Le tecnologie dell’industria 4.0 e l’assorbimento del lavoro improduttivo

set 27th, 2020 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

la quarta rivoluzione industriale iniziata 8 638

 

Le tecnologie dell’industria 4.0 e l’assorbimento del lavoro improduttivo

di Barbara Ambrogio*

 

Industria 4.0, Smart factoryAdvanced manufacturing, Internet industriale, sono tutti sinonimi per descrivere il modello produttivo che poggia sull’integrazione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale nei sistemi di automazione dei processi produttivi di merci e servizi. Può essere definita come parte del processo di approfondimento dell’automazione industriale attraverso le tecnologie digitali.

Nel dibattito politico e accademico viene per lo più presentata come uno sviluppo autopoietico delle trasformazioni tecnologiche, progresso ineluttabile e sostanzialmente positivo, rispetto al quale i sistemi politici possono intervenire a posteriori per raccogliere il massimo dei vantaggi possibili. In questo modo si tralascia di affrontare i conflitti sottesi a questa ondata di innovazione tecnologica, e le tensioni che l’hanno stimolata.Dall’analisi preliminare di una mole di informazioni sulle modalità di funzionamento delle tecnologie dell’industria 4.0, emerge l’ipotesi che i costi del lavoro improduttivo sono quelli su cui si prova a intervenire in modo sostanziale verso una loro riduzione e sostituzione. Si tratta di una problematica assente nella letteratura politica e scientifica.

L’impatto di tali tecnologie sul lavoro improduttivo può essere colto ai tre livelli in cui nel capitalismo si sono storicamente configurate le relazioni tra attività produttive e non produttive di valore: l’organizzazione del processo produttivo industriale, il settore terziario e le supply chains.

 

Evidenze empiriche

Nella produzione industriale è la logistica tra i primi settori, cronologicamente, in cui le tecnologie 4.0 hanno davvero fatto la differenza. La movimentazione delle merci con gli strumenti di tracciamento, come i sensori RFID, assieme a software che indicano la distribuzione dei carichi di lavoro per ciascun lavoratore, definiscono al secondo i tempi di consegna necessari, con una saturazione dei tempi impensabile qualche decennio fa, tenendo conto, grazie ad esempio alla geolocalizzazione e ad algoritmi di apprendimento automatico che, dopo poche volte che viene seguito un percorso, rilevano e memorizzano la presenza di semafori, passaggi al livello, interruzioni originariamente non segnate sulla mappa.

Ma più evidente è probabilmente l’assorbimento di alcune operazioni interne alle fabbriche: i compiti di monitoraggio, la gestione degli ordini effettuati, da effettuare e quelli evasi, la manutenzione degli strumenti e tutti quelli che possono essere racchiusi sotto l’insieme dei “colletti bianchi”. E questo avviene su due fronti.

Da un lato attraverso la sostituzione vera e propria, in tutto o in parte, con i CPS, le tecnologie dell’IoT in generale e i software industriali, grazie ai quali le macchine eseguono automaticamente e autonomamente compiti come la manutenzione, l’ordine e la movimentazione dei materiali, il controllo qualità e la gestione dei tempi e dei carichi di lavoro. O anche mediante piattaforme digitali che forniscono tutta una serie di servizi a costi di gran lunga inferiori, come la consulenza finanziaria, la formazione del personale, l’e-commerce, i servizi postvendita e le comunicazioni con le aziende che compongono gli altri segmenti del ciclo di produzione di una merce.

