Il male sociale Considerazioni sul rapporto tra uomo, strutture sociali e natura

apr 28th, 2020 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

Il male sociale Considerazioni sul rapporto tra uomo, strutture sociali e natura

di Lorenzo Dorato

 

Premessa introduttiva

Il tema centrale di queste pagine è l’interpretazione delle relazioni umane sociali come campo d’indagine dotato di una propria autonomia. Autonomia che non implica alcuna separazione arbitraria dalla generale indagine dell’uomo come soggetto personale, ma è anzi premessa indispensabile per una visione complessiva dell’uomo stesso come essere intimo e insieme comunitario. Il primo passo di tale analisi interpretativa consisterà nell’affermare la netta cesura tra dimensione umana e dimensione naturale, ovvero tra natura umana e natura non umana. Successivamente descriverò la dimensione umana come unità, nella distinzione, tra sfera personale e sfera sociale, in opposizione ad ogni genere di riduzionismo interpretativo. Da tale analisi risulterà infine quella che è la tesi fondamentale di questo articolo: dimostrare, cioè, come la dimensione comunitaria dell’uomo e, di conseguenza, la stessa visibilità del male sociale esistente siano oscurati, nella società contemporanea, dalle due estreme, opposte e complementari visioni del mondo che definirò iper-personalismo da un lato e naturalizzazione del sociale unita al progressismo scientista dall’altro.     Per visione iper-personalista della società intendo l’idea che non esista alcuna dimensione comunitaria dotata di dinamiche proprie non sovrapponibili a quelle dei rapporti personali diretti. Tale concezione ignora completamente il carattere sistemico e strutturale di parte delle relazioni umane, ed erroneamente esclude (o limita fortemente ad ambiti selezionati) l’azione politica come luogo etico della buona legge e dell’espressione comunitaria, in nome di visioni parziali e a-sistematiche della realtà, come l’utilitarismo-individualista, il volontarismo morale a base univocamente personale o l’intimismo esistenzialista. Così facendo, questa concezione, multiforme nelle sue espressioni, ma unificata dal denominatore comune del rifiuto di una dimensione comunitaria forte, etica ed estesa ad ogni ambito della vita associata, finisce per spezzare la totalità del reale, penalizzando la stessa persona umana, di cui pure rivendica l’assoluta centralità. Dall’altro lato, la visione che conduce invece alla naturalizzazione della società, che è in realtà un complemento culturale, anche se apparentemente antitetico, dell’iper-personalismo, identifica la società umana con i meccanismi delle leggi della natura, e al tempo stesso sostituisce la critica delle relazioni sociali con la fiducia cieca nella scienza come panacea dei mali naturali. Rovescia la società nella natura e la natura nella società. La forza congiunta di tali concezioni, iper-personalismo e scientismo progressista, provoca la drammatica conseguenza dell’incapacità, così diffusa e pervasiva in questa epoca, di saper cogliere la dimensione sociale umana nella sua corretta misura, sfuggendo sia a visioni sociali sistemiche ipertrofiche (proprie dell’altrettanto deleterio riduzionismo sociologico e del determinismo storicistico) sia all’iper-personalismo e allo scientismo arrogante e presuntivamente esaustivo.     Il risultato complessivo è che la dimensione comunitaria dell’uomo, oggi, risulta ai più illeggibile, schiacciata com’è dall’invasività dell’intimismo post-politico e dell’idolatria della scienza dispensatrice di progresso redentore.     L’unica via di scampo per sfuggire a questo soffocamento ideologico è ritessere i fili della tela e proporre un’equilibrata considerazione dell’uomo in tutte le sue dimensioni, distinte e intercomunicanti. Ben sapendo, naturalmente, che la soluzione non può essere una rinnovata interpretazione iper-sociale e univocamente storicistica dell’essere umano, dal momento che proprio questa concezione è, in buona parte, responsabile del suo attuale rovesciamento nell’iper-personalismo e nello scientismo dissolutivi.

Dimensione umana relazionale, dimensione naturale

L ‘essere umano è tale in quanto relazionato ad altri esseri umani. L’uomo, cioè, manifesta la sua essenza nella relazione con l’altro. L’uomo solo, in sostanza, non esiste ed ogni fenomeno di isolamento dagli altri, non è altro che un allontanamento temporaneo, spesso necessario, finalizzato ad un successivo riavvicinamento arricchito dall’esperienza della meditazione e della concentrazione. L’essere umano nasce e cresce grazie all’amore e alla cura non solo materiale profusa verso il bambino. Ed è capace di amare soltanto in quanto è stato amato e curato. Dalla relazione proviene la sua essenza e nella relazione esprime la sua essenza. La relazione dell’uomo con l’uomo è dunque fondamento della vita. È nella relazione che si eternano i sentimenti e si superano la caducità della materia e la morte. La relazione che lega l’uomo con l’altro, è qualcosa di radicalmente diverso, evidentemente, dalla relazione tra uomo e natura, intesa come insieme di elementi materiali circostanti, dal proprio stesso corpo fisico all’ambiente naturale nel suo complesso. La differenza consiste in ciò: la relazione tra uomo e uomo si fonda sulla reciprocità dello scambio affettivo ed emotivo, sorretto dalla razionalità, dall’autocoscienza di sé e dalla forza di superare con il sentimento e la ragione le barriere ristrette del proprio tempo materiale; la relazione tra uomo e natura è invece unilaterale e necessariamente ristretta nello spazio temporale. È l’uomo che, dal proprio punto di vista, osserva, come dall’esterno, qualcosa che è dominato da leggi meccaniche, orientate da mere finalità di autoconservazione biologica. Mentre l’uomo vive, la natura sopravvive perpetuando indefinitamente sé stessa in base a leggi unicamente autoconservative. La natura umana ha dunque caratteristiche specifiche spirituali, alla cui base vi è la problematizzazione e la coscienza della vita e del comportamento. Non a caso, mentre per l’uomo è possibile parlare di disumanizzazione comportamentale di sé stesso, cioé della perdita temporanea degli stessi caratteri della natura umana, per ogni altra specie vivente non è possibile parlare di perdita della propria natura specifica, dal momento che essa è realizzata immediatamente senza alcun processo di problematizzazione cosciente. Il motore primo dell’azione umana, pertanto, è qualcosa di profondamente diverso dal motore primo che regola i processi naturali (1). L’affetto umano e la relazione umana sono quindi fonte e fine della vita. Ogni tipo di relazione affettiva o simpatetica con altre forme viventi (persino la più simile ad una relazione bilaterale quale quella con animali domestici e fedeli) non ne è che un riflesso. La stessa ammirazione della natura e il compiacimento per la sua bellezza e grandiosità sono possibili solo se scaturiscono da una vita umana già relazionale. La natura in sé, per l’uomo, non è nulla. Da queste semplicissime osservazioni preliminari nasce la necessità di tenere fermamente distinto ciò che proviene direttamente dall’uomo (dotato di una propria specifica natura) da ciò che proviene dalle leggi della natura.

Male relazionale, male naturale

La differenza tra una malattia e un tradimento, tra una catastrofe naturale o una guerra, è così evidente da non suscitare particolare confusione. Eppure tutti questi eventi sono accomunati dall’essere parti integranti del male complessivo che l’uomo si trova di fronte nella propria esistenza e non è sempre facile tenerli fermamente distinti così come dovrebbe essere. La distinzione tra male relazionale (nascente cioè dalle relazioni umane) e male naturale è tuttavia fondamentale e discende dalla distinzione tra relazione umana e relazione tra uomo e natura. La morte corporea, la sofferenza fisica, la malattia, gli eventi atmosferici e geologici catastrofici sono eventi naturali che rispondono a leggi puramente biologiche e fisiche. La sopraffazione, l’abbandono, la solitudine, la competitività, la vanità, il disprezzo degli altri, l’alienazione sociale, l’oppressione, sono mali umani che rientrano direttamente o indirettamente nel libero arbitrio dell’uomo. Il male in senso stretto è a mio avviso soltanto il male propriamente umano, poiché procede dalla corruzione della natura umana potenzialmente solidale, provocando un processo di più o meno marcata disumanizzazione dell’uomo stesso dipendente non da leggi meccaniche, ma, pur con tutti i condizionamenti, dall’esercizio della libertà personale e comunitaria. Il male prodotto dalla natura ha caratteristiche totalmente diverse, e le sue leggi meccaniche sono del tutto avulse dall’arbitrio umano e dunque estranee alla caratterizzazione propriamente spirituale dell’uomo. Affermare che il male in senso stretto è il male che proviene dall’uomo, non significa affatto non ammettere la negatività dell’evento naturale avverso (contro cui l’uomo ha la possibilità ed il dovere di reagire modificandolo a proprio favore). Significa però riaffermare l’assoluta centralità della relazione umana e mettere in guardia dal rischio, così diffuso nella società contemporanea, di porre la lotta contro l’evento naturale infausto al centro della propria esistenza personale e sociale estraniandola così dal proprio senso ultimo. Mentre nei confronti della relazione umana e dei suoi propri mali, deve essere spesa ogni energia vitale, perché è lì che il senso stesso della vita si compie, nei confronti dell’evento naturale avverso, invece, è giusto e necessario che ci si mobiliti, ma non è possibile esserne assorbiti e schiacciati completamente vivendo alla ricerca ossessiva del superamento materiale del proprio limite e della propria caducità. Male relazionale umano e male naturale sono, quindi, cose del tutto diverse. Il loro continuo e inevitabile incontro e intreccio nell’esperienza reale della vita, non possono comunque impedire di riconoscerli nella loro profonda diversità.

