Benedetto XVI e il declino della modernità

apr 21st, 2020 | Di | Categoria: Interviste

Benedetto XVI e il declino della modernità. Intervista con il Prof. Costanzo Preve

 

di Costanzo Preve – Luigi Tedeschi – 16/10/2009

 

 
1. Nella enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI, facendo riferimento alla “Populorum progressio” di Paolo VI, si afferma “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato allo sviluppo, perché ogni vita è vocazione”. Il concetto di sviluppo assume il significato di vocazione in quanto presuppone la natura trascendente dell’uomo. Uno sviluppo che negasse la dimensione trascendente tenderebbe l’uomo oggetto di uno sviluppo immanente alla storia e non soggetto, quale autonoma persona artefice della propria libertà. Lo sviluppo si tradurrebbe quindi in una vocazione dell’uomo alla verità, perché comprende l’integralità della persona, sia sul piano naturale che su quello soprannaturale. Infatti, le cause del sottosviluppo non sarebbero tanto di ordine materiale, ma sarebbero dovute alla mancanza di valori etici, quali la carità, la solidarietà comunitaria. Nell’enciclica di Benedetto XVI si afferma: “La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. Alla Chiesa non manca certo il senso della realtà storica, al fine di comprendere le problematiche sociali del nostro tempo. Tuttavia, poiché la vocazione allo sviluppo spinge gli uomini a fare per “essere di più”, quale crescita dell’essere dell’uomo nella prospettiva trascendente, dobbiamo osservare che la problematica dell’essere nella storia è stata oscurata da quella dell’avere individualistico. Nel mondo post-moderno globalizzato si è in quanto si ha, in termini economici, sociali, culturali, morali. L’individuo è in quanto non ha finalità che trascendono se stesso: egli possiede se stesso nella misura in cui è svincolato da legami familiari, comunitari, trascendenti, che definiscono la sua identità storico-sociale. Non è un caso che il concetto di sviluppo nel mondo contemporaneo sia legato indissolubilmente alla crescita economica. Il sottosviluppo è in larga parte conseguenza di una forma di sviluppo imposto al terzo mondo decolonizzato, che coincide con l’esportazione forzata del modello occidentale tecnocratico – capitalista, che ha determinato impoverimento di risorse, soppressione delle economie locali, sradicamento delle tradizioni identitarie. E’ stata la crescita dell’Occidente la causa stessa del sottosviluppo del terzo mondo, da cui ha estratto materie prime a basso costo, ed esportato debito insolubile. Il modello di sviluppo economico occidentale imposto su scala mondiale, non ha solo marginalizzato il terzo mondo, ma ha anche annientato le ideologie novecentesche (già condannate dalla <Centesimus annus> di Giovanni Paolo II come <messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni>), ed insieme ad esse il messaggio trascendente delle religioni. Non ho ravvisato nell’enciclica di Benedetto XVI la coscienza di questo processo di espansione dai contenuti nichilisti del liberismo globalista in cui sono state accomunate nello stesso destino decadente sia l’ideologia che la religione. Ideologia e religione non sono tuttora elementi essenziali per lo sviluppo di nuovi umanesimi futuribili?

R-La recente enciclica papale è indubbiamente un testo notevole, anche perché finalmente vola “alto” su di un tema ritenuto tradizionalmente “basso”, come i rapporti economici e sociali. Ma qui, appunto, il massimo di altezza coincide con il massimo di apparente “bassezza”. Non esiste nulla di più alto della considerazione critica dei rapporti sociali, politici ed economici. Per usare un linguaggio medioevale (comunque sempre migliore del linguaggio  post-moderno e del razionalismo detto “laico”, termine improprio ed ingannatore, perché in greco laos significa popolo, non élites snobistiche legate al capitale finanziario), Gerusalemme c’è soltanto quando si occupa di Babilonia, ed il Millennio c’è soltanto quando si occupa del Secolo. Tutto il resto è solo “sepolcro imbiancato” (Gesù di Nazareth).
E tuttavia, questa enciclica ha dovuto necessariamente subire la sorte della rapidissima obsolescenza mediatica e giornalistica. Per qualche giorno se ne è parlato sui giornali, e poi è sparita. Testi del genere sono fatti per una “cultura della lentezza” e della riflessione pacata, del tutto incompatibile con l’attuale ontologia del telefonino e del telecomando. E tuttavia, il suo relativo successo (da quanto riesco a capire, maggiore che in casi precedenti) è stato dovuto principalmente a due fattori.
In primo luogo, allo scoppio della recente crisi finanziaria, con le note ricadute in termini di impoverimento dei ceti medi e di disoccupazione delle classi operaie, salariate e proletarie, già fortemente colpite nei due decenni precedenti dall’oscena generalizzazione del lavoro flessibile e precario, che se fossi un teologo cattolico definirei “il più grande peccato possibile di fronte a Dio”. Lo scoppio di questa crisi ha messo in crisi l’osceno gracchiare apologetico del “partito degli economisti”, partito che non è né di destra né di centro né di sinistra, ma è un partito totalitario criminale che personalmente metterei fuorilegge, se ne avessi il potere. Essi non solo non hanno “previsto la crisi”, come si suole dire oggi in modo cauto e minimalista, ma hanno attivamente sostenuto il ventennio di rapina che ci sta alle spalle. A questo punto, la critica dell’enciclica di Ratzinger è confluita nel grande estuario limaccioso delle critiche alle “esagerazioni” del capitalismo incontrollato, critiche che oggi fanno quasi tutti, con l’eccezione di pedofili, lupi mannari e traders di vario tipo, tirati su ad avidità e cocaina.