L’altro fronte attraverso il quale le tecnologie dell’industria 4.0 favoriscono la riduzione dell’onere del lavoro improduttivo consiste nello spostare il carico delle attività sui lavoratori che stanno sulla linea di montaggio. I robot industriali sono dotati di pc applicati alla macchina, tablet a essa connessi e/o pannelli di controllo che attribuiscono a chi li utilizza una serie di incarichi – controllo qualità, compilazione di fogli di produzione e altri compiti burocratici, manutenzione ecc. – che prima erano di competenza di figure specifiche. I robot collaborativi, e in generale gran parte dei sistemi riconfigurabili – oltre ad adeguare la produzione alle variazioni dalle condizioni di partenza grazie alle proprietà di customizzazione, convertibilità, integrabilità, e così via – danno il vantaggio di poter essere riconfigurati facilmente dagli stessi operai a posteriori, senza quindi il bisogno di ingegneri o tecnici specifici, siano essi in organico o esterni all’azienda.

Ancora, è possibile “remotizzare” diverse attività, operazione che, alla luce di uno studio effettuato sullo smart working per l’anno 2019 dal Politecnico di Milano, riportato in un seminario sull’Industrial smart working da MADE, centro di competenze tecniche e manageriali, offre notevoli vantaggi alle aziende in termini di aumento della produttività (stimato al 15%), riduzione dell’assenteismo (-20%), maggiore coinvolgimento dei lavoratori, che viene accostato a miglioramento dei prodotti, stimolo all’innovazione e incremento delle competenze digitali dei “collaboratori”, condivisione delle informazioni e ottimizzazione degli spazi, grazie alla quale vengono ridotti in modo significativo i costi di gestione.

Questa strategia è applicabile in maniera ancora più diffusa nelle aziende del settore terziario, in cui le piattaforme e le tecnologie ICT “la fanno da padrone”. Sono innumerevoli le società che fanno uso di piattaforme e intelligenza artificiale per erogare servizi, che sono stati autonomizzati con l’esternalizzazione. Si sta parlando di Robo Advisors, consulenti finanziari digitali, che in modo automatizzato selezionano ed elaborano la strategia d’investimento più opportuna in base agli obiettivi e ai profili di rischio dei clienti. O anche di Vera, robot-recruiter, che con l’intelligenza artificiale può eseguire colloqui e selezionare i canditati, o di CARE, una delle funzioni della piattaforma UtilityAI™ di Bidgely destinata ai call center delle imprese elettriche che sta determinando una riduzione dei tempi medi di gestione delle chiamate permettendo contestualmente agli addetti al servizio di assistenza di proporre piani personalizzati.

La logistica esterna evidenzia un’altra, importante, funzione delle tecnologie 4.0 al livello delle supply chains, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione e le transizioni economiche tra imprese. Sono eloquenti le necessità soprattutto tra aziende degli stessi gruppi, di uniformare i linguaggi informatici e di utilizzare strumenti come il cloud e le blockchain. Nel primo caso si tratta di un insieme di risorse di calcolo, server e applicazioni che forniscono servizi computazionali, di gestione e archiviazione. La piattaforma di cloud computing, Gaia-X, lanciata dalla Germania e dalla Francia, è destinata a garantire la custodia e la gestione di dati in Europa, al fine di realizzare una maggiore autonomia dai colossi della Silicon Valley, risparmiando sui costi e avere il controllo amministrativo e legale sui dati. La blockchain invece è un contenitore virtuale, che traccia e registra transizioni, asset, informazioni ecc., assorbendo una grande quantità di funzioni improduttive attinenti i rapporti tra i soggetti economici coinvolti nelle supply chains.

 

Inquadramento teorico

La dinamica secolare di innovazione tecnologica e scientifizzazione del processo produttivo indirizzata all’aumento dell’intensità e della produttività del lavoro comporta una quota crescente di capitale costante che viene messo in moto con sempre meno quantità di lavoro vivo e quindi produce sempre meno valore. L’innovazione tecnologica è un’arma a doppio taglio per il capitale, da un lato aumenta il tasso di sfruttamento del lavoro, ma così facendo riduce la quota di lavoro vivo che produce valore. Sicché, ogni singolo processo di valorizzazione è meno produttivo di valore nonostante la maggiore produttività dei mezzi produttivi.