L’uomo, il male naturale e il male relazionale

Il male naturale è, d’altra parte, componente essenziale e inscindibile della vita. La morte umana, l’evento infausto che più angoscia e terrorizza l’uomo, è un dato costitutivo della nostra natura. La morte fisica porta alla fine della vita che conosciamo e ciò non può che produrre un senso di profonda paura e di vuoto. Nell’uomo si manifesta infatti una contraddizione permanente tra caducità materiale costitutiva e tensione spirituale verso l’eternizzazione di sé e dei propri sentimenti. Questa contraddizione è la ragione che rende difficile l’accettazione della morte. Questa tensione tra opposti diventa tanto più insopportabile, quanto più la vita umana si aliena nella compulsiva ricerca dell’abbattimento del male naturale. In questo caso, infatti, le energie profuse per il superamento dei propri limiti finiscono per oscurare il senso stesso dell’esistenza.  Il controllo degli eventi naturali infausti e la loro correzione attraverso la scienza e il progresso materiale delle civiltà sono di certo fondamentali e parte integrante del nostro rapporto complesso e contraddittorio con la natura. Restano tali, però, a patto che rientrino in una visione della vita che faccia della razionale e serena accettazione della limitatezza materiale umana un fondamento essenziale. La scienza e il progresso sono, quindi, meravigliosi supporti per contrastare la sofferenza, ma non possono mai trasformarsi in vettori univoci del raggiungimento di un presunto stato di superamento del male personale e sociale dell’uomo. La scienza non è salvifica in sé, e non è neanche precondizione necessaria affinché l’uomo realizzi la propria essenza in vita. Essa non è che un validissimo strumento nella quotidiana lotta umana contro le avversità naturali e come tale deve essere vista e interpretata. Non può divenire arbitrio assoluto, ma puro mezzo socialmente condiviso per fini comuni. Attribuire, invece, alla lotta contro l’avversità naturale, e dunque alla scienza, presunti effetti virtuosi sull’uomo come essere relazionale, personale e sociale, è un gravissimo errore che conduce a quello che nella premessa ho definito come progressismo scientista unito al contestuale e complementare atteggiamento che induce alla naturalizzazione ideologica della società umana. Un atteggiamento, oggi assai diffuso (reso pervasivo dalle strutture sociali capitalistiche) orientato alla totale passività verso il male sociale compensato da un attivismo psicologico e pratico maniacale nei confronti del male naturale e dunque da una feticistica santificazione del progresso scientifico redentore. Una società, come quella capitalistica, che fa del progresso materiale scoordinato e privato totalmente di fini sociali meditati l’unico feticcio possibile di condivisione e solidarietà collettiva, è una società spiritualmente morta, poiché concentra le energie comuni verso il conseguimento incosciente e irrazionale di obiettivi quantitativi avulsi dalle dinamiche reali con cui la relazione sociale effettivamente si svolge e si esplica. Se, in nome di un progresso astratto, la lotta contro la sofferenza naturale e la limitatezza materiale dell’uomo diventa ossessione personale e sociale per la quale diviene persino lecito scavalcare e calpestare del tutto la cura della relazione umana nei suoi aspetti interpersonali e collettivi, l’uomo perde di vista il senso della vita. La società stessa perde di vista il senso della vita associata. Poiché la vita umana trova il suo fondamento nella cura della relazione con l’altro, intima e comunitaria, ogni passo della propria vita dovrebbe essere un atto di condivisione e comunione. Ogni forza personale dovrebbe essere tesa ad affrontare l’insorgere di incomprensioni, egoismi, distrazioni, prevaricazioni ad ogni livello. La tensione umana, d’altronde, é potenzialmente tensione perpetua e sofferta verso una possibile e auspicabile armonia con l’altro da vivere in pienezza (che non significa, naturalmente, ipocrita pace innaturale, ma, laddove necessaria, aperta lotta e contrasto). Ci si libera nelle relazioni, e non da esse. La lotta contro la prepotenza incosciente della natura attraverso la scienza, invece, non è che una lotta (naturalmente degna di essere perseguita socialmente) di completamento e di raffinamento di una ben più umana ed essenziale lotta vitale contro le disarmonie umane; lotta, quest’ultima, che deve essere vissuta, non certo come redenzione sociale messianica generica, ma come processo di liberazione complessivo nella relazione con l’altro in ogni dimensione della vita.

L’uomo e la dimensione relazionale. Dimensione personale e dimensione sociale-sistemica

Chiarita l’importanza della distinzione tra dimensione relazionale umana e dimensione naturale e chiarito il loro peculiare e necessario equilibrio, è ora possibile descrivere all’interno della dimensione umana relazionale la distinzione tra dimensione personale e dimensione sociale. Come argomentato in maggior dettaglio in precedenti scritti (nota 2), ritengo che nell’interpretazione delle relazioni umane, sia di fondamentale importanza la preliminare distinzione tra sfera personale e sfera sociale-sistemica. Una distinzione che non deve in alcun modo comportare un’arbitraria quanto pericolosa separazione tra i due piani, ma che è utilissima per sfuggire l’opposto rischio, altrettanto gravido di conseguenze (del tutto complementari) della riduzione di essi ad un unicum indistinguibile. E così, in riferimento al tema di questo articolo, ritengo che il male relazionale umano si distingua in male interpersonale, di totale dominio cosciente dell’individuo e male sociale di limitato dominio dell’individuo. Le azioni inter-personali sono tutte quelle azioni il cui senso e le cui conseguenze si manifestano direttamente agli occhi dell’individuo che le commette e agli occhi di chi le riceve. Le azioni sociali-sistemiche sono invece quelle azioni, o quei determinati aspetti di un’azione, il cui senso e le cui conseguenze si manifestano in virtù o a causa di specifiche strutture sistemiche cristallizzate e stratificate nel tempo. Strutture che, per essere mutate, hanno bisogno di un’azione schiettamente politica e non possono essere modificate da gesti volontari autonomi atomizzati e a-politici. Una stessa azione, naturalmente, può avere un aspetto inter-personale ed un aspetto sistemico sociale. Prendiamo esempi stilizzati tratti dal funzionamento di un’economia capitalistica. Un fabbricante di bulloni che vengono utilizzati nella successiva produzione di armi utilizzate per massacrare gente inerme in qualche paese lontano, può svolgere con perfetta professionalità, umanità e responsabilità il proprio lavoro, mantenendo rapporti equilibrati ed umani con i propri colleghi e compiendo con minuzia il proprio dovere; tuttavia compierà e subirà un inconsapevole atto sociale intriso di male. Atto di cui, naturalmente, non è affatto responsabile in quanto produttore di bulloni e di cui può assumere coscienza soltanto politicamente, come membro di una comunità politica sovrana capace di legiferare sulla base di un’etica condivisa. Il produttore di bulloni non compie né subisce del male diretto in quanto uomo, ma del male indiretto in quanto agente sistemico. Solo in quanto membro di una comunità totale, cioè politicamente, e non in quanto produttore estraniato di bulloni, può liberarsi da tale male stante nell’alienazione dei frutti del proprio lavoro e nella contribuzione indiretta ad una guerra disumana. O ancora, un capitalista-imprenditore che svolge nel rispetto della legge e dei propri dipendenti, pagando loro un ottimo stipendio, la propria attività economica, e che è leale e corretto nei limiti del possibile con i propri concorrenti sul mercato, agirà inevitabilmente, in quanto capitalista, su un mercato, che è per definizione luogo di sopraffazione silente, e sarà costretto per non scomparire dal mercato e fallire o comunque spinto dalle circostanze sistemiche a concentrare la propria attività sulla minimizzazione dei costi e la massimizzazione degli utili. Cosa che può significare, in un determinato contesto, licenziamenti, delocalizzazione della produzione, intensificazione dello sfruttamento del lavoro etc etc. La concorrenza, inoltre, lo porterà inevitabilmente, in caso di successo commerciale, a far sparire dal mercato altri capitalisti concorrenti con i loro annessi lavoratori con tutte le drammatiche conseguenze sociali del caso. Si può dire che tale imprenditore in quanto uomo compie del male? No. Compie del male in quanto agente sistemico. Si tratta di due esempi di figure sociali volutamente asimmetriche, descritte per rendere l’idea della distinzione tra ciò che avviene, in ogni ambito sociale, all’interno del dominio personale dell’individuo e ciò che può sfuggire a tale dominio. Naturalmente questa considerazione non implica affatto la negazione della responsabilità individuale all’interno delle proprie azioni e nei propri gesti, né la differenza di ruolo tra oppressori ed oppressi sul piano sociale. Vi sono milioni di persone al mondo che agiscono socialmente in forme malvagie indipendentemente dalla stratificazione sistemica in cui si trovano. Sfruttatori senza scrupoli, oppressori d’ogni sorta, assassini, avidi di potere e denaro. Va respinta con fermezza, in tal senso, ogni sociologia giustificazionista che oscura le precise responsabilità dei singoli nel commettere azioni di sopruso e oppressione dei deboli (da giudicare naturalmente come tali fuori da moralismi astratti e falsamente universali) (3). Ciò che si vuole dire è che la responsabilità individuale finisce laddove inizia quella sistemica. L’imprenditore è responsabile, sul piano del ruolo sociale, in quanto individuo agente in un determinato sistema capitalistico dominato da determinate leggi di movimento, della legalità e della correttezza della propria attività; umanamente in senso generico è responsabile anche del trattamento umano dei propri dipendenti, dell’umanità e della cordialità nei propri rapporti di lavoro quotidiani, della rinuncia ad un profitto tanto elevato da pregiudicare la dignità dei salari dei suoi lavoratori. Qui si ferma la responsabilità individuale in quanto imprenditore che agisce con buona volontà; qui si ferma la sua eticità possibile in quello specifico ambito. Ma è proprio qui che inizia la responsabilità sistemica, sociale e politica, dell’uomo politico. L’imprenditore-capitalista (qui inteso come figura ideale in senso stilizzato), al di là delle sue ovvie specifiche responsabilità morali visibili, non possiede, entro il suo specifico ruolo sociale, il dominio sulla violenza sistemica in quanto tale, quella dipendente dall’esistenza di strutture ultra-competitive dove vige, per necessità, la legge della concorrenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’agente sistemico di un sistema strutturalmente disumano, entro la sua specifica attività sociale professionale può esercitare una propria massima eticità, ma all’interno di limiti ben precisi, oltre i quali si impone la responsabilità di comprendere la natura del sistema in cui si agisce, interpretandone il movimento e le leggi spietate ed attaccandole attraverso l’azione politica.