In secondo luogo, al suicidio della precedente “sinistra anticapitalistica”, riciclata e riconvertita (soprattutto a partire dall’alto, e cioè dai suoi tre settori del ceto politico, del circo mediatico e del clero universitario), rimasta in piedi soltanto come struttura politica di intermediazione e come bacino elettorale di confusionari, che hanno rapidamente trovato nell’anti-berlusconismo il succedaneo della precedente via italiana al socialismo. Rimasta come bacino elettorale e nicchia identitaria la “sinistra” è sopravvissuta come fattore politico-parlamentare, ma è sparita come portatrice di visione del mondo e come profilo filosofico (nel senso in cui anche i “semplici” sono potenzialmente filosofi, come scrisse a suo tempo correttamente Antonio Gramsci). In questo gigantesco “buco” morale e spirituale (verificatosi peraltro in modo parallelo e convergente anche a “destra”), è del tutto naturale che il linguaggio della chiesa cattolica abbia (parzialmente) riempito il buco.
Tutto questo però è soltanto congiunturale e provvisorio. Come è avvenuto dopo il terremoto dell’Abruzzo del 2009, le tende restano pur sempre provvisorie. Prima o poi, la gente si stanca di abitare in tenda, e prima o poi vuole giustamente tornare ad abitare in case di muratura. Lo stesso avviene a mio parere per la necessità odierna di valutare e di criticare la società capitalistica. C’è stato un terremoto storico negli anni 1989-1991. I vecchi edifici del comunismo storico novecentesco sono crollati, e sono crollati perché non erano stati costruiti con criteri anti-sismici (e cioè, fuori di metafora, sulla base di un reale consenso democratico dei cittadini). Per vent’anni i profughi di “sinistra” sono vissuti in tende provvisorie (ideologia del totalitarismo, ideologia dei diritti umani con bombardamento unilaterale incorporato, post-moderno, bioetica individuale, eccetera), ma il tempo dei brontolii sotto la tenda (piove, fa freddo, i bambini si lamentano, eccetera) sta finendo.
I mascalzoni ed i maramaldi della cosiddetta “sinistra” hanno deciso di passare dall’eguaglianza sociale al fiancheggiamento del femminismo di “genere” ed alla riduzione del senso del mondo alla (pur giusta) solidarietà verso zingari e migranti, allontanandosi così dal loro stesso precedente popolo di riferimento, costantemente ingiuriato come leghista, populista ed egoista. È allora del tutto evidente che, trovato chiuso uno sportello precedentemente aperto, si corra a cercarne un altro. È quello che è successo negli ultimi vent’anni. Qui sta la ragione del (relativo) interesse verso la recente enciclica di Ratzinger.
E tuttavia, le chiese non si riempiranno per ragioni di aggiornamento teologico o di intelligente diagnosi filosofica. Le chiese, ormai semivuote da tempo, si riempiono a metà sulla base della gestione quotidiana della sacralità simbolica della famiglia, della paternità, della maternità, della fragilità della terza età. Si riempiono perché mentre i teologi e gli intellettuali idioti si sono secolarizzati, la maggior parte dei semplici preti e delle semplici suore non si sono auto-secolarizzati. Volere una chiesa secolarizzata è come volere un gelato bollente. La religione esiste soltanto nella misura in cui non fa nessuna concessione alla secolarizzazione, in quanto la secolarizzazione non è affatto una “religione adulta”, ma è il contrario di tutte le religioni.
Ma su questo vorrei tornare in seguito. Ratzinger ha capito (e non era affatto facile) che la religione cattolica non si sarebbe “salvata” con la trasformazione delle chiese in centri di assistenza sociale. In altre parole, Ratzinger ha capito che la chiesa non si sarebbe salvata dalla secolarizzazione assecondandola ed auto-secolarizzandosi. È questa la ragione per cui è tanto odiato dai pagliacci del laicismo ultracapitalistico (Scalfari, Flores d’Arcais, eccetera), il cui ideale sarebbe un papa laico, relativista e fallibilista. Personalmente, non voglio prendere in giro il lettore e farmi scambiare per un “ateo devoto” (in cui la devozione è in realtà adesione al neo-conservatorismo USA e sionista, vedi Pera, Ferrara, eccetera). Non sono quello che si chiama un “credente”, anche se credo immensamente di più di Casini e di Berlusconi nella capacità umana di battersi per una società più giusta. Ma, se fossi un credente, vorrei una chiesa la meno auto-secolarizzata possibile, che smette di perdere tempo con pomposi ed inutili “dialoghi” con i laici, palestre narcisistiche per semi-colti profumatamente pagati dagli enti locali (generalmente di centro-sinistra).
E tuttavia, poniamoci radicalmente il problema: la cosiddetta “dottrina sociale della chiesa” è all’altezza dei problemi contemporanei, oppure resta una mezza misura, o come dicono gli anglosassoni, una teoria di media portata (middle-range theory)?
Questo, e solo questo, è il problema. Il resto è chiacchiericcio per colti.

