manifesto a più voci per il XXI secolo, edito da Mimesis. Il volume raccoglie una selezione delle relazioni e degli interventi pronunciati durante le giornate della Conferenza di Roma sul Comunismo, organizzate dal collettivo C17 (Con scritti di: Étienne Balibar, Riccardo Bellofiore, Maria Luisa Boccia, Ilaria Bussoni, Luciana Castellina, Pierre Dardot, Terry Eagleton, Silvia Federici, Roberto Finelli, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Christian Laval, Nicolas Martino, Morgan Merteuil, Sandro Mezzadra, Antonio Negri, Brett Neilson, Alexei Penzin, Jacques Ranciere, Francesco Raparelli, Kaushik Sunder Rajan, Peter D. Thomas, Mario Tronti, Paolo Virno, Slavoj Zizek).

Partirò da una nota per me essenziale: l’idea di comunismo nella sua forma moderna è fondamentalmente un’idea estetica. La rottura marxista con il comunismo utopico è la rottura con l’idea etica di comunità modello. È l’idea di comunismo come mondo sensibile, dove tutte le capacità umane raggiungono il loro pieno sviluppo e tutti partecipano delle stesse ricchezze sensibili. È questa l’idea al cuore del principale testo che Marx dedica al comunismo, ossia il terzo dei Manoscritti del 1844. L’idea di comunismo è l’idea di un’umanizzazione dei sensi umani. Il comunismo è lo stato nel quale l’esercizio dei sensi umani – materiali e spirituali – è fine a se stesso, non più soggetto alla volgarità dei bisogni, essa stessa conseguenza della proprietà. È l’uscita dal regno umano-non umano della proprietà e dell’utilità. Oltre il suo riferimento immediato – l’antropologia di Feuerbach – questa idea di comunismo s’inserisce nel contesto di quella che ho chiamato rivoluzione estetica.

Questo termine designa un processo a lungo termine di cui vorrei sottolineare due aspetti essenziali. Il primo: l’arte si è emancipata come sfera dell’esperienza sensibile. L’ha fatto in due modi principali: in primo luogo, separando le produzioni artistiche dal loro impiego al servizio della religione, delle monarchie e dalle aristocrazie, per trasformarle in un patrimonio comune situato in luoghi specifici; in secondo luogo, abolendo i confini che separano i soggetti e le modalità di fare Belle Arti dal mondo dell’esperienza ordinaria. Il secondo aspetto riguarda la trasformazione delle forme di vita, e non solo delle istituzioni e delle leggi, che si è definita come orizzonte d’azione comune e si è posta al cuore del pensiero e della pratica rivoluzionaria. L’ha fatto attraverso un programma filosofico-poetico, come l’idea schilleriana di un’educazione estetica dell’umanità. Ma l’ha fatto anche attraverso la formazione di nuovi modi di soggettività in quegli uomini e quelle donne del popolo che di norma erano destinati alla routine del lavoro e della riproduzione. La parola emancipazione ha significato per loro la trasformazione del modo stesso in cui facevano uso delle loro mani, dei loro occhi, del loro linguaggio e del loro pensiero. Ha significato l’accesso a forme di percezione, di affetto e di piacere che erano loro precluse, l’affermazione della loro capacità di partecipare a un mondo comune in tutte le sue forme.

In Marx, l’elaborazione di una nuova idea di comunismo si inserisce in continuità con questa rivoluzione soggettiva. Essa eredita la grande rottura dichiarata da Kant e sviluppata da Schiller: il giudizio estetico, dice Kant, definisce un’universalità di un nuovo tipo. C’è una forma di apprensione del sensibile a cui tutti possono partecipare perché indifferente all’esistenza reale di un oggetto; è indifferente a ciò che fa di una forma sensibile una cosa utile a un fine e un oggetto di appropriazione. L’idea centrale di quella che ho chiamato rivoluzione estetica è l’idea di una capacità comune a tutti gli esseri umani. Quest’idea rompe con la tradizionale divisione che separa gli uomini condannati all’utilità e gli uomini che la proprietà rende adatti a un’elevazione al di là dell’orizzonte limitato dell’utilità immediata. È l’idea di una forma di uguaglianza che non si formula in termini di diritti e di leggi, ma attraverso la capacità di partecipare a uno stesso mondo sensibile. È anche, indissolubilmente, l’idea che la forma del sentire e dell’agire umano che ne realizza l’essenza sia una forma dove i mezzi non sono distinti dal fine. C’è comunismo quando le forze essenziali dell’umanità sono sviluppate per se stesse e tutti vi partecipano quando, in definitiva, tutti vivono nell’universo dei fini in sé. Si può dire che questa idea di comunismo appartiene al “giovane Marx”, ma il vecchio Marx non ne ha elaborata un’altra.