Il finanziamento della produzione e riproduzione del capitale tramite il credito può funzionare in maniera coerente fino a che la produzione reale è sufficiente a pagare il valore anticipato e gli interessi sui crediti. Ma la saturazione dei mercati e l’esaurimento dello spazio globale verso il quale potersi espandere rendono il costo del capitale fisso in relazione alla reale produzione di valore, la quota di lavoro improduttivo e il numero crescente di imprese fantasma, un onere che non è più possibile compensare, come era accaduto invece durante il fordismo. E ciò, data l’estensione cui si è giunti comporta la crescente difficoltà di far ripartire ogni volta ciascun ciclo di produzione e accumulazione a fronte del progressivo aumento su scala globale dell’intensità di capitale.

Costi preliminari sempre più alti significano masse di denaro creditizio per mantenere in moto la produzione, sicché ad oggi la produzione reale di merci non solo è fonte marginale di profitti, ma è sempre più dipendente dal capitale produttivo di interesse. L’aumento dell’intensità di capitale e della scientifizzazione del processo produttivo richiede masse crescenti di denaro a credito per avviare e sostenere la produzione capitalistica. Il punto è che il denaro è capitale laddove rappresenta lavoro che si oggettiva nella produzione di valore.

Il lavoro improduttivo fa parte e approfondisce questa dinamica contraddittoria, premendo verso una soglia critica, risultando allo stesso tempo costo necessario e via via insostenibile, onere insopportabile per il capitalismo complessivo. Necessario, perché lo sviluppo delle forze produttive richiede tutta una serie di infrastrutture, materiali e non, che consentono che il flusso di capitale, nelle sue varie forme, possa seguire nella maniera più rapida e “indisturbata” possibile. Dai customer service alla logistica, dalla viabilità all’amministrazione pubblica, dal sistema scolastico a quello sanitario, l’intrattenimento, la consulenza finanziaria, il sistema giudiziario e così via, sono tutti settori imprescindibili nel capitalismo e quanto più la produzione è estesa, quanto maggiore è l’intensità del capitale, tanto più è fondamentale sviluppare i suddetti settori, applicare a essi la scientifizzazione e la razionalizzazione del processo produttivo.

Ciò comporta che quote sempre maggiori di capitale produttivo di interesse vengono impiegate per consentire l’erogazione di tali servizi e il consumo improduttivo di merci, tanto nella forma di capitale prestato a imprese che utilizzano lavoro improduttivo, tanto come debito pubblico impiegato per il welfare, la costruzione di infrastrutture ecc., tanto come consumo a credito, sia esso consumo di lavoratori improduttivi o denaro impiegato da lavoratori produttivi per pagare lavori improduttivi.

Nella riproduzione complessiva ai costi del credito per la produzione industriale, si aggiungono quelli del lavoro improduttivo, di modo che il saggio complessivo di profitto viene in un certo senso schiacciato, mentre gli Stati o aumentano la pressione tributaria o fanno essi stesso ricorso al credito.

La sproporzione tra i due fattori mina la riproduzione del sistema capitalistico, dal momento che quanto maggiore è il lavoro improduttivo rispetto a quello produttivo, tanto meno valore viene prodotto e può essere impiegato per far ripartire il ciclo. E l’espansione del lavoro produttivo, che ha visto uno slancio vertiginoso col fordismo, ha certamente aperto nuovi campi nella produzione reale, ma ha anche richiesto l’espansione delle “spese generali”, di lavoro improduttivo.

Questo squilibrio ha retto per un po’ grazie a una serie di sistemi compensativi dal deficit spending keynesiano all’espansione permanente dei mercati, sia verso l’interno, con l’aggiunta di nuovi mercati e prodotti, e strumenti di stimolo al consumo ecc., che verso l’esterno, inglobando nella produzione capitalistica regioni del mondo che fino ad allora erano state coinvolte solo in maniera marginale.