2. L’enciclica sociale di Benedetto XVI pone l’accento sulla centralità dell’uomo nella vita economico – sociale. Viene posta in risalto la condizione umana oggi degradata dalle inaccettabili differenze di ricchezza sia all’interno dei paesi sviluppati che tra gli stati, oltre alla disgregazione della coesione sociale e delle istituzioni democratiche, con relativo abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori. Occorre dunque riflettere sull’economia e sui suoi fini. La disgregazione sociale, l’insicurezza dovuta alla precarietà, il livellamento delle culture nella dimensione tecnologica, vengono evidenziati come fattori che conducono, oltre che al degrado della condizione umana, a guasti anche nell’ambito dell’economia, che verrebbe depauperata delle risorse del capitale umano. L’economia viene considerata uno strumento e non un fine e pertanto non può risolversi unicamente nella logica mercantile, ma deve perseguire il bene comune. La logica antisociale del profitto è infatti sopraffazione dei deboli. “Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano”. I parametri culturali e morali propri di una società sarebbero dunque i criteri che informano gli orientamenti del mercato. In realtà, nella società liberista globalizzata, è il mercato a dettare le condizioni di sviluppo e quindi a determinare gli orientamenti culturali, a prescindere dai presupposti morali. Il mercato globale è una realtà economica che presiede alla totalità delle attività umane, il cui unico criterio di valutazione è dato dalla loro adeguatezza alle dinamiche del mercato. Il capitalismo assoluto deve il proprio successo al fatto di non essere vincolato ad alcun principio etico intrinseco alla economia di mercato. Tra i postulati fondamentali dell’economia liberale c’è proprio quello secondo cui l’economia è scienza nella misura in cui fa astrazione da elementi etici e/o culturali estranei. La scienza economica non è dunque neutrale, quale strumento predisposto alla realizzazione di finalità esterne ad essa, ma è autoreferente a se stessa, per principio anetica e dissolutrice si altre scienze, filosofie e religioni che ostacolino il raggiungimento dei propri fini, quali il profitto, l’espansione produttiva, il consumo. Giudico quindi illusoria l’istanza contenuta nell’enciclica secondo cui possano sussistere spazi per iniziative economiche che non perseguano profitto e che possano essere istaurati rapporti economici ispirati alla gratuità e alla logica del dono nell’ambito di una società globale strutturata sul mercatismo. Il principio contrattuale è antitetico al principio della solidarietà, nella misura in cui le funzioni redistributive degli stati si rivelano incompatibili con le condizioni poste dalla concorrenza selvaggia di un mercato globale che annulla la sovranità degli stati. Possono solo sussistere istituzioni no-profit, qualora queste si rivelino funzionali al mercato. Istituzioni di carattere assistenziale (in primis la gestione dei flussi migratori), che adempiano a funzioni spesso già svolte dallo stato e che comunque contribuiscano a prevenire tensioni sociali che potrebbero rappresentare elementi di turbativa del mercato.

R-Mi sono letto due volte attentamente l’enciclica, e per di più con l’evidenziatore, come è necessario fare con i testi filosofici e teologici “seri”. Ratzinger è un papa filosofo, e dal momento che anch’io sono un filosofo di professione mi lusingo di capire che cosa ci sta di volta in volta dietro certe formulazioni apparentemente ovvie e semplici. Il teologo è per me semplicemente un filosofo che crede in Dio, ed infatti non è un caso che questo termine non venga mai usato per chi parla di Dio senza però crederci, almeno in senso monoteista (ad esempio, nessuno chiamerà mai Spinoza e Feuerbach “teologi”, anche se entrambi parlano ossessivamente di Dio, ancor più di monsignor Ravasi o di monsignor Martini). Per ragioni di spazio, è ovvio che non posso fare continue citazioni. Una foresta è fatta di alberi, ma io tratterò questa enciclica come una foresta unitaria. Non c’è nulla di peggio del commentatore che si perde dietro ogni singolo albero, e non vede più l’unitarietà della foresta.
La foresta ratzingeriana si presenta come un esercizio retorico di convincimento. Si tratta di un’interpellazione morale (ed anzi, ahimé, moralistica) rivolta al capitalismo. Anziché “ascolta, Israele!”, Ratzinger esclama: “Ascolta, globalizzazione capitalistica, e pentiti!”. Più esattamente, pentiti per i tuoi eccessi. E tuttavia, rivolgersi alla produzione capitalistica, per di più nella sua forma globalizzata, equivale a rivolgersi alla sintesi clorofilliana o alla deriva dei continenti. Si dirà che l’analogia non è corretta, perché le piante e le rocce non possono ascoltare, ma gli uomini si. E tuttavia nel capitalismo gli uomini non si comportano come uomini, dotati di fede, logos e raison, ma come animal spirits e come maschere di carattere (Charaktermasken). Se devo pagare un operaio millecinquecento euro in un posto, e posso pagarlo a parità di tecnologie e di competenze trecento euro in un altro, il capitalista ignorerà l’intera tradizione umanistica occidentale e l’intera tradizione culturale cristiana, ed effettuerà una “delocalizzazione”.
Non ho certo scoperto nulla di nuovo. Tutto questo era già largamente noto anche molto prima di Marx. Ma qui non si tratta di noto o di ignoto, quanto di rigore intellettuale e morale. Il solo modo concreto di “domare” la logica del mercato globale, a mia conoscenza, è il protezionismo più o meno temperato. Ma è appunto il protezionismo che è escluso a priori dalla vulgata economica neoliberale. Alla base sta la pretesa (a mio avviso del tutto infondata) che l’economia politica moderna (nel senso di Smith, Ricardo, Keynes e Schumpeter) sia una scienza. Ma a mio avviso non è affatto una scienza, in nessun significato del termine. Si tratta di una specifica ideologia sociale su basi filosofiche individualistiche e utilitaristiche, che si presenta come scienza esattamente come nel medioevo la teologia si presentava come scienza (pretesa, peraltro, accettata dai domenicani e respinta dai francescani, salvo eccezioni minoritarie nei due campi). Marx sarà stato ateo, e quindi reprobo, ma ha avuto perfettamente ragione quando ha fatto la sua (discutibile finché si vuole) critica dell’economia politica. Una critica globale, che non lascia pietra su pietra. Vogliamo gettare via il bambino di questa critica insieme con l’acqua sporca degli errori ed orrori del comunismo storico novecentesco (Katyn, gulag staliniani, Pol Pot, eccetera)? Lo si faccia pure, ma se lo si fa non ci si stupisca poi se restano in piedi soltanto geremiadi moralistiche di cui i capitalisti non tengono peraltro alcun conto.
