Su Agamben e stato d’eccezione

mar 30th, 2020 | Di | Categoria: Cultura e società

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Su Agamben e stato d’eccezione: la vera rivoluzione è stare a casa, ma tutti

di ALESSANDRO VOLPI

Per affrontare l’epidemia di Covid-19 in Italia serve la riattivazione di una libertà diversa, intesa come costruzione collettiva di un nuovo ordine sociale, non un ribellismo “biopolitico”.

Con due interventi a distanza di quindici giorni Giorgio Agamben ha preso la parola sulle implicazioni politiche dell’epidemia di Covid-19 in Italia. Nel primo intervento, quello del 26 febbraio, Agamben parla apertamente di invenzione dell’epidemia, cercando di aggrapparsi a dei dati che in quel momento erano per forza di cose provvisori (e che in effetti sarebbero stati poi smentiti), a suo dire finalizzata a giustificare interventi da “stato d’eccezione” e sproporzionati di fronte a quella che per lui era “una normale influenza” (sic!). Nell’articolo dell’11 marzo, quando di fatto le misure straordinarie, d’emergenza, sono ormai entrate in atto e l’epidemia ha mostrato tutta la sua pericolosità – a causa anche di ritardi nell’applicazione delle norme di isolamento e di chiusura di settori produttivi e dei servizi, nonché per la difficoltà nella prima fase di farle rispettare ma soprattutto per l’assenza di mezzi di una sanità martoriata da decenni di tagli –, il filosofo non parla più apertamene di invenzione ma comunque allude a qualcosa di simile riferendosi al “panico che si cerca con ogni mezzo di diffondere in Italia in occasione della cosiddetta epidemia del corona virus”. Oltre a ciò, Agamben si sofferma sulla figura dell’untore, affermando che la trasformazione di ogni individuo in una potenziale fonte di contagio sarebbe un’operazione volta produrre un isolamento sociale fra gli individui, spinti a negare l’Altro.

Volendo prendere sul serio questa rappresentazione, in primo luogo si potrebbe far notare ad Agamben che il paradigma dell’untore è solo un possibile carattere di questo momento, a cui si può opporre l’immagine, di cui si sente sempre più parlare in questi giorni, dei medici o degli infermieri che, dopo turni interminabili di lavoro per cercare di dare una risposta all’epidemia (non cosiddetta né inventata, ma tremendamente reale) prendendosi cura delle vite degli altri (e rischiando la propria per l’Altro), si autoisolano volontariamente dalle proprie famiglie – sottoponendosi ad un ulteriore stress psicologico ed emotivo – proprio per evitare di contagiarli. Qui l’isolamento diviene simbolo non di paura dell’untore, cioè di esclusione dell’Altro, ma di cura dell’Altro. Se vogliamo quindi fare un discorso antropologico e di psicologia sociale, forse può essere utile tenere a mente anche questi aspetti.

Ma da quanto detto emerge anche un altro incontestabile dato di realtà: cioè, che l’unico modo in cui in questo momento ci si può prendere cura dell’Altro è proprio l’isolamento, perché sembra essere questo lo strumento di contrasto più efficace nei confronti di un’epidemia che già ha fatto migliaia di morti. E su questo punto non si capisce quale voglia o possa essere la soluzione proposta dal nostro filosofo: forse ribellarsi all’isolamento imposto? Trasgredire la norma biopolitica che lo stato d’eccezione impone? Rivendicare il proprio ruolo di untore come forma di contropotere, di anormalità o alterità? Non ci è dato saperlo, visto che non sono tratte delle conseguenze pratiche da quel discorso teorico. Ma il sospetto è che ciò che qui prende forma come costruzione filosofica non sia molto di più dell’espressione di ribellismo immediato del “se mi costringono a lavorare, allora vado a fare aperitivo”.