L’esaurimento di questi strumenti compensativi si è accompagnata con la fine degli anni Settanta alla rivoluzione microelettronica, con l’emergere di tutta una serie di tecnologie, l’informatica, la cibernetica e così via, che da un lato hanno reso sempre più “globali” le catene produttive, dall’altro hanno alzato i costi di produzione senza garantire maggiori profitti e hanno dato il “colpo di grazia” all’allargamento del lavoro produttivo.

Fare una distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo dà contezza di quanto possano essere rilevanti le trasformazioni messe in atto dall’introduzione delle tecnologie 4.0. La questione sta nel fatto che alle spalle dell’industria 4.0, ci sono decenni di caduta a picco della produzione reale di valore. A partire dagli anni Ottanta la crisi del fordismo si è nascosta dietro la creazione di gigantesche bolle di “capitale fittizio” rispetto alle quali la produzione reale è sempre meno significante.

Tra le condizioni dello scollamento tra la rappresentazione e la reale sostanza del valore, il lavoro, vi è l’aumento della composizione organica del capitale e la quota crescente di lavoro improduttivo, che premono sulla produzione reale e allo stesso tempo movimentano quantità sempre maggiori di capitale monetario che ormai ha “vita” e riproduzione autonoma dalla produzione di valore reale.

Tenendo poi conto delle situazioni particolari in cui questa dinamica si è evoluta storicamente nell’ultimo mezzo secolo – tanto dal punto di vista della configurazione degli Stati e delle forme commerciali globali, che in merito agli strumenti materiali ed economici creati e messi a disposizione, quindi ad esempio la microelettronica e gli strumenti finanziari creati negli ultimi decenni – l’industria 4.0 assume caratteri meno “mistici” e si mostra, guardando all’innovazione tecnologica, come una sorta di aggiustamento di tecnologie costose più che produttive, e come tentativo, difficile dire se e quanto consapevole, di ridurre la quota e i costi del lavoro improduttivo.

La capacità delle tecnologie dell’industria 4.0 di eseguire lavoro cognitivo, di controllo e problem solving consente di eliminare una grossa fetta di lavoratori improduttivi nella produzione, industriale e non. Dal personale incaricato al reclutamento e alla gestione delle risorse umane, a quello che definisce gli obiettivi giornalieri per ogni fase e per ciascun dipendente, fino ai già citati Robo Advisors, gli algoritmi sembrano la risposta più efficace per sostituire lavori costosi e che non producono plusvalore.

Ciò ha un duplice effetto: da un lato, grazie anche alla maggiore facilità e varietà con cui può essere customizzato il prodotto, ai rapporti che vengono istaurati lungo la filiera in materia di gestione degli ordini e dei materiali, che sostanzialmente riduce al minimo la possibilità che vengano ordinati pezzi inutili, sbagliati o in eccesso, è teoricamente difficile che le merci prodotte rimangano invendute, quindi che il lavoro produttivo oggettivato in esse sia, alla fine del ciclo, improduttivo.

Tuttavia, ripercorrendo il ragionamento per cui lavoro produttivo “è” improduttivo se svolto a livelli di produttività inferiori allo standard sociale, posto che quest’ultimo non rispecchia la media, ma il livello di produttività migliore, quello più alto, avviene che la rapidità con cui il processo può essere migliorato in termini di efficienza, i costi bassi o nulli che il perfezionamento comporta e la frequenza con il quale può essere applicato, tutto ciò rende qualunque lavoro potenzialmente improduttivo. Dal momento in cui, ad esempio, il gemello digitale di una data “isola” industriale suggerisce che una determinata funzione sia più conveniente se eseguita con una procedura più efficiente, attuabile immediatamente modificando rapidamente una impostazione del cobot e la tempistica estremamente breve entro la quale si possono compiere questi aggiustamenti fanno sì che un lavoratore oggi produttivo è probabile che già domani non lo sia più.