La scienza economica, quindi, è irriformabile. Può soltanto essere sostituita con una concezione globale alternativa. Cercherò di argomentarlo usando lo stesso lessico concettuale di Ratzinger, per cui se per caso potesse leggermi (ma è da escludere, in quanto sembra preferire interlocutori di comodo tipo Pera ed Habermas, quando non Oriana Fallaci e Magdi Allam) potrebbe almeno capirmi, anche se ovviamente non condividermi (la Divina Provvidenza, infatti, non si spinge tanto in la).
Il processo detto di secolarizzazione non è certamente un insieme di opinioni filosofiche e religiose, ma è un processo strutturale di legittimazione della società in quanto tale. Fino ad un periodo oscillante fra il 1730 ed il 1830 circa, la legittimazione sociale in Europa era basata in vario modo sulla religione (trascuro qui le pure importanti differenze fra cattolicesimo, protestantesimo ed ortodossia, presupponendole come note nel lettore). Con la rivoluzione industriale ed il suo successivo propagarsi nei vari paesi europei (e poi negli USA, in Russia e in Giappone) la legittimazione sociale “passa il testimone” dalla religione alla economia politica, che diventa cosi la nuova teologia secolarizzata del capitalismo. Ho detto del capitalismo, non della “borghesia”, che a differenza del capitalismo, che è un anonimo mostro freddo, produce anche la sua “coscienza infelice” nelle sue varie forme (idealismo, marxismo, niccianesimo, eccetera). Benché l’illuminismo sia un fenomeno complesso e contraddittorio, e non possa essere sbrigativamente ridotto ad ideologia di legittimazione del capitalismo (né intendo certamente farlo), è indubbio, e non può essere decentemente negato, che il suo concetto di ragione si sia strutturato sulla base della riduzione del pensiero umano ad intelletto calcolante, nel doppio aspetto di intelletto calcolante scientifico (Kant) ed economico (Hume, Smith, eccetera). Non si tratta allora di respingere o di accettare integralmente l’illuminismo. Si tratta soltanto, per ora, di capire questo suo carattere, e di non prostrarglisi davanti con il culo per aria come fanno i talebani prima del combattimento. I talebani del laicismo, numerosissimi da noi, fanno esattamente questo.
Ratzinger ha capito questo, e per questa ragione non respinge la ragione in quanto tale, ma intende ridefinirla in termini di logos greco e non di raison illuministica. A differenza di come fanno i dilettanti che stabiliscono una linea continua “europea” dai greci ad Habermas, Ratzinger sa perfettamente che questa linea continua non esiste, perché la ragione dei greci comprendeva l’intero complesso della riproduzione comunitaria umana, e non avrebbe mai consentito la riduzione di questa riproduzione unitaria alla sola dimensione alienata del cosiddetto homo oeconomicus. Questo pone il filosofo Ratzinger molto più in alto del pollaio laicista che domina nei mezzi di comunicazione di massa e negli apparati manipolatori delle facoltà di filosofia. E tuttavia, come nel romanzo di Stevenson del Dottor Jekyll e di Mr Hyde, Ratzinger deve fare i conti con la sua ombra, chiamata Benedetto XVI, che gestisce un gigantesco apparato burocratico (una vera e propria industria del Sacro e della sua amministrazione) pienamente incorporato (Polanyi avrebbe detto embedded) nella riproduzione capitalistica e nelle sue oligarchie. Nelle cerimonie costituzionali, a fianco di ministri, prefetti, ambasciatori, giornalisti, eccetera (mancano soltanto in genere le puttane, oggi pudicamente chiamate escort, fra poco la scopata verrà chiamata movimento sussultorio a due di tipo edonistico secolarizzato), c’è sempre un Vescovo-Pretone dall’aria compunta.
E allora? Diciamocelo per una volta in latino: oportet ut scandala eveniant, e più presto verranno e meglio sarà.

3. La Chiesa prende atto del processo di globalizzazione, evidenziandone le trasformazioni di carattere socio – economico, l’interconnessione sempre più accentuata tra i popoli, il processo di progressiva unificazione della “famiglia umana”. Nell’enciclica viene criticato il suo accentuato carattere deterministico, l’orientamento che assolutezza l’aspetto socio-economico. Ma la globalizzazione stessa viene considerata nel suo complesso come un fenomeno che offre grandi opportunità, se gestito nel senso di “favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria”. Pertanto occorrerebbe correggerne le disfunzioni derivanti da una sua cattiva gestione: si renderebbe necessario infatti un suo riorientamento di carattere etico – culturale, che si sostituisca alla attuale impostazione individualistica e utilitaristica, conferendo alla globalizzazione stessa le finalità proprie di una umanità solidale. Viene teorizzata cioè, una globalizzazione che generi redistribuzione della ricchezza, anziché accrescere i differenziali di ricchezza tra i popoli, crei sviluppo anziché sottosviluppo generalizzato. Il processo di globalizzazione in atto trae origine da fasi di trasformazione evolutive interne al mondo capitalista, dopo la fine delle ideologie e in corrispondenza della fine del bipolarismo USA – URSS con relativa affermazione degli USA quale unica superpotenza mondiale. La globalizzazione non è un processo di carattere deterministico – necessario scaturito da una forza progressiva immanente alla storia che conduca allo sviluppo di una umanità unificata sotto l’egida di un progresso illimitato, ma è frutto di una strategia espansionistica mondiale del modello di società capitalistica, imposto dalla superpotenza americana. Da quanto precede, emerge l’incompatibilità assoluta tra il modello solidale universalistico proprio della missione della Chiesa ispirato alla visione trascendente dell’uomo. La Chiesa vuole inserirsi nelle dinamiche dei processi storici in atto, adeguando alle circostanze storiche contingenti il proprio messaggio. La Chiesa vuole in tal modo trovare un suo spazio nell’ambito di fenomeni storici alla cui genesi è completamente estranea. Essa tenta di sfuggire alla sua progressiva marginalizzazione dalla storia cui sembra averla condannata la civiltà occidentale divenuta laicista e cosmopolita da circa 200 anni a questa parte. Tali adeguamenti della Chiesa alla realtà storica contingente, comportano però il rischio di uno snaturamento del messaggio evangelico nei suoi contenuti trascendenti – escatologici. La visone della globalizzazione quale possibile processo di integrazione planetaria della “famiglia umana”, non comporta implicitamente la trasformazione dell’universalismo cattolico in una sorta di cosmopolitismo astratto, uguale e contrario a quello delle correnti materialistiche dell’individualismo liberale?