Ricordare questo aspetto “estetico” del comunismo è anche mettere in discussione una certa visione che contrappone la comunità all’individuo isolato così come si contrappone il bene al male. Questa visione è in larga parte dipendente da un altro contesto nel quale si è formata l’idea comunista moderna: il contesto del pensiero controrivoluzionario che denuncia l’individualismo protestante colpevole di aver distrutto le grandi comunità protettrici di una volta. Ma il comunismo non contrappone la comunità all’individuo. Non c’è, da un lato, il regno degli individui isolati o egoisti e, dall’altro, il regno della comunità. Si è già da sempre abitanti di un determinato mondo comune, e una forma di comunità definisce sempre anche un modo di individualità. Ciò che Marx contrappone sono due mondi comuni: un mondo comune della proprietà e dell’utilità, che è un mondo dei bisogni umani poveri, e un mondo dei bisogni umani arricchiti. In questo secondo mondo, non si lavora più per vivere ma per realizzare e migliorare la propria capacità di esplorazione del mondo sensibile; non ci si riunisce più per discutere gli interessi degli uni e degli altri ma per sviluppare le capacità sociali degli uni e degli altri: la propria capacità di pensare, sentire e agire insieme, ma anche la capacità di ciascuno di agire come essere sociale.

L’importante, in realtà, non è sapere se è un singolo, un piccolo o un grande numero di persone che agisce, ma qual è la potenza di universalizzazione del potere di tutti che è immanente al loro atto. Ecco perché Marx e Engels possono esprimersi riguardo alla personalità dell’artista in un modo apparentemente contraddittorio. Da un lato, essi rappresentano il comunismo come uno stato dove non ci saranno più pittori ma uomini che, tra le varie attività, faranno anche dei dipinti. Dall’altro, possono celebrare la virtù del grande artista che esprime la fine di un mondo e l’avvento di una nuova epoca dell’umanità. È così che la prefazione all’edizione italiana del Manifesto comunista evoca la possibilità di un nuovo Dante che inauguri l’era di un mondo comunista a venire, come il suo antenato inaugurò l’epoca moderna del capitalismo. La figura dell’opera individuale che riassume un mondo collettivo appartiene pienamente all’universo della rivoluzione estetica da quando la voce dell’artista Omero è stata riconosciuta come la voce anonima del popolo greco. E l’appello a un nuovo Dante che doni forma poetica al materiale ancora informe del nuovo mondo in gestazione era stato fatto, qualche anno prima del Manifesto comunista, da un altro grande pensatore della rivoluzione estetica, mi riferisco a Emerson. Sappiamo che il suo appello al poeta nuovo fu accolto da Walt Whitman. In Foglie d’erba, inizialmente pubblicato senza il nome dell’autore, il poeta affermava che se parlava di sé in prima persona era per liberare la voce di tutti, che negli altri era ancora legata. Sappiamo anche che il whitmanismo, in senso lato, è stato una componente essenziale del movimento che all’indomani della rivoluzione del 1917 ha voluto identificare le forme d’arte con le forme di costruzione del nuovo mondo comunista. Così L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov è il manifesto di un’arte che non si propone più di creare opere d’arte ma di creare una forma di vita comunista tessendo un filo comune tra tutte le attività ordinarie di una giornata. Ma è anche un film dove la cinepresa, il cameraman e la montatrice sono mostrati tutto il tempo. Sono mostrati sia come lavoratori ordinari, che utilizzano il proprio sguardo e le proprie mani come tutti gli altri, ma anche come nuove figure del poeta whitmaniano che risveglia la potenza intrappolata in tutte le attività materiali tracciando tra queste il legame spirituale di un nuovo mondo comune.