Etica personale ed etica comunitaria. Rivoluzione e conservazione.

Sia chiaro, dunque, che, anche all’interno di strutture sociali degradate e violente, esiste per l’uomo la possibilità e la libertà di una vita etica complessiva, ispirata cioè al discernimento tra bene e male. È l’etica della realizzazione della propria umanità a tutti i livelli dell’esistenza, sia nelle relazioni personali e affettive (distinte per loro natura dalle strutture sociali) sia nelle relazioni sociali e nel proprio lavoro per quanto alienato possa essere. Si tratta senza dubbio di un’etica complessiva ed integra in sé, perché investe la totalità della vita delle persone, ma è, tuttavia, entro strutture sociali corrotte di cui si è parte, un’etica mutilata, continuamente violata e in balìa di contraddizioni. Ed è tale, non certo perché la società infici irrimediabilmente la moralità complessiva dell’uomo di per sé (la morale umana non ha limiti intrinseci entro ogni specifico contesto); ma perché è un etica costretta a esplicarsi, spesso contraddicendo i suoi stessi fini, e vanificando i suoi frutti, in strutture sistemiche produttrici di male invisibile, eppure dannoso e condizionante. Non si tratta quindi, a questo livello specifico di analisi, di stabilire colpe soggettive, ma di     comprendere che esiste un male con cui si è passivamente implicati nel subirlo e nel produrlo. Un male di cui, pur non essendo direttamente colpevoli o responsabili in quanto singoli, si deve essere necessariamente partecipi, poiché, in quanto uomini, si appartiene non solo al proprio intorno emotivo, ma anche al proprio intorno strutturale e si è partecipi a pieno titolo del suo potenziale degrado e della sua disumanizzazione. Ecco che emerge la nozione, centrale per il senso di questo articolo, di male sociale. Un male che, pur essendo parte del generale male relazionale umano (come visto, completamente distinto dal male naturale), è radicalmente diverso nella sua modalità di manifestazione dal male nella sua espressione interpersonale di diretto dominio individuale. È un male che può essere affrontato soltanto politicamente, ciascuno nel suo specifico ruolo, a partire cioè dalle leggi o dalle rivoluzioni, intese entrambe nel senso più nobile del termine, come emanazione di una volontà collettiva tesa alla traduzione formale di ciò che nella sostanza una comunità ritiene buono e conforme all’uomo. Attraverso la conoscenza degli aspetti sistemici e delle spietate leggi che li regolano e che condizionano il nostro agire asservendolo a logiche che potrebbero esserci estranee se dipendesse direttamente da noi, è possibile vivere l’eticità nella totalità non asservendola a logiche che non le appartengono. Senza dunque negare nulla all’integrità in sé di un’etica complessiva possibile in qualunque contesto, è però importante che essa si accompagni alla coscienza politica della sistemicità della dimensione sociale e ad una corrispondente azione reattiva coerente con tale piano. La violazione dell’etica, naturalmente, resterà tale, oggettivamente, fino a quando la propria forza politica non sarà così intensa da modificare le strutture corrotte in cui si è precipitati; ma il fatto stesso di assumere una coscienza politica coerente con dei principi, orientata ad incidere sulle strutture, è un atto che apre un cammino, ripristinando la potenzialità di un’etica tendenzialmente liberata dalle contraddizioni più gravi in cui è costretta ad esprimersi. A completamento di quanto fin qui detto, bisogna aggiungere che non è possibile alcuna azione politica trasformatrice che non muova da principi etici. Essendo la lotta politica stessa, un atto supremo di eticità, poiché teso alla creazione di strutture buone per l’uomo attraverso i mezzi idonei, essa sarà fumo desinato a dissolversi se non sorretta da una visione etica del mondo e delle relazioni personali. Pertanto, non ha alcun senso ed è anzi quanto mai pericoloso il messianismo politico-sociale che nella trasformazione rivoluzionaria voglia spazzare via la morale pre-esistente tacciandola di “ipocrisia” in quanto in fondo compatibile con il sistema economico-sociale che si vuole combattere. Nulla di più errato e nocivo! Una rivoluzione che agisce come immondezzaio della storia, della morale e della tradizione è una rivoluzione destinata ad implodere in sé stessa lasciando dietro di sé il nichilismo. Una rivoluzione sociale, al contrario, deve saper essere conservativa di ciò che di buono esiste e persiste pur in contesti degradati e corrotti che si vogliono legittimamente spazzare via nel loro insieme strutturale. La dialettica rivoluzione e conservazione diviene in tal senso di enorme aiuto per sfuggire ai deliri abolizionisti della tabula rasa e dell’uomo nuovo. La morale integra e genuina degli uomini, anche se contraddittoria e mutilata dal mondo corrotto, è la base essenziale e imprescindibile su cui fondare una rivoluzione e su cui esprimere una forza comunitaria. Una rivoluzione, senza conservazione, cioè abolizionista a priori di ogni base o tradizione morale pre-esistente, non è altro che messianismo astratto pronto a rovesciarsi nel nichilismo al venir meno dell’euforia iniziale tipica di ogni fase di trapasso. (4)