R-Tu noti giustamente, e lo metti anzi al centro delle tue considerazioni, che l’idea portante dell’enciclica di Ratzinger è la distinzione fra la globalizzazione, in sé potenzialmente buona, e la sua cattiva gestione neoliberale, che si tratterebbe di correggere con rimedi fondamentalmente volontari, di tipo solidaristico e morale. Il papa non sarebbe così un No Global, ma un New Global, per usare il grottesco linguaggio dei giornalisti e dei commentatori  mediatici. E tuttavia, se togli la praticabilità di questo presupposto, che è il fondamento teorico esplicito dell’intera enciclica, tutto il resto perde largamente di significato. Si tratta di un presupposto errato, che corrisponde in campo politico-sociale al presupposto geo-centrico della vecchia astronomia tolemaica pre-galileiana. Parlo sul serio, e letteralmente: la valutazione positiva della globalizzazione capitalistica attuale corrisponde, mutatis mutandis, al modello astronomico geocentrico, e come quest’ultimo era irriformabile, e non consentiva correzioni di dettaglio, ma doveva essere rovesciato dalle fondamenta, nello stesso modo il sistema della globalizzazione economica deve essere rovesciato dalle fondamenta. Certo, i rapporti di forza geopolitici e militari non lo consentono a breve ed a medio termine, e non sono cosi sciocco ed ingenuo da non saperlo. Ma una forza che si vuole messianica come la chiesa cattolica non dovrebbe essere incatenata e vincolata al breve ed al medio termine. Lasciamo che questo concerna soltanto i miserabili ex-comunisti riciclati in cani da guardia dell’impero USA e del sionismo, con il loro popolo antiberlusconiano di babbioni plaudenti, che ha recentemente scoperto che perfino Fini è diventato di “sinistra”.
Come sfuggire alla marginalizzazione cui la secolarizzazione condanna la chiesa cattolica? È il problema che tu poni, ed è un buon problema, per cui cercherò almeno di prenderlo in considerazione, anche se onestamente non invidio Ratzinger, perché non saprei certamente rispondervi. Se io fossi papa (lo dico per scherzo, parafrasando Cecco Angiolieri) arresterei certamente il processo suicida di auto-secolarizzazione e restaurerei la messa in latino (con messali tradotti per i fedeli), ma nello stesso tempo farei finalmente sposare i preti, incoraggerei una teologia di tipo greco e non certamente veterotestamentario ed assiro-babilonese (come quella, e non è un caso, dell’inserto culturale domenicale del Sole 24 Ore – evidentemente è la più innocua per la Confindustria, perché priva della benché minima traccia dello spirito anti-crematistico aristotelico), favorirei un avvicinamento all’ortodossia e diminuirei la polemica contro l’islamismo, eccetera. Parlo per scherzo, ovviamente, anche perché data la mia età già relativamente avanzata le probabilità che venga fatto papa cattolico sono irrisorie. Non mi pongo quindi come consigliere non richiesto di una religione di cui non sono neppure “praticante”.
Ciò che invece conta è liberare il problema del rapporto fra religione, politica, economia e cultura dal soffocante abbraccio della situazione italiana, una delle più degenerate dell’intero occidente. Il problema da discutere è quello da te inquadrato, quello dell’annullamento dell’universalismo cattolico in un cosmopolitismo astratto, eguale e contrario (ma in realtà assai più eguale che contrario) a quello delle correnti materialistiche dell’individualismo liberale. In proposito, mi chiedo come ci sia gente cosi ingenua (e mi permetto di aggiungere, così stupida), sia pure in perfetta sincerità e purezza di spirito (mi riferisco ad esempio al priore di Bose Enzo Bianchi) che non capisce che le riunioni “umanistiche” interconfessionali con preti, pastori, pope, rabbini, ulema, bonzi, stregoni Sioux, eccetera, lungi dal favorire una vera visione religiosa del mondo (in termini di primato dell’essere sull’avere), non fanno altro che degradare la natura non secolarizzata di tutte le religioni che si rispettino, che hanno come principale merito quello di non essere relativistiche, e di ritenere di fondarsi sulla verità. Il fondamentalismo religioso fanatico ed intollerante è certo da combattere, e merita certamente di essere combattuto, ma questo non può avvenire sicuramente sulla base fragile dell’umanesimo occidentalistico di pecoroni salmodianti vestiti in modo carnevalesco. Prima o poi lo capiranno anche gli attori dilettanti che vi partecipano. Combattere il laicismo adottando il relativismo laicista nella forma dell’umanesimo retorico generico (il famoso minimo comun denominatore fra laici e credenti) mi sembra un pezzo di umorismo surrealistico classico.