 

Considerazioni conclusive

In conclusione, è vero che le tecnologie 4.0 consentono alle imprese di risparmiare i costi delle spese generali, che non vengono sostenuti né direttamente né da aziende terze. Oppure le imprese cui viene esternalizzato il servizio possono erogarlo a un costo di gran lunga inferiore – si pensi ancora una volta ai Robo Advisor o alle piattaforme di e-commerce. Ma così facendo, se da un lato il lavoro improduttivo viene ridotto, sia per la singola impresa che per il capitale in assoluto, dall’altro, ancora una volta, il capitale costante aumenta a fronte di un capitale variabile pari o minore.

In altri termini, se il lavoro improduttivo autonomizzato in imprese apposite, che forniscono servizi, costituisce una sottrazione dal plusvalore complessivo, l’attribuzione di questo lavoro a macchine più o meno autonome crea una dinamica ambigua, nella riduzione del consumo improduttivo, che costituisce un onere per la riproduzione in generale del capitale, e nell’aumento del capitale costante, della composizione organica del capitale che richiede un crescente impego di capitale monetario che impiega sempre meno lavoro e produce sempre meno plusvalore.

Ed è ambigua anche perché, se da un lato manifesta il tentativo più o meno consapevole di assorbire lavoro improduttivo, dall’altro è particolarmente efficace nel generarne di nuovo, proprio perché, la capacità predittiva delle tecnologie introdotte, fanno sì che una quota crescente di lavoro produttivo sia eseguito a un livello di produttività inferiore a quello sociale, così da rendere anche lavori produttivi lavori improduttivi.

Fare un bilancio tra lavoro produttivo e improduttivo messo in moto nella produzione dell’industria 4.0, alla luce delle accezioni che possiedono e delle implicazioni materiali che li caratterizzano, può apparire un po’ artificioso. Ma è rivelatorio se si tengono in considerazione il periodo e il contesto di “incubazione” delle tecnologie chiave, lo stato di sviluppo del capitalismo e le categorie analitiche utilizzate nei paragrafi precedenti, che consentono di comprendere il modo in cui le tendenze sistemiche si dispiegano nel momento particolare preso in riferimento, ossia il mondo contemporaneo alle prese con limiti strutturali, rispetto ai quali è difficile pensare a delle soluzioni per rimandare o, meno ancora, risolvere, la crisi in cui il capitalismo si trova.

La questione sta nel fatto che l’aumento dell’intensità del capitale, del tasso di sfruttamento della forza lavoro e della produttività attraverso le innovazioni tecnologiche tendono ad aumentare la componente del capitale che non produce plusvalore e richiedono la crescita di infrastrutture, servizi e operazioni accessorie indispensabili per la riproduzione del capitalismo. L’industria 4.0 da questo punto di vista non costituisce un eccezione, piuttosto approfondisce la prima delle due tendenze, quella dell’aumento del capitale costante, e lo fa in maniera evidente e dirompente, lasciando probabilmente più che nelle passate fasi di innovazione un timore piuttosto fondato della possibilità di sostituzione quasi totale del lavoro umano.

Rispetto alla seconda tendenza, quella del lavoro improduttivo, si intravede un tentativo più o meno volontario di correzione, cioè di assorbire sostituendo o convogliando in numero minore i lavoratori improduttivi ma d’altro canto, la dilatazione spaziale delle catene produttive e la compressione dei tempi, fa sì che questi sforzi risultino nella migliore delle ipotesi nulli.

Il punto è che il grado di sviluppo tecnologico non può retrocedere, e allo stato attuale ciò significa che il lavoro improduttivo non può diminuire, e continua a soffocare il lavoro produttivo di plusvalore, che invece decresce progressivamente.


(*) Barbara Ambrogio (Reggio Calabria, 1996) è laureata in Scienze per la Cooperazione e lo Sviluppo, Università della Calabria, con una tesi dal titolo “Le premesse teoriche e storiche dell’Industria 4.0”. Precedentemente ha conseguito la laurea triennale in Discipline economiche e sociali.

http://www.palermo-grad.com/

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