Ulteriori chiarimenti sul legame tra etica e struttura sociale

Si è detto che è sicuramente possibile e doveroso perseguire una vita etica non solo personale, ma anche sociale (inerente al proprio contesto specifico), pur entro strutture sociali corrotte e violente strutturalmente. Alla domanda cioè se si può essere “buoni in un mondo cattivo”, bisogna rispondere in maniera totalmente positiva. Tuttavia è necessario qualificare tale risposta con opportune considerazioni sul significato di etica. L’etica, infatti, da una parte non può essere relativizzata come concetto, dall’altra tuttavia va compresa all’interno dei contesti specifici. Non esiste, cioè, né un’etica assoluta nelle sue specificazioni particolari né un’etica relativistica tout court. Non può esistere, in sostanza, né un atto specifico astratto eticamente buono o non buono in sé, né un atto concreto ingiudicabile in sé. Esiste, invece, l’Etica come campo di analisi universale e non meramente relativo, e come base per il giudizio del comportamento umano attraverso il distinguo tra bene e male da comprendere opportunamente entro ogni specifico contesto. Un omicidio compiuto in una guerra di legittima difesa come atto difensivo ha, ad esempio, una sua piena legittimazione etica; allo stesso modo un omicidio compiuto fuori dalla stretta necessità delle circostanze estreme non può avere nessuna legittimazione etica. Entrambe le asserzioni relative al medesimo atto, l’omicidio, (che in sé per sé, senza contesto, non può essere interpretato in alcun modo), possono avere una verità universale assoluta a patto che il contesto non diventi una scusa per un’interpretazione totalmente relativistica del comportamento umano. Da una parte, un’etica autonoma dal contesto non è altro che moralismo falsamente universalistico, che si riduce a formalismo procedurale soggetto all’uso arbitrario del potere (tra le sue versioni più atroci basti pensare oggi alla teologia interventistica dei diritti umani nel mondo o al codice politicamente corretto della democrazia come insieme di procedure liberal-democratiche tipicamente occidentali spacciate per democrazia in sé); dal lato opposto, un’etica integralmente schiacciata da considerazioni di contesto, in ultimo individuali, è un’etica ultra-relativistica inutilizzabile e nociva (relativismo antropologico e valoriale per cui nulla sarebbe giudicabile all’infuori del suo contesto specifico).  È possibile soltanto un’etica universalistica di sostanza che, a partire dalla sostanza ultima universalizzabile del comportamento umano, lo sappia poi leggere entro gli innumerevoli contesti culturali e oggettivi specifici. Un’etica della sostanza ultima, quindi, da contrapporre sia all’etica della forma e della procedura (moralismo formale) sia al relativismo. Si tratta dell’unica via possibile per l’universalismo che non cada nella trappola mortale dell’universalismo astratto, non a caso del tutto compatibile con il relativismo più spudorato (oggi si ha da un lato l’ universalismo astratto e procedurale della democrazia liberale occidentale, cioè del capitalismo e del libero mercato per tutti e ad ogni costo; dall’altro lato il relativismo assoluto della libertà individuale sfrenata in ogni ambito della vita sociale).

Tendenziale soluzione della contraddizione tra codice etico personale e strutture sociali

Come detto in precedenza, il codice etico personale, anche se in sé integro, sarà esternamente violato e schiacciato dalla corruzione della struttura sociale entro cui si esplica, fino a che non comprenderà in sé l’interpretazione della struttura stessa. La contraddizione del proprio codice etico può essere sanata tramite l’azione politica intesa in senso ampio, che, in quanto tale, deve muoversi universalmente entro una comunità reale e non può né procedere per atti volontaristici atomizzati (in quanto tale non sarebbe più politica), né divenire predicazione esclusivamente astratta e dunque falsamente universalistica. In sostanza, deve semplicemente accadere che l’etica stessa si generalizzi alla comprensione sistemica del reale. La bontà dell’uomo buono nel mondo cattivo viene così liberata dalla contraddizione che la schiaccia. Tale liberazione avviene dapprima in potenza, nella contrapposizione diretta soggettiva al sistema corrotto, e poi in atto, oggettivamente, nel momento in cui il sistema viene effettivamente modificato o rivoluzionato. Una volta in atto, la liberazione oggettiva dalla contraddizione si verifica per tutti, indipendentemente cioè dalla diretta partecipazione emotiva o cosciente al processo di cambiamento delle strutture. Proprio in questo senso non è mai superfluo ripetere, anche fino alla noia, che, al di là dei contingenti interessi materiali di classe contrapposti, potentissimi e radicati, una trasformazione in senso solidaristico delle strutture sociali è in ultima istanza buona per tutti e dunque indirizzata a tutti. La liberazione dalla contraddizione tra etica personale e strutture sociali corrotte, è naturalmente un processo soltanto tendenziale, che non può compiersi del tutto. Se così fosse bisognerebbe dare ragione all’utopia marxiana, in questo senso simile a quella anarchica, che descrive la fine delle contraddizioni tra uomo e società in una società liberata e redenta, cadendo in una concezione messianica inaccettabile e profondamente errata. La comunità in quanto tale, infatti, non è uno spazio di assorbimento e oscuramento della persona, e come tale non è oggetto messianico di redenzione generica che trascende il singolo. Essa è al contrario il complesso e necessariamente contraddittorio luogo reale di esplicazione della totalità di ogni singolo uomo. La comunità non solo incidentalmente, ma strutturalmente solidale, non arreca affatto né il superamento integrale e finale delle contraddizioni sociali né tanto meno del male come dimensione umana, poiché essi permangono in quanto caratteri costitutivi dell’uomo. Non esiste alcuna soluzione storica lineare a quello che è un profondo processo contraddittorio che si rinnova in ogni singola vita umana ed in essa trova compimento. Esiste, al contrario, un processo storico e sociale di apprendimento e crescita comunitaria e potenzialmente universale. Questo, naturalmente, non implica che la comunità sia una dimensione neutrale rispetto alla vita interiore e personale, poiché intimità e comunità, seppur distinte, sono sfere perennemente interconnesse. La contraddizione tra codice etico personale e strutture sociali non può essere pertanto eliminata dall’esistenza di un’etica comunitaria forte, ma sicuramente fortemente sfumata, umanizzata e soprattutto vissuta coscientemente per quello che implica e rappresenta.

Protagonismo dell’azione umana nelle diverse dimensioni dell’agire. Per una concezione anti-deterministica dell’uomo e della comunità

In aperta contrapposizione ad ogni visione deterministica dell’uomo, è, a questo punto, lecito affermare quanto segue: è proprio dando il rilievo equilibrato all’esistenza di una dimensione sociale-sistemica, che si riafferma con forza la centralità dell’azione umana e dell’uomo come protagonista nella possibilità di modificare e incidere nel proprio intorno. Non si mette, cioè, in discussione il protagonismo della volontà umana modificatrice appiattendola e annullandola dietro al paravento delle determinanti sociali; ma al contrario, la si riqualifica alla luce della conoscenza delle diverse sfere dell’agire. Affermare che esiste una sfera sociale dotata di caratteristiche strutturali ed accoglierne le potenzialità positive per l’uomo contrastandone la negatività e la corruzione, non significa, quindi, oscurare l’uomo, la libertà e la singolarità. Significa, invece, esaltarne il ruolo alla luce di un’interpretazione totale della realtà nei suoi diversi aspetti. Paradossalmente, la negazione della dimensione sociale-sistemica, spesso ostentata con l’intento di riaffermare la centralità dell’uomo in quanto essere dotato di volontà, libero arbitrio e morale, finisce proprio per limitare la stessa forza trasformatrice e la stessa potenzialità morale dell’uomo come singolo, producendo una confusione di piani generatrice di equivoci e salti nel vuoto. Si comprenda, dunque, che l’uomo resta al centro della scena ed è l’unico attore cui spetta il dovere di cambiare ciò che ha attorno agendo in sfere diverse. In tal senso, è da rigettare radicalmente, qualunque idea di rivoluzione sociale espressa da visioni del mondo di tipo deterministico. L’uomo è interprete di ultima istanza di ciò che lo circonda e non gli è lecito confidare né sulla meccanicità dei movimenti storici di imprecisate masse oppresse, né sulla presunta ineluttabilità dei cambiamenti prodotti dai conflitti automatizzati dei dominanti, né tanto meno sul potere redentore della scienza e del progresso. Pur con tutti i fortissimi condizionamenti delle determinanti sociali e sistemiche l’uomo, in quanto tale, resta alla base libero interprete e poi portatore di qualunque istanza spirituale e morale, personale o sociale che sia. Non manipolatore che agisce nella tabula rasa relativistica della potenzialità illimitata, ma soggetto veritativo, e come tale cosciente del limite e dell’universalità.