È invece necessario svincolare la parte più seria ed autentica del sentimento religioso dallo scenario degradato dello scontro simulato fra Berluscones e Scalfarones. Ho personalmente “staccato la spina” da almeno un quindicennio da questa batracomiomachia e dalle sue mezze ali estremiste (Feltri e Brunetta per i berluscones e Di Pietro per gli scalfarones), e so bene che anche tu te ne sei “chiamato fuori”. Naturalmente, chi in Italia se ne chiama fuori non ha più accesso alla visibilità pubblica, perché lo scenario manipolato gestito dalle nostre oligarchie impone che tutti gli italiani, ma proprio tutti, siano o berluscones o scalfarones. Lo scontro è largamente simulato, con il suo contorno di magistrati, giornalisti e soprattutto puttane, perché quando si arriva ai vincoli imperiali bipartisan (truppe in Afghanistan, tolleranza verso i crimini sionisti, diffamazione verso il benemerito Ahmadinejad, che Allah possa conservare a lungo) allora berluscones e scalfarones si riuniscono miracolosamente in un solo partito unificato. E questo dovrebbe far pensare se ormai il pensare indipendente non fosse nel frattempo estinto come la tigre con i denti a sciabola. Sebbene io ovviamente sia del tutto neutrale fra berluscones e scalfarones, devo dire che i secondi mi irritano leggermente più dei primi, non solo perché ero anche io in camerino quando si sono freneticamente cambiati d’abito dal rosso al rosa (rosso-Gramsci e rosa-Veltroni), ma perché almeno i berluscones sono stati eletti in regolari elezioni, mentre gli scalfarones cercano di golpizzare i precedenti attraverso l’azione congiunta di magistrati, giornalisti e puttane, tre categorie certamente nobili e degne di rispetto, ma che però nessuno ha eletto.
Torniamo però alla religione, dopo questo intervallo buffonesco, come gli antichi greci tornavano alla tragedia dopo l’intervallo del dramma satiresco. Discutiamo ancora di quello che tu chiami il tentativo di “inserimento” della chiesa in un quadro generale in cui essa è totalmente estranea, che ha dovuto subire e cui non ha per nulla contribuito. È qui infatti il centro del problema.
Per capire esattamente di che cosa stiamo parlando, non sarà inutile una analogia storica con la formazione della società feudale europea dopo il lungo e secolare collasso del mondo antico greco-romano, a suo tempo mirabilmente  studiato da Santo Mazzarino. La chiesa non ha affatto “creato”, e neppure diretto questo passaggio storico, derivato da una fusione conflittuale fra il tardo latifondismo romano e l’irruzione dei nuovi gruppi militari germanici. Essa ha dovuto subirlo, ed adattarvisi, laddove si era già “assestata” in età costantiniana e teodosiana sulla base di una correzione comunitario-caritativa (l’ideologia del Povero, secondo l’antichista inglese Peter Brown) del modo di produzione schiavistico antico, solo leggermente modificato dal colonato (e per di più soltanto in alcune zone periferiche del mondo romano). Quindi, neppure allora la chiesa ha creato e determinato un bel niente. E tuttavia, pur non essendo stato un fattore diretto di modificazione strutturale della società, il cristianesimo ha “informato” culturalmente l’insieme del mondo medioevale europeo, e basti in proposito ricordare il simbolismo religioso, la società tripartita medioevale, la conservazione della scrittura, le cattedrali romaniche e gotiche, la grande pittura e scultura sacra, la meravigliosa teologia a base platonica ed aristotelica, eccetera. Soltanto la tradizione massonica, filtrata in alcuni ambienti protestanti, ha potuto parlare di medioevo come età oscura. Certo, Dante coesisteva con i roghi degli eretici e delle streghe, ma anche nel mondo greco il Partenone coesisteva con la schiavitù. In ogni caso, ciò che conta in questa sede è riaffermare il fatto che la chiesa, pur non avendo per nulla “prodotto” la società feudale e poi comunale e signorile, ne ha dato l’impronta simbolica e culturale in moltissimi campi.
Nulla di simile per la cosiddetta età moderna e contemporanea. Qui la chiesa ha dovuto soltanto subire, adattarsi, piegare la testa, gestire l’inerzia conservatrice della parte più debole e subalterna della società (pensiamo al fenomeno della religiosità barocca, che peraltro permane ancora oggi come la dimensione maggiormente “di massa” della mobilitazione cattolica popolare). La società medioevale (contadina e comunale, nobiliare e protoborghese mercantile, feudale e signorile) era impregnata di religiosità. Il denaro contava già molto, anzi moltissimo, e basti leggere la novellistica di Boccaccio per capirlo. Ma nello stesso tempo il denaro e la connessione mercantile non erano ancora il tessuto esclusivo del legame sociale. A mia conoscenza, salvo errore, soltanto il neopaganesimo rinascimentale italiano riabilita integralmente il denaro e la ricchezza come forze positive di cui vantarsi senza vergogna, coscienza infelice e sensi di colpa. Ed anche in questo caso, la chiesa si dimostra debole e subalterna (come era già avvenuto al tempo di Avignone e della messa fuorilegge del francescanesimo pauperistico e popolare), ed abbiamo infatti i papi del tipo di Alessandro VI e Giulio II, normali principi rinascimentali con debolissima ed ipocrita copertura spirituale. Lo stesso assolutismo europeo, ultimo fragile baluardo nobiliare contro la borghesia, deve rivolgersi a preti secolarizzati e machiavellici come Richelieu e Mazarino.
