Superare il capitalismo

apr 8th, 2020 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

 

Luigi Pandolfi

 

Superare il capitalismo

 

Da quando l’uomo è entrato in relazione con altri uomini per scambiarsi beni e e altre utilità e per dividersi i compiti nella «produzione materiale della vita» ha dovuto fare i conti con crisi economiche più o meno gravi. Che alla radice ci fossero squilibri nel sistema o catastrofi naturali o malattie, tutte le crisi di una certa rilevanza hanno avuto una caratteristica unificante: l’aver aperto la strada a grandi cambiamenti nelle relazioni sociali ed economiche e negli assetti politico-istituzionali dei Paesi che ne sono stati colpiti. Nel bene e nel male. Più recenti, invece, sono le varie «teorie» sulle crisi, ovvero la riflessione sulle cause delle stesse e sui modi per uscirne. Nella nostra epoca, da questo punto di vista, la Grande Depressione del 1929 ha rappresentato indubbiamente uno spartiacque. Il keynesismo è figlio di quella frattura. Così come la sua fortuna negli anni Cinquanta e Sessanta fu dovuta a un’altra grande frattura: il secondo conflitto mondiale.

Ma il keynesismo e tutto ciò che ne è derivato in termini di elaborazione teorica e concettuale non è stato mai una rivoluzione, ancorché in molti continuino a parlare di «rivoluzione keynesiana». Paradossalmente, per quanto avversato dai cantori vecchi e nuovi del «mercato efficiente e razionale», il contributo di Keynes va ascritto ai tentativi più riusciti di salvare il capitalismo da sé stesso. «Keynes lasciò intatta la microeconomia», scrisse J.K. Galbraith un po’ di anni fa. A significare che l’obiettivo della piena occupazione lasciava sostanzialmente – pur considerando alcune conclusioni dell’economista inglese sulla riduzione dell’orario di lavoro e sulla tassazione progressiva dei profitti – inalterata la distribuzione diseguale del potere tra capitale e lavoro e lo sfruttamento di quest’ultimo. D’altro canto, si potrebbe aggiungere, gli albori del capitalismo industriale videro coniugarsi perfettamente la piena occupazione e il più bestiale sfruttamento del lavoro. L’«equilibrio» dell’economia classica era basato sull’esistenza di una massa sterminata di individui senza diritti, irregimentata nella grande manifattura dei telai e delle ferriere. Negli anni del lungo «compromesso keynesiano», invece, la (quasi) piena occupazione si sposò con l’espansione del welfare state, ma lo sfruttamento del lavoro rimase la colonna portante del processo di accumulazione del capitale, più o meno come ai nostri giorni (nello stadio attuale del capitalismo va considerata anche l’accresciuta funzione della componente finanziaria, l’estrazione di valore a mezzo di valore).

Beninteso, nelle crisi a pagare il prezzo più salato sono sempre i ceti popolari, i lavoratori, i precari, gli «scarti» della società. Per questo la mitigazione degli effetti delle crisi attraverso la mediazione statale, l’intervento pubblico, non solo è necessaria ma moralmente auspicabile in un contesto capitalista. Così come la piena occupazione è senz’altro meglio di un regime di «sottoccupazione» permanente. Per non parlare del ruolo che in situazioni di normalità economica può svolgere lo Stato nella costruzione e nel mantenimento di un sistema di protezione sociale dei lavoratori e di welfare universalistico. Oggi più di ieri, affidandosi alla personalità nuova del denaro ed alla capacità redistribuiva del fisco.

Dopo la crisi del 2007-2008 abbiamo iniziato a familiarizzare con espressioni come «quantitative easing» e «politiche monetarie espansive»È la dinamica del denaro creato dal nulla dalle banche centrali per oleare il sistema bancario, tenere aperta la finestra del credito, calmierare il prezzo del finanziamento degli Stati. Pensiamo che sia qualcosa di necessario, ma ci chiediamo anche perché una parte di quei soldi non possa arrivare direttamente alla vita reale, finanziando investimenti pubblici, politiche di sostegno al reddito e piani per il lavoro. Un interrogativo legittimo e giusto. Perché i soldi non ci sono mai per il benessere dei cittadini e poi spuntano come i funghi nelle crisi per puntellare il settore finanziario? Non c’è dubbio che una parte di questo denaro possa finanziare i deficit statali e contribuire ad espandere i bilanci pubblici. Se questo è stato possibile ieri, non si capisce perché non possa essere possibile oggi. È una questione ideologica (un problema di «egemonia» e di «blocco storico», avrebbe suggerito Antonio Gramsci), non di scienza o di verità rivelate. O l’eredità di quella «parodia dell’incubo del contabile», di cui Keynes parlò molto tempo prima della sua Teoria Generale.