Per una definizione di male sociale

Il male sociale è quel male che insorge tra gli uomini a causa della corruzione delle strutture sociali in cui vivono. Naturalmente gli artefici del male sociale sono gli uomini stessi. Non si tratta certo di una disgrazia naturale, ma di una realtà prodotta dagli uomini coscientemente (attraverso atti diretti di sopruso e prevaricazione) e incoscientemente (attraverso il passivo e silente adeguamento a strutture sviluppatesi dalla sovrapposizione di caos anomico, soprusi e perversioni). La società, attraverso i rapporti di disgregazione e di forza tra classi e individui, si stratifica a tal punto che il male che essa produce diviene spesso invisibile e irriconoscibile per molti, eppure colpisce in maniera subdola alterando i comportamenti, generando sofferenza materiale e miseria spirituale. Per chiarire con nettezza cosa è il male sociale, possiamo dire che esso è la normalizzazione sociale e culturale di norme e prassi in verità disumane e alienanti rese normali e compatibili apparentemente con l’eticità personale agli occhi della stragrande maggioranza delle persone. Molteplici esempi reali della società capitalistica nel suo aspetto più puro, possono ulteriormente chiarire quanto dico. La necessità del mercato come luogo di esercizio precario ed effimero della propria professione, è accettata quasi sempre come dato naturale. Il male sociale sta, in questo caso, non solo, nell’esistenza stessa di un mercato che strozza la professione riducendola a necessità di sopravvivenza economica, ma anche nell’ideologia che ne giustifica l’esistenza, naturalizzandola. Lo sradicamento dai luoghi cari, dal proprio intorno sociale è un male sociale drammatico che ha un doppio volto: quello della violenza degli oppressori esercitata sui diseredati della terra grazie alle infinite possibilità del capitalismo globalizzato di impiegare manodopera a basso costo immigrata dopo aver saccheggiato previamente e imperialisticamente i paesi colonizzati; e quello dell’occidente capitalistico che induce la pratica (obbligata dalle circostanze reali) e la cultura sciagurata (indotta ideologicamente) della mobilità e della flessibilità, cui segue lo sradicamento dai propri luoghi in cerca di lavoro, o semplicemente di titoli qualificanti o di “esperienze di vita”. È male sociale la necessità, tutta sistemica di tipo capitalistico, di far leva sulla pancia delle persone per stimolarne la mentalità acquisitiva e la sterilizzazione del senso critico. Pancia delle persone, che non è soltanto il desiderio sessuale subliminale scatenato dalla donna nuda usata brutalmente nelle campagne pubblicitarie per attirare lo sguardo del consumatore maschio drogato, ma può anche situarsi in versioni ben più raffinate di pubblicità e di persuasione che vanno a scavare nel desiderio di consumo di uno specifico bene da sostituire con un altro attraverso il ricorso ad un’immagine accattivante di qualsiasi tipo. La pubblicità nel mercato concorrenziale, che è per sua stessa natura non esclusivamente informativa, è un esempio lampante di male sociale, di relazione sociale perversa, inutile, dispendiosa, che instaura un legame di falsità, di subdola stimolazione di un desiderio arbitrario e illegittimo. È male sociale l’onnipresenza della concorrenza economica come necessità sistemica spacciata per naturale che anche l’uomo non competitivo deve affrontare per non perire. È male sociale il lavoro alienato e l’invisibilità dei suoi frutti per il produttore, al di là della buona volontà e perizia con cui il lavoro stesso sia svolto. È male sociale l’idea, legittimata da strutture legali e di potere, che il reddito da proprietà sia legittimo e morale; che il profitto sia il corrispettivo del lavoro gestionale dell’imprenditore capitalista o la giusta remunerazione del capitale messo a disposizione per la produzione; che l’interesse bancario sia il giusto prezzo da pagare per la rinuncia e l’astensione dall’utilizzo del denaro da parte del creditore. È male sociale l’idea di subordinare integralmente il proprio reddito vitale al conseguimento di risultati materiali di breve periodo. È male sociale la dissoluzione dei vincoli comunitari, dalla famiglia al villaggio, fino allo stesso Stato-nazione, accelerata dai meccanismi capitalistici di distruzione delle economie locali e della sovranità politica delle comunità e degli Stati. È male sociale l’emersione della filosofia dell’incentivo economico, tutta sistemica, contro la filosofia del controllo e dello stimolo sociale. È male sociale la possibilità di poter guadagnare denaro dal nulla, ad esempio con l’investimento in borsa o il gioco d’azzardo, momenti sommi e punte dell’iceberg dell’alienazione dell’individuo dalla propria socialità e dal proprio lavoro tipica della società capitalistica. È male sociale il feticcio della meritocrazia alienata in strutture di mercato proprietarie. È male sociale il relativismo delle idee e il nichilismo delle prospettive, che è non solo opzione culturale cosciente di pochi intellettuali pensanti corrotti, ma anche specchio passivo del nichilismo sistemico insito nel predominio della forma di merce assicurato dalla libera strutturazione di poteri economici invasivi e onnipresenti. È male sociale la necessità del progresso materiale generata dal meccanismo concorrenziale e interiorizzata come lineare e ovvia. È male sociale la mercificazione della salute, dell’aria, della terra, dell’acqua e d’ogni bene vitale. È male sociale, in quanto in parte alimentata da strutture sistemiche fondate sulla merce e sulla valorizzazione quantitativa, la stessa riduzione a consumo rapido delle relazioni umane, d’amicizia e di amore. È male sociale la proprietà privata capitalistica, nemico strutturale della proprietà personale e insieme della proprietà comune. È male sociale l’emersione della mentalità utilitarista le cui radici sono senz’altro culturali e dunque legate a precise scelte libere di singoli uomini pensanti, ma il cui rafforzamento è sicuramente incrementato dal movimento strutturale economico nella sua imponderabile stratificazione. E gli esempi potrebbero continuare a centinaia…. Il punto, d’altro canto, è questo: che il male sociale è tale in quanto male subdolo che trova una propria giustificazione in strutture stratificate che possono essere colpite soltanto se si giunge alla radice della stratificazione. È male sociale supremo, infatti, proprio la stessa naturalizzazione ideologica delle leggi sociali scambiate per leggi naturali e ritenute immodificabili; ed è male sociale supremo complementare e speculare la negazione dell’esistenza di una dimensione sociale distinta dalla dimensione personale e la catastrofica confusione tra esercizio virtuoso del proprio potere morale nell’ intorno affettivo e necessità di azione politica etica trasformatrice sul piano strutturale. Si tratta dei due mali sociali supremi in quanto doppia causa dell’oscuramento del male sociale stesso come dimensione distinta sia dalle forze meccaniche della natura, sia dalla semplice moralità del singolo uomo in quanto agente non politico

La scomparsa della categoria di male sociale nella società contemporanea

Nelle società capitalistiche contemporanee, caratterizzate dalla progressiva distruzione del tiepido compromesso politico tra interesse economico assoluto e considerazioni di ordine sociale solidaristiche, l’economia come sfera di libero esercizio dell’interesse privato ha preso il sopravvento totale su ogni aspetto sociale della vita collettiva. Anni di ideologia neo-liberale hanno cementato culturalmente lo status quo di dominio assoluto di potentati economici e finanziari insofferenti nei confronti delle vecchie classi politiche keynesiano-assistenzialistiche e desiderosi di una nuova politica che facesse del cedimento continuo alle pressioni del libero mercato (leggasi potentissimi e ingordi interessi dominanti) un’azione costante. Attualmente la crisi economica che stiamo vivendo segna il declino parziale dell’idea folle e perniciosa dell’autoregolazione del mercato generatrice di benessere e progresso per tutti, idea che oltre ad essere un’aberrazione concettuale e morale, non è stata altro che la copertura ideologica di un saccheggio senza precedenti delle risorse economiche dei lavoratori e dei ceti sociali più deboli e del patrimonio di ricchezza pubblica delle nazioni. Non credo che tale crisi abbia la potenzialità di mettere in discussione l’ideologia dominante, dal momento che il massimo risultato auspicabile è uno scossone alle versioni fanatiche del neoliberalismo ideologico, in nome di un continuativo progetto di mercificazione a maggior guida statale non necessariamente più solidaristico (quello che Emiliano Brancaccio ha chiamato correttamente liberismo di Stato e che potrebbe essere alternativamente chiamato keynesismo di rapina). Al momento non sembra che vi siano i margini neanche per un ritorno ad una politica del compromesso tra economia onnipotente e argine politico-sociale. Troppo forte è l’assorbimento ideologico di tutti gli strati e le classi della popolazione entro il paradigma dell’immodificabilità del sistema e dunque troppo deboli i rapporti di forza nel loro potenziale bilanciamento.           Il cuore dell’ideologia dominante che impedisce il risveglio delle persone di fronte alla brutalità disgustosa del sistema, sta proprio nella credenza nella sostanziale immodificabilità (salvo accorgimenti ex-post) del mercato e dell’economia interpretate come sfere naturali, i cui mali evidenti vengono o derubricati come inevitabile scotto da pagare del sistema liberal-capitalistico (che garantirebbe in compenso la libertà personale); o attribuiti alla cupidigia di specifiche personalità (capri espiatori di turno) o alla corruzione clientelare peculiare di specifici settori sociali definiti caste (un termine molto alla moda tra i più inesatti e confusionari degli ultimi secoli). Il vero e principale male sociale, cioè l’economia -crematistica illimitata, viene così reso invisibile dall’azione congiunta dello scientismo e dell’intimismo. Vediamo, nell’ordine, i caratteri peculiari di queste due tendenze.