Non c’è un’arte comunista specifica, non più di quanto ci sia una teoria marxista dell’arte, ma c’è una doppia relazione tra progetto comunista e rivoluzione estetica. Da un lato la rivoluzione estetica è la trama stessa sulla quale si è sviluppata l’idea comunista. Dall’altro, ci sono forme della rivoluzione estetica e programmi estetici che in vario modo hanno attraversato il progetto comunista, proponendo diverse maniere d’infrangere la separazione tra i mondi sensibili: includendo nel mondo dell’arte il mondo delle cose e delle attività prosaiche che ne era escluso; trascrivendo le forme di esperienza di quelli e di quelle che volevano uscire da un mondo sensibile votato alla sola soddisfazione dei bisogni grossolani; estendendo il mondo dei possibili percettivi e affettivi; disegnando gli edifici, gli oggetti, l’arredo urbano e i manifesti di un mondo comune dove l’artistico non si oppone più all’utile; inventando performance che cancellavano la separazione tra i gesti dell’arte e quelli del lavoro o della lotta e in molti altri modi ancora. Questi programmi estetici non sono mai stati la pura applicazione di un programma comunista dell’arte. Creare le linee e le forme pure di un mondo vissuto razionalizzato, questo è stato il programma degli artisti-ingegneri “borghesi” del Werkbund o del Bauhaus così come degli artisti rivoluzionari della giovane Unione Sovietica. Ma anche queste forme di un’arte divenuta vita continuavano a distinguersi, a mostrarsi come arte divenuta vita, e quindi ancora arte.

I Proun di El Lissitzky sono stati contemporaneamente forme astratte, spazi utopici, forme di arredo urbano, formule di manifesti rivoluzionari e modelli di costruzione di spazi espositivi. E mentre gli ingegneri e i designer erano impegnati a disegnare le forme pure di un mondo nuovo, i poeti surrealisti scoprivano il potere sovversivo dello shock tra i mondi sensibili contenuti negli oggetti fuori uso e nelle vetrine o nelle insegne fuori moda dei passages parigini destinati alla demolizione. Ed è noto come questa scoperta si è sviluppata sia attraverso Benjamin sia nella linea che va dal surrealismo al situazionismo. La nozione retrospettiva di avanguardia ha imposto una falsa unità alla diversità di questi programmi; essa ha cancellato le loro opposizioni e contraddizioni interne e dissimulato l’azzardo dei loro incontri e non-incontri con i movimenti comunisti. Si ricordano le riflessioni critiche di Guy Debord sul dadaismo che voleva sopprimere l’arte senza realizzarla e il surrealismo che voleva realizzarla senza sopprimerla. Ma, in verità, l’arte non cessa di realizzarsi sopprimendosi e di sopprimersi realizzandosi. Non ha cessato di creare shock tra mondi, riarrangiamenti tra forme di mondo che hanno accompagnato, a diverse distanze e con diverse fortune, gli assalti al mondo della proprietà e i tentativi di elaborare un mondo senza proprietà.