La questione sta tornando prepotentemente in questi giorni funestati, sanitariamente ed economicamente, dal coronavirus. Si fa notare che l’eccezionalità della situazione richiede misure straordinarie dal lato della politica monetaria e di quella fiscale. Quella che abbiamo alle porte non è una crisi keynesiana propriamente detta, né può essere ascritta all’«instabilità strutturale» del capitalismo di cui parlava Hyman Minsky. In questo caso lo shock è indotto da un fattore esogeno, un virus patogeno che ha imposto limitazioni pesanti alla produzione di beni e servizi, al commercio mondiale, alla mobilità delle persone. Non per questo, tuttavia, ci si può rifugiare nelle sole politiche monetarie volte ad abbassare il costo del denaro e ad assicurare liquidità alle banche. Oggi c’è bisogno di soldi per le strutture emergenziali, per il sostegno al reddito, per la sicurezza nei luoghi di lavoro, domani ci sarà bisogno di ancora più soldi per riparare i danni che il virus avrà arrecato alla struttura economica. Tutto molto giusto, logico, ineccepibile. Eppure, in questo ragionamento c’è un anello mancante. Ma soprattutto il rischio di rimanere intrappolati in uno schema post-keynesiano che esclude, in prospettiva, un cambiamento radicale degli attuali paradigmi economici e sociali. I deficit di bilancio non sono la «canna del fucile» della rivoluzione, per intendersi. Come non lo sono l’accesso gratuito alle cure mediche e all’istruzione o più lauti sussidi di disoccupazione e misure di sostegno al reddito. Possiamo prendere in prestito una frase di Giorgio Lunghini, per rendere meglio l’idea: «Per Keynes non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di organizzarlo meglio». Che poi, oggigiorno, sembra la massima aspirazione di tutte le sinistre che si collocano alla sinistra dei simulacri della vecchia socialdemocrazia. Da quando non si sente più parlare di lotta e conflitto di classe?

Il virus ci ha messo di fronte alla nostra fragilità, ma ha disvelato anche la fragilità e l’insostenibilità del sistema che abbiamo costruito negli ultimi decenni. Non è solo lo stato assistenziale azzoppato che viene chiamato in causa (il valore della sanità pubblica, in primis), ma anche i rapporti di produzione, le nuove forme di sfruttamento del «lavoro vivo», il rapporto perverso tra accumulazione capitalistica e distruzione dell’ambiente, l’illusione dell’estrazione infinita di valore dai beni finanziari scommettendo perfino sulle catastrofi. Non è vero che il virus colpisce tutti allo stesso modo. Chi vive in ambienti inquinati e gli operai delle fabbriche, i lavoratori coinvolti nell’economia delle piattaforme e tutti i gig workers, i nuovi braccianti, l’epidemia la pagano più di tutti gli altri. Con la salute e con il loro lavoro alienato. Il virus, insomma, ha scavato più in profondità di tutte le più recenti elucubrazioni sui difetti della nostra società. Ha riportato alla luce la «contraddizione principale» di quel fenomeno complesso e storicamente determinato qual è il capitalismo: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. In una società liberata dal lavoro salariato ‒ nelle nostre società, al netto dei cambiamenti intervenuti nella struttura del lavoro, più del 60 per cento della popolazione dipende da un salario ‒ sarebbero i lavoratori associati a decide come e quando produrre, non i padroni e le leggi del mercato e del profitto. Ecco perché la crisi che ci accingiamo a vivere dovrebbe servire al rilancio di un progetto di superamento del capitalismo. Andare oltre il tamponamento delle ferite che lascerà questa crisi per niente docile, darsi come obbiettivo la fine dell’iniqua distribuzione del potere nella società odierna, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi vende il proprio lavoro alla stregua di una merce. La crisi, insomma, come occasione per spingere più avanti, per organizzare le lotte nella prospettiva della costruzione di una società «diversa», non solo «migliore». Chiamiamolo col suo nome: socialismo. Una società nuova in cui alla falsa razionalità del mercato ‒ anche dei mercati finanziari ‒ si sostituisca la razionalità delle scelte e delle decisioni prese collettivamente e democraticamente dai cittadini e dai lavoratori, dal più piccolo municipio ai luoghi della produzione. C’è una frase di Keynes molto efficace per descrivere il capitalismo: «Se lo scopo della vita è di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morir di fame quelle dal collo più corto». È la metafora della corsa sfrenata e spietata per il profitto. Una corsa che si può fermare soltanto rottamando il capitalismo. Che poi è la vera missione di una sinistra del cambiamento degna di questo nome.

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