L’inversione del male sociale e del male naturale. Culto della scienza e naturalizzazione della società.

L’idea che si impone nelle società capitalistiche di mercato a cultura liberale assoluta, è che la società sia assimilabile alla natura con le sue leggi meccaniche immodificabili o al limite modificabili con tiepidi correttivi (come un fiume di cui è possibile deviare il corso, ma che non può essere fermato). Allo stesso tempo, la natura vera e propria viene alterata e resa oggetto di idolatria progressista, ovvero se ne pretende il forsennato e continuo superamento. La natura viene vista come entità manipolabile all’infinito sotto la spinta della paura del limite, della morte e della sofferenza. Paura che non è sano e naturale timore umano, ma vera e propria ossessione collettiva compensata da fenomeni pervasivi quali il salutismo forsennato o la non accettazione della vecchiaia e della decomposizione del corpo. E tanto più il culto della scienza e della medicina redentrice ci illude di poter mettere da parte la cruda realtà della morte, tanto più paradossalmente la cura medica si disumanizza, si privatizza, si mercifica, si sottomette allo strapotere delle multinazionali dei farmaci e dei brevetti; e il malato diventa un costo sociale di una sanità ridotta ad attività aziendale con tanto di declamazione sui deficit strutturali (come se i malati dovessero produrre un profitto e delle entrate). La morte stessa diviene un tabù quando ci tocca da troppo vicino, un oggetto indicibile, fonte di angoscia e di incomunicabilità, qualcosa a cui è meglio non pensare per non rendere la vita impossibile di essere vissuta; una spada di Damocle su cui si è indotti a non riflettere convinti di poter rimandare all’infinito la resa dei conti con la propria esistenza vivendo in un eterno presente incosciente; allo stesso tempo la morte violenta, quella causata dalle guerre e dalle perversioni sociali viene ostentata e normalizzata come elemento costitutivo dello status quo. La morte, nella società che smette di accettare i propri limiti, diviene oggetto di accanimento, di speculazione e di morbosità esorcizzante. Tanto temuta in forme represse, da essere rappresentata oscenamente e impropriamente in improbabili quadri o opere d’arte contemporanee caratterizzate dall’esaltazione del brutto, del vuoto e della perversione gratuita. La cultura contemporanea produce così i due fenomeni interrelati dell’idolatria della scienza (che ha sostituito la deleteria ma meno pericolosa idolatria della storia) e della naturalizzazione della società. Proprio mentre si pretende l’ossessiva manipolazione della natura reale, contestualmente il libero mercato diviene la rappresentazione figurata di una natura che non può essere cambiata in quanto sorretta da leggi meccaniche fuori controllo, Perdere il posto di lavoro, chiudere un’azienda, delocalizzare la produzione in altri paesi, dover sottostare alla competizione internazionale e interna o al giudizio dei mercati finanziari, divengono necessità ineludibili, sfide della modernità e fonti di progresso e persino di pseudo-solidarietà cosmopolita. La stessa guerra imperialista diviene “una necessità espansiva dell’occidente democratico verso le aree incivili del mondo” o un prezzo da pagare per limitare l’azione dei “barbari” e dei “tiranni” in nome di naturali e scontati diritti umani assoluti. La società diventa natura. E la natura diventa oggetto di arbitrio illimitato. Mentre la società sembra immodificabile ed il male sociale intaccabile, contemporaneamente l’uomo aspira a superare sé stesso, la propria natura ed i propri limiti perseguendo attraverso la scienza l’unico progresso reale che gli appare possibile nella desolazione nichilistica che lo pervade. L’inversione tra società e natura è completata e con essa lo svuotamento dell’uomo come essere spirituale e comunitario, reso schiavo dell’ossessione del superamento dei propri limiti naturali. Il mito del progresso diviene la consolazione compensativa del nichilismo sociale. La rivoluzione viene delegata alla scienza, passa dalle mani dell’uomo alle mani della tecnologia stupefacente. La rete informatica globalizzata diviene la nuova frontiera del futuro della democrazia sociale e partecipativa.                  La democrazia dei consumatori transnazionalizzati dotati di potere lobbistico informatico sostituisce la democrazia degli uomini dotati di potere politico sovrano. La scienza, nella realtà sempre più avulsa dai suoi nobilissimi fini sociali (presi sempre meno in considerazione), resta un riferimento di fede sostitutivo sia della fede trascendente (Dio) che della fede immanente (l’uomo e la comunità), ovvero diviene un surrogato orribile delle due fedi che interpretate in senso unificato rappresentano entrambe (al di là della polemica sterile tra religiosi e non religiosi) una manifestazione di amore e di solidarismo ideale rispetto all’uomo ed al suo destino.