Da circa trecento anni, il cristianesimo sopravvive nella società come nicchia residuale. Non è comunque colpa sua, e non condivido l’opinione di chi afferma che così non sarebbe stato se non avesse tardato tanto a secolarizzarsi ed ad accogliere il cosiddetto “pensiero moderno”. Il suo relativo ritardo a secolarizzarsi è anzi stato un suo fattore di resistenza, in quanto se si fosse auto-secolarizzato prima in modo suicida sarebbe entrato in crisi anche prima. La sua crisi sta a mio avviso altrove. Dovendo diagnosticare le cause profonde di questa crisi, direi che esse stanno (quasi) tutte nella duplicità ed ambiguità verso la nuova realtà borghese e capitalistica. Da un lato, questa realtà è stata criticata per tre secoli, con una continua insistita critica al cartesianesimo, all’ateismo, al materialismo, al relativismo borghese, eccetera (Ratzinger non si è certamente inventata la critica al relativismo ed al nichilismo, ma l’ha semplicemente riattualizzata alla luce della filosofia contemporanea). Si è trattato, insomma, di una critica teologica e culturale (Rosmini, Del Noce eccetera). Dall’altro lato, mentre si critica la borghesia, si accettava il capitalismo, realtà infinitamente peggiore della borghesia stessa, perché almeno la borghesia è un soggetto culturale collettivo capace di coscienza infelice, mentre il capitalismo è soltanto un’orrenda bestia fredda e senz’anima.
Qui si colloca la specifica ipocrisia (mi si scusi il termine, un po’ pesante, ma non ne trovo nessun altro) della chiesa cattolica. Le chiese ortodosse si sono precocemente riconvertite in custodi della comunità nazionale contro gli invasori di altra religione (le chiese cattoliche che hanno di fatto dovuto interpretare questo ruolo sono state fondamentalmente due, di Polonia e di Irlanda), e questo ha potuto facilitare la conservazione del loro ruolo, sia pure marginalizzato (penso oggi in particolare non tanto alla chiesa ortodossa russa, imperiale sotto Nicola II come sotto Putin, ma alle chiese greca, armena, serba e georgiana). Le chiese protestanti hanno seguito la via della secolarizzazione fino a suicidarsi dolcemente nell’etica umanistica scandinava, con l’eccezione del feroce protestantesimo fondamentalista-sionista degli USA, che però a rigore non è più una religione protestante, ma una religione idolatrica nazionale come quella assiro-babilonese, in cui Cristo è soltanto più un Baal a stelle e strisce.
La situazione della chiesa cattolica è più ambigua, non solo, ma di tutte la più ambigua. Da un lato, essa è universalistica proprio in base al nome che porta, ma di fatto è soltanto una forma di occidentalismo aperto in superficie ad “inculturazioni” subalterne ed ineffettuali di indigeni convertiti della Nuova Guinea che ballano in modo post-cannibalico e pre-discoteca. Il solo universalismo oggi sarebbe una forma di denuncia radicale del capitalismo globalizzato, privo dei tragicomici aspetti positivistici dell’ateismo scientifico del defunto e penosissimo comunismo storico novecentesco, con i suoi politici cinici ed i suoi intellettuali scemi. Ma questo non può avvenire. Ratzinger è certamente un filosofo intelligente, che per molti aspetti mi ricorda quel Nicolò da Cusa quattrocentesco, che per poco non diventò papa anche lui, ma che non lo divenne perché non aveva i soldi per comprarsi la cattedra di Pietro, ma non è un caso che i suoi interlocutori siano personaggi penosi come Jurgen Habermas ed Oriana Fallaci, del tutto al di sotto della percezione della tragicità potenziale della situazione contemporanea.
Ratzinger se la prende un giorno si e l’altro pure contro il relativismo ed il nichilismo, sulla base di una nozione normativa della natura umana di origine assai più aristotelica che veterotestamentaria. Bravissimo, sono completamente d’accordo. Ma che senso ha combattere il relativismo quando non si ha il coraggio di diagnosticare le ragioni materiali del relativismo stesso? Il relativismo nasce dal fatto che nel mondo della merce capitalistica tutto è di fatto relativo al valore di scambio della merce stessa, ed al potere d’acquisto individuale che vi sta sotto. E dal momento che il semplice scorrimento della merce in tutte le direzioni è appunto la forma economica del Nulla (con la maiuscola), ne deriva che questo Nulla sta alla base della relatività del valore di scambio e del potere d’acquisto.
Non voglio certamente insegnare nulla a Ratzinger. Per mia e sua fortuna, non sono papa. E tuttavia prendere sul serio qualcosa, come io ho preso sul serio la sua enciclica, significa parlare liberamente senza peli sulla lingua. Io non gli bacerei la mano, ma mi limiterei ad un leggero inchino di cortesia. Non faccio parte del suo gregge, perché non ho pastori, ma nello stesso tempo lo preferisco a tutti i manigoldi e maramaldi con cui ho trascorso decenni intermedi della mia vita.

4. La Chiesa in questa enciclica vuole offrire una propria visione delle problematiche sociali del nostro tempo. Richiamandosi alla enciclica sociale di Paolo VI “Populorum progressio”, essa ne vuole rappresentare un aggiornamento relativamente al periodo storico attuale. In essa è presente la condanna morale del capitalismo e del suo conseguente relativismo etico, che profondamente incide sulla società determinando la disgregazione sociale, il degrado progressivo dell’etica solidale e comunitaria e con essa la visione trascendente dell’uomo e della storia. Tuttavia, osserviamo che in questa enciclica non si intravede un futuribile, possibile superamento dell’ordinamento capitalista, quale sistema incompatibile con il messaggio evangelico. L’enciclica si intitola “Caritas in veritate” e pertanto, in essa viene coerentemente affermato: “L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione trascendente”. Il sistema capitalista che presiede alla globalizzazione è basato su logiche economiciste che incidono integralmente nella vita individuale e collettiva ed è pertanto per sua stessa genesi anticristiano e antiumano. Se “l’essere umano è fatto per il dono”, in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio, l’individualismo e l’utilitarismo sono contrari alla natura umana. Se, secondo la dottrina della Chiesa, l’uomo non è proprietario dei beni terreni ma ne è solo l’amministratore, se il prestito ad interesse veniva condannato in quanto il profitto ottenuto sulla base del decorso del tempo è illecito in quanto il tempo non appartiene all’uomo ma a Dio, la Chiesa dovrebbe auspicare la fondazione di nuovi ordine economici sociali che si sostituiscano integralmente al capitalismo. L’economia del dono e l’economia di carità sono storicamente esistite e quindi, se l’economia non è il destino dell’uomo, non è davvero fantascienza ipotizzare il superamento del capitalismo. Esprimo la mia delusione riguardo questa enciclica sociale, poiché in essa non scorgo la speranza di uno sconvolgimento del determinismo necessario ed immanente dell’ideologia del progresso illimitato di stampo liberale: è assente in essa la configurazione utopica di una società informata ad un ordine di valori alternativo e contrapposto all’esistente.