Lungi da me voler adottare una retorica dell’unità nazionale, una rappresentazione pacificata della società, senza comprendere le differenze di interessi, le forme di subordinazione sociale, insomma la dimensione di classe. E lungi da me voler negare la possibilità che lo stato d’eccezione possa essere esteso (come del resto abbiamo visto, seppur in una veste giuridico-politica meno radicale, in altri momenti in cui fenomeni molto meno “naturali” di un’epidemia venivano naturalizzati per giustificare la necessità delle misure imposte) per governare la tensione sociale che le ripercussioni economiche inevitabilmente produrranno su di una situazione già disastrosa, soprattutto se si attuerà in continuità con i paradigmi che hanno dominato la gestione della crisi del 2008, cioè in un senso fondamentalmente regressivo, scaricando il peso sociale sulle classi subalterne. Adottare fin d’oggi un approccio critico è necessario sia per garantire nel momento presente la salute di tutti i lavoratori (contro il vero potere economico, che ha fatto enormi pressione sul Governo per evitare le chiusure, non per favorirle), sia per imporre un cambio di paradigma in termini di politiche economiche che vada oltre il momento eccezionale e che ci possa permettere di uscire da questa situazione con un processo di rigenerazione nazionale, mettendo in salvo il Sistema Sanitario Nazionale e garantendo l’approvvigionamento di beni necessari grazie al rilancio dei settori strategici – dato che abbiamo visto che in questa fase critica il mercato europeo non sembra farlo.

Ma tutto ciò non passa di certo da un atteggiamento di ribellione individuale alle forme di controllo presuntivamente biopolitico, cioè dall’invito (non espresso, ma logicamente desumibile) a mettere in discussione le necessarie misure sanitarie di contenimento dell’epidemia.

La risposta non può che essere, come sempre, da ricercare nella soggettività libera per come la modernità filosofica ha saputo pensarla. L’idea, cioè, che la libertà non sia trasgressione della norma ma capacità (collettiva, aggiungiamo) di sapersi dare una norma autonoma e autocosciente. Cioè, organizzazione della dimensione critico-trasformativa della parte contro la presunta totalità pacificata – cioè, critica dello Stato come luogo di risoluzione neutrale del conflitto – in un processo dialettico di costruzione di forme di ordine e finanche di potere alternative e più universali. Il modello, in questo senso, può essere il partito gramsciano, come parte che si eleva oltre gli interessi corporativi e riesce a pensarsi come momento di una rigenerazione nazionale e popolare. Questo modello segnò profondamente il ruolo del Partito Comunista Italiano di Togliatti nella fase della lotta di liberazione nazionale e della ricostruzione post-bellica – ovviamente al netto dalla dimensione spuria che tutte le realizzazioni storiche di modelli comportano –, due momenti paragonabili con le dovute proporzioni all’attuale situazione di emergenza. L’autocoscienza, la disciplina e la consapevolezza degli interessi universali, in questo senso, si configurano come l’unica forma possibile alternativa alla bruta soggezione al Leviatano (momento necessario nel processo di costituzione della libertà) e allo spontaneismo autolesionista della ribellione degli untori. E non è un caso che oggi sembri questa l’unica possibile alternativa – tanto nella versione filosofica agambeniana, quanto in quella dei complottisti nel web – all’assoggettamento al Leviatano: è la stessa forma di produzione della soggettività neoliberale ad imporlo, nella totale frammentazione e disarticolazione delle forme di soggettività collettive che possono pensarsi come portatrici di interessi dei subalterni e al contempo possono pensare di farsi Stato, cioè universalità.

Tornando ad una dimensione più concreta, questo cosa significa? Significa rispettare l’isolamento come misura eccezionale, ma non per soggezione quanto per responsabilità nei confronti della salute pubblica, ed essere al contempo organizzati al contrattacco, fin da oggi, contro la distribuzione iniqua del rischio sanitario ed economico. Lottare, cioè, affinché le responsabilità siano riconosciute in quel modello sociale ed economico che ci ha reso deboli di fronte a questi pericoli. Questa strada è quella che avrebbero dovuto intraprendere ad esempio i sindacati, dichiarando già quindici giorni fa uno sciopero generale nei settori produttivi non necessari (unico sindacato che si è distinto positivamente in questa situazione è stata l’Unione Sindacale di Base), senza accettare la mediazione fra gli interessi particolaristici degli industriali e l’interesse universale alla salute. Ormai sembra che il governo abbia preso le giuste misure, ma con un ritardo che avrebbe potuto frenare il contagio in maniera più sostanziale molto prima. La strada da percorrere, contrariamente a quello che si può intuire dal discorso di Agamben, è quella di una lotta di classe che non nega la pericolosità dell’epidemia per contrastare lo stato d’eccezione, e non accetta acriticamente le misure governative quando non tutelano la salute di tutti, ma che smaschera la debolezza dello Stato di fronte agli interessi di classe particolari usando le sue stesse parole, ma in un senso realmente universalista: #state a casa, ma tutti.

Alessandro Volpi è dottorando in Filosofia del Diritto presso l’Università di Salerno.

ilrasoiodioccam-micromega   (30 marzo 2020)

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