Ecco perché penso che non sia particolarmente vantaggioso comparare lo stato presente dell’arte a un paradiso perduto del tempo delle avanguardie dove l’arte avrebbe abdicato i privilegi della singolarità artistica a favore dell’opera collettiva e vivente. Soprattutto penso sia oggi poco vantaggioso porre la questione del rapporto dell’arte con il comunismo e con il mondo comune, riprendendo la denuncia rituale dell’artista unico come figura mistificatrice del genio singolare, che propone un modello all’individuo neoliberale e dissimula il processo di estrazione del plusvalore e la sottomissione dell’arte al capitalismo. Che certi artisti guadagnino molto e facciano guadagnare molto ai loro galleristi e collezionisti è una cosa. Che certi artisti contribuiscano a diffondere l’immagine dell’artista come singolarità assoluta e una visione auratica dell’opera unica è tutt’altro. Non mi sembra che Jeff Koons e i suoi simili rappresentino oggi affascinanti figure dell’individuo creativo o che le loro installazioni sprigionino una qualche aura. Queste ultime si nutrono, al contrario, della banalizzazione dell’arte; presentano formule fossilizzate di quel processo d’indistinzione tra le cose dell’arte e le cose della vita che in passato fu una delle forme della rivoluzione estetica e uno degli aspetti del suo potenziale politico. Si va alle loro mostre come si va a votare per i partiti di sinistra: non tanto attratti dal prestigio di individui dell’élite ma per rassegnazione a quel che è. Bisogna, credo, sciogliere il nodo stretto abusivamente tra produzione artistica, produzione di plusvalore, produzione dell’aura e produzione della soggettività neoliberale. La questione dello status degli artisti e delle loro produzioni nel conflitto presente dei mondi comuni mi sembra debba essere posta in modo del tutto diverso.

Partiamo dal fatto che esiste certamente un mondo dell’arte che non si è dissolto in una collettività emancipata dove tutti potrebbero passare, a seconda delle ore della giornata, da un’attività all’altra. Questa collettività non esiste e non c’è ragione di rifiutare il lavoro degli artisti perché rimane un’attività separata e isolata. Questo lavoro richiede denaro e questo denaro proviene essenzialmente dalla ridistribuzione del plusvalore, che passa per le vie dirette della ridistribuzione dei profitti o attraverso la ridistribuzione statale. Ma questa ridistribuzione dà da vivere a una popolazione di artisti molto varia; una buona parte tende a confondersi con la categoria ben più ampia di tutti quelli che oggi vivono tra il mondo del lavoro salariato e quello di forme d’assistenza provenienti dalla ridistribuzione del reddito: lavoratori precari, lavoratori intermittenti, disoccupati e semi disoccupati, lavoratori con più fonti di reddito, ecc. Durante il movimento degli intermittenti dello spettacolo in Francia, gli attori del movimento si erano chiesti se bisognasse formulare le proprie rivendicazioni come specifiche alla loro categoria d’artisti o estenderle a tutti i lavoratori precari.

Questo è un primo punto. Un secondo punto è il modo di produzione che è proprio a questa popolazione. Questo modo è molto raramente quello della produzione di opere d’arte che invitano gli spettatori a una contemplazione affascinata. Si presenta più spesso come la realizzazione di un progetto di ricerca e la relazione di un lavoro. Questo progetto di ricerca riguarda ad esempio un evento dimenticato della nostra storia, un funzionamento sociale significativo, una comunità particolare, un problema o un conflitto. Presuppone, in generale, una ricerca d’archivio, un’indagine sul campo, un’immersione prolungata in una comunità, oppure la partecipazione a un lavoro militante. Il risultato sarà spesso un dispositivo di spazializzazione di parole e immagini, destinato a smuovere lo sguardo che rivolgiamo a questo o a quell’aspetto del nostro mondo, a rendere visibili eventi, situazioni e problemi più o meno invisibili nella gestione ordinaria delle informazioni e delle immagini, a far sentire una parola che normalmente non si sente mai, ecc. Si tratta quindi, più spesso, di un lavoro destinato a far circolare diversamente le parole, le immagini, i gesti e le esperienze, ad arricchire o a modificare il tessuto del sensibile condiviso. Si può pensare al film di Adrian Paci, The Column, che segue la storia di un blocco di marmo su una nave-officina dove degli artigiani cinesi, poco a poco, lo trasformano in una colonna – e aboliscono nello stesso tempo il confine tra mondo del lavoro e mondo dell’arte. Allo stesso modo, il settore della danza è diventato in larga parte quello di un’indagine sulla storia dei gesti e dei molteplici usi del corpo in azione: i gesti della vita quotidiana, i gesti che trasformano la routine del lavoro o del divertimento in invenzioni uniche, i gesti rituali attraverso cui si trasmette un senso di appartenenza a una comunità, i gesti che testimoniano le violenze subite, i gesti della lotta, ecc. Un bell’esempio è Longing, la coreografia di Alexandre Roccoli danzata da Malika Djardi, che passa dai gesti dei tessitori a quelli della trance. Anche il mondo del teatro e della musica sono diventati, in parte, atelier dove si cerca di ricomporre i legami tra il mondo dei rumori, delle parole e dei gesti ordinari e quello delle performance artistiche.