L’iper-personalismo e l’oscuramento della dimensione comunitaria autonoma

Mentre l’inversione di società e natura colpisce a morte la dimensione sociale come campo d’indagine e riflessione attraverso la naturalizzazione dei meccanismi sociali, l’iper-personalismo agisce sul lato opposto, attraverso un’arbitraria fusione ideale tra relazioni interpersonali e relazioni sociali, ciò che potremmo definire un’intimizzazione della società, cioè la riduzione della società alla sommatoria delle intimità delle persone. L’iper-personalismo è anche una concezione reattiva, e in un certo senso comprensibile, alla visione iper-sociale del mondo. Una visione, quest’ultima, che ha reso parte della critica sociale (degna della più grande stima) che ha segnato il diciannovesimo e il ventesimo secolo in occidente particolarmente fragile e spesso priva di fondamenti radicati in una concezione stabile e complessiva dell’uomo e della sua natura specifica. Visione di cui è responsabile anche il marxismo e, in misura diversa, lo stesso pensiero di Marx, nel suo slancio messianico astratto, nel suo universalismo generico e nella sua furia del dileguare dissolutiva della particolarità e distruttiva della mediazione istituzionale tra sfere. L’iper-personalismo, tuttavia, non é affatto il sano ed equilibrato ripristino della centralità dell’uomo in tutte le sue specificazioni e dimensioni relazionali, ma è la sciagurata e squilibrata negazione di una sfera sociale che non sia semplicemente residuale, degna di essere interpretata e, se è il caso, modificata con i mezzi idonei, in conformità alla natura umana. L’iper-personalismo teme a tal punto il rischio di annullamento della persona nell’iper-socialità onnicomprensiva e astratta che finisce per negare la stessa sacralità della politica come sfera di esercizio effettivo del bene e della virtù, senza capire affatto, in tal modo, che la stessa volontà e la stessa personalità umana si esplicano anche nell’interpretazione sistematica del reale e nella conseguente azione etico-politica. Si tratta di una visione del mondo del tutto conforme allo spirito della liberaldemocrazia capitalistica e del capitalismo come modo di produzione anarchico privo di un piano politico e sociale meditato. Se è infatti sempre e comunque la persona in sé ad essere intimamente connessa ad ogni piano del reale senza che si riconosca la mediazione politica come luogo etico effettivo, è chiaro che è la stessa persona come tale a dover agire al di fuori della politica e della decisione (intesi come spazi realmente sovrani), in qualità di mero individuo destrutturato, proponendo al mondo, nel caos delle opinioni più variegate, la propria morale di agente economico e civile libero e autodeterminato. Ne consegue il culto del volontarismo, dell’associazionismo dal basso, della buona iniziativa individuale, della dedizione al lavoro come missione in sé al di fuori delle sue determinazioni sociali. Cose che, se viste in sé stesse delineano comportamenti virtuosi, ma che risultano indebolite impietosamente e inguaribilmente strumentalizzabili, una volta poste al di fuori di una complessiva visione sistematica della realtà umana in tutte le sue dimensioni. L’iper-personalismo abbraccia l’idea che l’economia anomica possa essere modificata nei suoi esiti immorali e disumani da atti interni alla stessa economia anomica. Mentre, ad esempio, si ammirano (a ragione) forme volontarie di solidarismo all’interno del sistema economico, allo stesso tempo si appoggia politicamente un sistema che favorisce strutturalmente la competitività esasperata nella produzione. Oppure, mentre si apprezza l’imprenditore che paga buoni salari ai propri lavoratori, allo stesso tempo si appoggia politicamente l’esistenza di un sistema che rende possibile e incentiva, di fatto, lo sfruttamento più brutale del lavoro.                                                            Tutto questo avviene perché, ignorando totalmente l’aspetto strutturale del male sociale, si ritiene possibile che i cambiamenti avvengano tramite la semplice sommatoria delle scelte buone interne alla stessa anarchia economica. Si ritiene possibile vincere l’anarchia sociale dissolutiva con dosi di anarchia riaggregativa, laddove il problema è esattamente l’esistenza stessa della forma anarco-oligarchica come modo sociale di gestire il bene comune, la produzione e ogni altro aspetto della vita associata. La politica sovrana è sostituita così dalla morale auspicabile dell’imprenditore buono; la legge etica è sostituita dalla filantropia dei miliardari; lo Stato (inteso come comunità politica) con il suo portato etico e comunitario potenziale è sostituito dalle associazioni umanitarie e dalle organizzazioni non governative benefattrici; la sfera politica viene al massimo interpretata, conformemente alla concezione liberale di matrice anglosassone, come luogo di contrasto tra gruppi di interesse particolari tendenzialmente de-ideologizzati (gruppo di interesse degli ecologisti, dei pensionati, degli omosessuali, dei pacifisti, dei banchieri, dei sionisti, dell’industria farmaceutica, dell’industria armamentistica, delle donne, dei neri, degli immigrati…. e via dicendo).     Da un lato, la politica é interpretata come mero incontro di interessi lobbistici in concorrenza tra loro; dall’altro, nella sfera cosiddetta civile, la fiducia viene riposta nel volontariato materiale, come azione sociale di diretta emanazione personale del tutto a-sistematica ed alienata. Il volontariato generico materiale è un tipico esempio di solidarismo fecondo, ma prosciugato nel suo potenziale senso profondo dalla confusione di piani in cui è esercitato. Si ritiene possibile incidere beneficamente sui mali sociali attraverso l’azione volontaria dal basso versando magari fondi materiali in aiuto dei poveri, dei diseredati e dei sofferenti del mondo, decontestualizzando del tutto quelli che sono mali integralmente sociali, generati da strutture determinate, affrontabili solo attraverso l’azione etico-politica. Questo produce una pericolosa scissione del piano affettivo e di quello politico, penalizzandoli entrambi tramite sovrapposizioni del tutto arbitrarie e confuse. Vediamo meglio di che si tratta con un esempio. Il debole e il sofferente hanno bisogno sia di risorse materiali che di affetto. È evidente che l’affetto, inteso come vicinanza personale, può essere portato soltanto dalla relazione umana interpersonale, dalla dedizione all’altro e dalla cura del prossimo, dimensione in cui la società in quanto comunità politica sovrana è implicata soltanto molto indirettamente (pur non essendone affatto estranea), ed in cui è invece implicato direttamente il singolo sul piano affettivo della conoscenza intima e della cura. Al contrario, un problema materiale di ordine sociale, così come ogni altro problema etico di carattere strutturale (non solo materiale), implica l’azione diretta della comunità, laddove l’azione personale è soltanto indiretta e passante appunto per la mediazione necessaria della comunità politica. La scelta di sostegno materiale al povero non può che essere una scelta etica di carattere integralmente politico-sistemico, sia che passi per forme redistributive, o, molto meglio, per l’eliminazione delle cause stesse scatenanti la povertà. La scelta di vicinanza affettiva all’uomo solo e bisognoso è invece una scelta etica di carattere integralmente personale dove la carità può realmente trovare uno spazio reale e non alienato di espressione. Sovrapporre i due piani e confonderli è il tipico frutto di una compensazione emotiva delle persone di fronte alla totale assenza di una comunità politica reale fondata sul criterio del bene comune e della giustizia. In assenza di tale comunità politica sovrana e totale, i singoli ricreano condizioni di solidarietà anche puramente materiale a partire da atti atomistici spontanei alienati e confusi, per quanto generosi (elemosina, aiuti materiali spontanei, finanziamento di associazioni umanitarie, volontariato materiale che prescinde dal rapporto personale etc etc). Significa questo che è necessario delegittimare l’elemosina e l’aiuto materiale atomizzato ai poveri e ai sofferenti? Naturalmente no, anzi mille volte no. Al contrario carità e solidarismo micro-sociale, quand’anche meramente materiali, sono comunque forze gigantesche al servizio dell’altro e potenziali enormi di condivisione, nonché basi morali forti da tutelare e conservare (si pensi al solidarismo spontaneo di massa, come ad esempio nel recente terremoto dell’Aquila). Si tratta, allora, di incanalare tale forza entro una concezione coerente delle diverse dimensioni relazionali, distinguendo la relazione personale da quella sociale e politica, a partire dall’idea che in entrambe le dimensioni vi è alla base una concezione etica dei singoli, ma sapendo che si tratta di due canali comunicativi e relazionali distinti (anche se non separati). Le forze personali immediatamente affettive e caritative, potrebbero essere, così, messe integralmente al servizio dell’altro come persona, nella conoscenza e nella vicinanza reale, affrontando invece il male sociale (che non è casuale, né naturale, né sommatoria delle malvagità dei singoli) nella sua dimensione politica e strutturale, senza pericolosi salti nel vuoto di atti di carità puramente materiali atomizzati e in fondo innaturali e fortemente strumentalizzabili. Dentro una comunità politica strutturalmente solidale è davvero possibile che le forze affettive e le forze solidali agiscano nei loro spazi dovuti, riconoscendo in ogni circostanza i diversi canali più idonei all’esercizio della propria umanità.

Culture politiche contemporanee e concezione iper-personalistica della realtà

L’iper-personalismo, negando la possibile eticità della comunità politica come canale di esercizio della virtù, nella legge e nella decisione pubblica, si limita a riconoscerne un mero ruolo di ordine e garanzia delle libertà personali intese in senso a-comunitario, oppure delega, al massimo, alla dimensione collettiva la regolazione selettiva di alcuni aspetti molto limitati del vivere comune (l’eccesso di disparità economiche per la sinistra e l’eccesso di libertà nei comportamenti personali per la destra). In tal senso l’iper-personalismo é del tutto compatibile con l’ordine capitalistico e con le basi della filosofia liberale. Nella contemporaneità sono molteplici le culture politiche che contribuiscono a rafforzare la concezione iper-personalistica che schiaccia la dignità della comunità come sfera sistemica di indagine autonoma, tutte accomunate dall’accettazione dei paradigmi fondamentali del liberalismo, vero centro gravitazionale del pensiero politico odierno occidentale (indifferentemente di destra e di sinistra, cattolico e laico, conservatore e progressista). Pensiamo ad esempio a parte della cultura cattolica, reduce dalla battaglia (sicuramente sensata) contro una certa visione del mondo ipersociale e anti-personale, ma del tutto cieca di fronte al nuovo mostro dell’anomia strutturale. Cultura che, nella sua forte componente liberale dominante, è persuasa di poter portare la propria parola nell’arena libera delle idee compatibili con l’ordine costituito. Una cultura che ha interpretato il suo nemico principale nel comunismo storico senza capire affatto che, parafrasando un’ acuta osservazione di Costanzo Preve, il comunismo storico, ateo per decreto, dispotico e normativo, non poteva essere che un semplice nemico puramente tattico e contingente delle religioni in relazione alla loro concezione dell’uomo; laddove il loro nemico strategico e principale è proprio l’attuale capitalismo assoluto impregnato di cultura anti-sistematica ed anti-veritativa, in sostanza di relativismo culturale e filosofico sotto cui soggiace il fenomeno colossale della privatizzazione integrale dell’etica. Relativismo che non può essere criticato solo moralisticamente, senza cioè prendere di mira anche la sua stessa struttura materiale e metaforica: il mercato capitalistico invasivo d’ogni aspetto della vita. La cultura iper-personalista, nelle sue diverse varianti di destra e di sinistra, conservatrici o progressiste, laiche e cattoliche, converge così nella negazione della comunità come elemento autonomo veritativo ed etico, che non può essere né la sommatoria di singoli individui massimizzanti la propria utilità personale (liberalismo economicistico), né la semplice fusione spontanea di intimità morali post-politiche con l’aggiunta di temi etici collettivi altamente selezionati e parziali (cattolicesimo iper-personalista, pensiero liberal-conservatore), né un luogo neutrale di autodeterminazione svincolata degli individui con mere garanzie sociali collettive e interventismo statale di emergenza (sinistra liberale e in generale galassia ideologica della cosiddetta sinistra).       La comunità è invece luogo di esercizio sovrano dell’etica condivisa in ogni ambito, tramite la buona legge, la decisione, l’assemblea, in un contesto che si struttura e si stratifica divenendo condizionamento tendenzialmente buono ed esemplare per ogni uomo, in tutti gli aspetti della vita associata (contro ogni utopia marxista della società resa incondizionante una volta liberata da ogni catena). Paradossalmente è proprio nel pensiero di Marx, che si trova una delle espressioni più compiute dell’intimizzazione della società pur se procedente da un’analisi iper-sociale dell’uomo. La visione, cioè, di una società che, liberata dalle catene di ogni struttura sistemica condizionante, diviene luogo libero di esercizio della propria libertà cooperativa. Questo, a testimonianza del fatto che l’interpretazione iper-sociale della realtà si esprime in termini paradossalmente molto simili all’interpretazione iper-personalistica, a dispetto dell’apparente asimmetria totale. In entrambe le tendenze vi è infatti l’idea della neutralità della mediazione e dell’azzeramento o comunque della fortissima limitazione della politica come luogo etico esteso ad ogni ambito che lega la particolarità all’universalità. Così come la visione iper-sociale finisce paradossalmente per essere antisociale perché svuota l’uomo come singolo, allo stesso modo l’iper-personalismo finisce per essere anti-personale poiché prefigura una persona svuotata dal proprio complemento naturale, cioè la comunità di appartenenza in tutti i suoi aspetti strutturali. Il pensiero anticapitalistico che ha segnato il secolo ventesimo, dal socialismo al comunismo, meritevole di aver saputo interpretare il male sociale come dimensione reale e non astratta, ha oscillato a mio avviso in maniera continua tra i due estremi complementari dell’intimizzazione della società e della socializzazione della personalità. Dall’utopia marxiana della comunità umana risultante, senza mediazioni politiche, dall’apporto cooperativo di ogni singolo liberato dalle catene delle strutture corrotte, al suo rovesciamento iper-sociale sia interpretativo (cultura politica comunista e socialista nei paesi occidentali) che di governo (comunismo storico realmente esistito, Unione Sovietica, Cina etc etc). Alla base di questo vizio, vi è la difficoltà di pensare l’uomo come equilibrio di sfere distinte e intercomunicanti, né fuse, né separate. E proprio a causa di questo vizio originale, che è un vizio individualistico e insieme collettivistico, il pensiero sociale anti-capitalistico (al di là di ogni suo merito immenso, reale e culturale) si è potuto rapidamente dissolvere, in gran parte, nel giro di pochi decenni, (in maniera quasi grottesca) nei due estremi oggi preponderanti e complementari anch’essi, del culto della scienza sostitutivo del culto della storia e dell’iper-personalismo sostitutivo della visione iper-sociale dell’uomo.