R-Condivido interamente il sentimento di “delusione” da te provato dopo la tua attenta lettura dell’enciclica papale. Se io fossi personalmente un cattolico praticante, certamente penserei che si è trattato di una “occasione mancata”. Siamo di fronte ad una crisi organica e strutturale della globalizzazione, e ci si limita alla consueta reiterazione dell’iterpellazione morale del capitalismo, chiamato a “convertirsi”. Ma come ho già avuto modo di dire in precedenza, il capitalismo non è un soggetto morale, ma una “bestia fredda” senz’anima.
Non essendo però un cattolico praticante, non sono stato deluso perché non mi ero precedentemente illuso. La chiesa cattolica confonde da tempo la critica radicale del capitalismo con l’automatica approvazione a posteriori del defunto comunismo ateo, e finché saremo in presenza di questa confusione, o meglio di questa identificazione (ed in questa identificazione di fatto Ratzinger non si distingue dal suo predecessore polacco se non per una maggiore sobrietà linguistica), ci sarà sempre un “blocco” che impedirà una critica radicale al capitalismo.
Questa critica, comunque, non verrebbe probabilmente capita dalla grande maggioranza del “popolo praticante” che va ancora a messa in Italia. Si tratta di un popolo che vota in maggioranza Berlusconi e Casini e che accoglierebbe con sospetto e diffidenza toni troppo radicali e messianici, perché è stato abituato nell’ultimo mezzo secolo ad attribuire questi toni ai “comunisti”. Naturalmente, i “comunisti” non esistono più da almeno vent’anni, perché i loro dirigenti mascalzoni e maramaldi si sono riciclati come mercenariato politico USA e come urlatori anti-berlusconiani. Il massimo di “messianesimo” che si chiede alla Chiesa Cattolica dal gruppo cinico di potere Repubblica-Espresso-Micromega è la denuncia dei costumi puttaneschi di Berlusconi. Per il resto, il cosiddetto “laicismo” vorrebbe – se potesse – sostituire la religione con i Gay-Prides e con lezioni divulgative su Darwin interpretato come teorico dell’ateismo.
La libertà teologica di Ratzinger deve quindi fare i conti con il suo alter ego più potente chiamato Benedetto XVI. È inevitabile che fra Ratzinger e Benedetto XVI vinca sempre alla fine il secondo. La funzione strutturale oggettiva vince sempre contro la libertà intellettuale soggettiva. Si tratta dell’inevitabile vendetta del materialismo storico contro tutti coloro che cercano di minarne le basi teoriche e filosofiche.
Come tu giustamente rilevi, la schizofrenia della teologia accomodante e compromissoria con il capitalismo si rivela allo scoperto sulla questione del “dono”. Vi sono stati molti studiosi di provenienza cattolica (ricordo qui soltanto il portoghese Fernando Belo) che hanno riscontrato nella predicazione e nella testimonianza di Gesù di Nazareth la centralità assoluta del dono come elemento fondamentale del rapporto sociale. Ed in effetti è veramente così. Se la natura umana non è un dato storico relativo e convenzionale, ma è un dato ad un tempo naturale e trascendente (e tutto il pensiero filosofico di Ratzinger ruota infatti intorno a questo principio fondamentale, chiave teorica della sua opposizione al relativismo ed al nichilismo), allora l’individualismo e l’utilitarismo sono contrari alla natura umana, come del resto tu rilevi correttamente.
Ora, in questo non si possono fare furbeschi compromessi. Nelle questioni di fondo non ci si può limitare a dire che il bicchiere è mezzo pieno, ed anche se non è pieno del tutto è sempre meglio che non sia solo mezzo vuoto. Questa è letteralmente teologia da bar.
E veniamo allora sempre allo stesso punto. Da un lato, esiste realmente la volontà soggettiva di sottrarsi all’ideologia del progresso illimitato di stampo liberale, attraverso il recupero di una nozione filosofica greca di logos, nozione che è realmente estranea alla raison illuministica. Dall’altro, l’ideologia atea del progresso illimitato attraverso la religione dell’economia politica, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra come accettazione dell’economia di mercato, per di più nella sua forma più abietta, quella della globalizzazione.
Poiché bisogna concludere, concluderò brevemente cosi: la chiesa cattolica ha avuto le sue buone ragioni storiche per opporsi al comunismo leninista, in quanto quest’ultimo faceva dell’ateismo un suo elemento centrale (materialismo dialettico, umanesimo ateo, eccetera); ma oggi questo scenario storico non esiste di fatto più; continuare ad identificare la critica al capitalismo con l’approvazione del comunismo leninista è ad un tempo un errore ed un crimine. È questa la sfida che si pone di fronte nei prossimi decenni per la teologia cattolica. Non sono particolarmente ottimista, perché conosco i miei “polli”. Ma staremo a vedere.

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