Questo vuol dire, infine, che l’artista che svolge questo lavoro è molto lontano dalla figura mitica del genio solitario. Si potrebbe dire, in un modo un po’ provocatorio, che egli è oggi molto più vicino all’individuo politecnico e multilaterale invocato da Marx. È una sorta di lavoratore comunista che passa dall’attività di elaborazione di progetti a quella della ricerca d’archivio o dell’indagine sul campo, dal disegno di forme plastiche all’attività militante, dal video editing digitale alla concezione di spazi espositivi, dalla riflessione filosofica alla performance. Mi sembra utile avvicinare questa forma di pluriattività, propria a molti lavori artistici di oggi, alla forma di esistenza sociale precaria, a cavallo tra diverse logiche economiche e altrettanti modi d’integrazione sociale, condivisa da molti artisti. Pluriattività, precariato e intermittenza si coniugano per definire una certa posizione negli intervalli del mondo dominante e un modo d’attenzione specifico al comune sensibile. Per pensare questa posizione e questo modo d’attenzione, bisogna uscire dalla falsa opposizione tra “critica sociale” e “critica artistica” proposta dagli autori di Il nuovo spirito del capitalismo1. Boltanski e Chiapello contrappongono la tradizione della critica sociale, fondata sui valori collettivi di solidarietà del gruppo operaio, alla critica artistica di movimenti come quelli del ’68, fondati su valori di autonomia e libertà. Questo permette loro di dimostrare la complicità di questa critica artistica con i valori cosiddetti neoliberali. Ma questa opposizione tra il sociale e l’artistico fa svanire il rapporto tra rivoluzione estetica, movimento sociale e comunismo. Riporta il movimento sociale alla semplice lotta degli uomini dell’utilità contro gli uomini della proprietà. E identifica il senso del comune con l’appartenenza a una comunità data.

Ma il movimento sociale non è stato semplicemente il movimento di un gruppo sociale determinato; è stato il movimento per un’altra forma di esistenza sociale: per un’uscita da un modo di esistenza sociale limitato al solo universo dell’utile e al tipo di valori “collettivi” che esso implica. È stato la rivendicazione di una partecipazione a tutte le ricchezze del sensibile comune, ma è stato anche la dimostrazione della capacità effettiva di partecipare a tale mondo comune. Quanto alle rivolte degli anni ’60 e ai recenti movimenti di occupazione, essi non sono stati animati dalla rivendicazione di valori “artistici” di creatività. Sono stati segnati dalla ricerca di un’altra maniera di abitare un mondo comune, di altri rapporti tra gli esseri e le cose, di altre forme di circolazione delle parole, di altri usi dello spazio e del tempo. E così è stato perché, precisamente, questi movimenti non potevano più rivendicare quelle solidarietà legate a dei gruppi sociali in quanto tali. Nel momento in cui il comune non è più dato dalla coerenza di un gruppo sociale, diviene l’oggetto di una ricerca. La questione è sapere quale tipo di comune formano gli individui quando si incontrano, si parlano, si uniscono, occupano uno spazio, svolgono un’azione. È sapere quale tipo di comune formiamo quando assembliamo parole, le associamo a delle immagini, le incorporiamo in gesti e movimenti del corpo. La questione è la qualità del comune che si produce in ogni occasione. Ed è là che la sperimentazione politica ritrova la sua piena dimensione estetica e incontra forme di ricerca che caratterizzano oggi certe forme d’arte. Da quando le manifestazioni di massa non sono più invocate da partiti e sindacati ma da innumerevoli microcollettivi, i grandi striscioni e le parole d’ordine delle avanguardie hanno ceduto il posto a moltitudini di cartelli dove ognuno azzarda le proprie parole ed eventualmente le proprie immagini.