Conclusioni

La vittima del sistema socio-economico e culturale dominante, come detto fin dall’esordio di questo articolo, è la dimensione comunitaria dell’uomo intesa come sfera politica fondata sull’etica. La vittima complementare, d’altra parte, è l’individuo stesso. Se, infatti, si colpisce la comunità e la si annulla nella sommatoria degli individui o delle intimità morali o nel potere tecnologico della scienza lineare e progressiva, si colpisce contemporaneamente anche l’individuo. L’uomo, infatti, è tale in quanto essere personale e comunitario, intimo e politico, e non è possibile nessuna comunità senza persone, così come non sono possibili persone non relazionate. In tal senso la concezione iper-sociale e la concezione iper-personale dell’uomo, sono entrambe contrarie alla stessa natura dell’uomo. Oggi, sepolta la visione iper-sociale nel cimitero degli sconfitti della storia, mentre il coro dell’ideologia dominante innalza bandiere per la scienza e per il fantomatico individuo solitario portatore di diritti e di opinioni (purché compatibili), è necessario comprendere il potenziale disgregativo dell’unità fatale dell’intimismo post-politico e dello scientismo, vera combinazione ideologica alla base della legittimazione dell’ordine capitalistico nella sua fase assoluta segnata dalla fine della mediazione sociale, dall’implosione delle classi come soggetti autocoscienti, e dall’emersione del lavoro flessibile, ricattabile e deterritorializzato. Alla base della generale accettazione passiva del male sociale, c’è proprio l’incapacità totale di coglierne la specifica dimensione. La confusione tra società e persona e tra società e scienza è d’altra parte una vera e propria manna dal cielo per i poteri economici e finanziari più influenti e pervasivi posti alla testa gerarchica delle nostre società anomiche e violente. Nulla è più manipolabile e assoggettabile di popoli e gruppi umani che smettono di riconoscere la propria dimensione comunitaria specifica. Dove ciò non avviene, non a caso, c’è resistenza a tutto campo. Nell’occidente nichilistico, invece, le soluzioni politiche al degrado materiale e morale delle società, vengono, conformemente all’ideologia dominante, pensate esclusivamente come ribellione ad aspetti tutto sommato periferici del meccanismo di riproduzione sociale, incanalando i moti di sdegno collettivo entro i parametri del capitalismo assoluto dissolutivo. La fine della riflessione etica e politica sistematica fa si che le energie sociali e popolari vengano spese in lotte del tutto strumentali ed equivoche come la facile critica del clientelismo, dell’assenza di meritocrazia, della pesantezza burocratica, delle corporazioni professionali, oppure della volgarità e del populismo di personaggi politici surreali come Berlusconi. Tutte lotte condotte da personaggi totalmente interni all’apologia del capitalismo assoluto disumanizzante. La mentalità liberale, base comune delle attuali ideologie più diffuse, ha trovato il suo trionfo, proprio nella capacità di destrutturare il pensiero sociale, riducendo la politica a schema concorrenziale utopistico di individui e gruppi sociali (le cosiddette lobbies) in reciproca competizione economica e politico-culturale tra loro. L’americanizzazione ormai avanzatissima dei sistemi politici europei è il segno tangibile della vittoria schiacciante del paradigma capitalistico di tipo anglosassone, ovvero sia del capitalismo più pericoloso e anomico mai esistito, post-borghese e post-proletario, in cui, per l’individuo solo, il massimo della potenza astratta e relativistica si lega al massimo dell’impotenza concreta di fronte all’indiscutibile potere dei gruppi dominanti.          Un nuovo soggetto politico intenzionato a creare un blocco sociale di sostegno dotato della forza sufficiente ad incidere nel reale, deve ripartire proprio dalla considerazione dell’uomo come essere personale e comunitario, la cui stessa natura è incompatibile con la soggezione permanente e totale al potere disgregativo e falsamente naturalizzato delle leggi crematistiche finalizzate allo sfruttamento e alla dissoluzione.               Solo quando la forza della decisione etica condivisa saprà spezzare tale soggezione all’economia crematistica, sarà possibile che la comunità eserciti il proprio potere sovrano in armonia con gli individui; sarà possibile che la personalità non si confonda e dissolva nella società e sarà possibile che la stessa scienza, oggi specchio dell’illimitatezza a-morale del capitalismo, torni a prendere il suo posto naturale, abbandonando le pretese di spiegare l’uomo e di determinarlo. Il male sociale è oggi oscurato culturalmente da due idee complementari: l’idea che non vi sia altro piano del reale che non sia quello immediatamente personale destrutturato; e l’idea che i meccanismi della società siano sovrapponibili a quelli della natura e che la scienza sia l’unico vero soggetto rivoluzionario portatore di benessere e futuro. Contro questa duplice ideologia dissolutiva dominante, deve emergere un profilo interpretativo, che, senza ricadere nelle polveri di una concezione iper-sociale dell’uomo e della realtà, sappia cogliere la totalità dell’uomo nelle sue distinte e insieme unificate dimensioni.

Note

1) A nulla vale dimostrare che la mente umana non è altro che un insieme di processi biologici, cercando magari di spiegare ogni comportamento con meccanismi fisici di azione e reazione, dal momento che l’interessantissimo studio della struttura fisiologica antropica non intacca minimamente la specificità spirituale dell’uomo

2) Si veda in particolare nel numero 0 della rivista “Comunismo e Comunità”, il mio articolo “Comunismo e comunità: uomo e comunità nella dialettica tra intimo e comune”

3) Non entro in questa sede nella difficile disquisizione sull’effettività del dominio cosciente nel compiere azioni malvagie da parte degli individui. Se, cioè, un uomo che commette azioni malvagie apparentemente ben visibili ed a lui prossime, sia realmente cosciente del male che compie, o se il commetterle sia frutto di “ignoranza” (nel senso socratico) di ciò che si fa. La conclusione a questo dilemma è qui del tutto ininfluente ai fini della distinzione che propongo tra azioni inter-personali e azioni sociali sistemiche. Nell’affermare che per le prime ogni individuo ha il pieno dominio del significato e delle conseguenze, infatti, non è fondamentale, a questo livello dell’analisi, sapere se tale dominio corrisponda a coscienza reale o sia piuttosto un dominio apparente che cela ignoranza del male (si entrerebbe in tutt’altra problematica altrettanto interessante, ma diversa).

4) Si tratta, a mio avviso, di uno dei punti di analisi più interessanti nell’interpretazione della dissoluzione del comunismo storico novecentesco sovietico e cinese.

Comunismo e Comunità – Maggio-Giugno 2009

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