Quando l’occupazione si è spostata dalla fabbrica alla strada, essa ha perso il suo senso di presa di potere del collettivo operaio sulla macchina produttiva. Ha quindi dovuto reinventarsi un senso sensibile come maniera d’essere insieme, di sottrarre uno spazio alla sua normale vocazione di circolazione e di scandire altrimenti le divisioni del tempo. Così si spiega il posto che hanno preso gli uomini di teatro e i performer, non come artisti al servizio del popolo ma come investigatori degli usi dei corpi e inventori di gesti e di drammaturgie di scarto. Quando si sono sviluppate riviste e piccole case editrici indipendenti, a buon diritto avanguardiste, si è visto l’affermarsi di una nuova solidarietà tra la radicalità politica e un’attenzione alle parole, ai gesti e alle immagini, un’attenzione alla tipografia e all’impaginazione: il rifiuto di dissociare le forme e i contenuti, di dissociare l’aspetto delle parole su una pagina dalle proposizioni che quelle parole veicolano, o di separare il senso decidibile di un’immagine dal suo affetto indecidibile. È così, per esempio, che la traduzione italiana di Partage du sensible2, curata dalla nostra amica Ilaria Bussoni, ha in copertina un coltellino e una matita appoggiati a un blocco scolpito il cui senso è lasciato all’immaginazione dei lettori emancipati.

Di fatto, è questo principio estetico d’indifferenziazione dei fini e dei mezzi che rompe oggi con le forme tradizionali della politica di estrema sinistra, ovvero con i suoi modi di mettere certe forme – politica elettorale, azione rivendicativa, produzione artistica o altre – al servizio di fini rivoluzionari più o meno lontani. Questo implica, di fatto, un nuovo rapporto di vicinato tra scena politica radicale e scena artistica che fornisce all’una come all’altra nuove risorse: da un lato, ci sono le nuove risorse offerte all’azione politica dalle invenzioni della performance, dalle trovate linguistiche del teatro, dalle nuove incarnazioni date alle parole e alle finzioni di ieri ma anche dal potere di mobilitazione dell’immagine immediatamente diffusa; dall’altro, possiamo vedere i gesti e le immagini di quest’azione ridisposti e riarrangiati nei luoghi dell’arte, e sappiamo che questi luoghi sono anch’essi dipendenti dalle istituzioni statali e dai poteri finanziari che quest’azione combatte. In arte come in politica, il comune si dà oggi come un lavoro di ricerca, come qualcosa da costruirsi con materiali e forme eterogenee e non come l’affermazione di risorse proprie a delle unità costituite, che si tratti di classi sociali, di organizzazioni specializzate o di forme d’arte definite.

Questa forma di vicinanza tra processi politici o artistici di composizione del comune comporta certo della confusione; l’arte vi trova a volte il suo profitto più dell’azione collettiva. Ma è una costante del rapporto tra la sfera dell’arte e quella della politica: l’arte è la pratica dei cortocircuiti che permettono lo svolgimento immediato di quei modi di trasformazione del mondo sensibile che formano l’orizzonte del comunismo; fa riuscire quei gesti che falliscono altrove; ma conserva anche la memoria di ciò che è stato vinto e la trasmette a suo modo a quelli che tentano di nuovo di creare le forme di un mondo comune sensibile più ricco. Non è di certo un caso se molte delle discussioni sulla trasformazione politica del mondo si svolgono nei musei o nelle istituzioni d’arte. Non è che l’arte abbia in sé qualche virtù sovversiva. È che la rivoluzione estetica ne ha fatto una sorta di intermondo dai confini incerti, un luogo dove possono incrociarsi ricerche diverse di trasformazione del mondo sensibile. E l’emancipazione, oggi come ieri, è un modo di vivere nei due mondi, di provare a forgiare, negli intervalli e negli intermondi del mondo comune dato, le forme di un altro mondo.

OperaViva

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