Circa “Ancora su destra e sinistra” di Andrea Zhok.

nov 25th, 2020 | Di | Categoria: Teoria e critica

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Circa “Ancora su destra e sinistra” di Andrea Zhok.

 

 

“Un uomo giace da tempo in una specie di pozza di fango, la luce è scarsa e rossa, e filtra tra una densa foresta. Sta lentamente soffocando per effetto di un enorme boa che lo avvolge nelle sue spire, senza fretta e progressivamente. Improvvisamente l’attenzione che questo prestava, inutilmente a dir la verità, al boa viene distratta da un evento…. con la coda dell’occhio intravede una massa di muscoli, tendini ed artigli colorata di giallo e nero che si sta precipitando su di lui. È una tigre. Chi è il nemico? Penso si possa dire una cosa di sicuro: abbiamo un gran problema”.

 

Proveremo poi a identificare boa e tigre, e magari anche l’uomo e la foresta, ma prima proviamo a parlare dell’oggetto: Andrea Zhok da tempo riflette in modo radicale e coraggioso sulla società nella quale viviamo ed i vicoli ciechi del suo senso comune e della sua ideologia. Lo ha sempre fatto da un punto di vista specifico, che non nasconde come non lo nascondo io. Lo abbiamo (se pure immeritatamente dal mio lato) fatto insieme. Continueremo a farlo.

 

 

In effetti tutti stiamo compiendo una dolorosa riflessione, che ognuno articola secondo la propria sensibilità ed esperienze. Facendola insieme gli diamo senso.

In “Ancora su destra e sinistra[1], che reca come sottotitolo “riflessioni di un post-comunista”, Andrea produce un’ammirevole sintesi e ricostruzione di quella che è stata l’esperienza ed il pensiero di molti in questi anni. Descrive la traiettoria di un percorso di assunzione di consapevolezza e responsabilità capace di allargare lo sguardo e generare nuove prospettive. Lo descrive così: recuperare il buono di una vetusta e illustre tradizione, quella dei grandi partiti di classe nel novecento italiano, ovvero il nesso interno necessario tra l’identità di popolo e la difesa, esercizio ed estensione della democrazia; un particolare modo di essere comunitari che era di Hegel, ma anche del Marx “migliore”; rivendicare un approccio non relativista anche entro le difficoltà del riferimento (cosa che implica, io credo, in qualche necessaria misura il recupero, anche contro un altro Marx, di una forma di giusnaturalismo e di umanesimo). Recuperarlo anche se questi temi, tutti o alcuni, sono da tempo stati marchiati come “di destra”. Questo percorso è il mio e nostro, su questo sentiero ci siamo incamminati e questo proseguiamo.

Lo abbiamo fatto da quando dalle nostre rispettive provenienze abbiamo subito quel che giustamente Andrea chiama uno “slittamento gestaltico”. Quelle figure che ci apparivano indubbiamente anatre, sono diventate conigli. Quasi improvvisamente molti di noi che qualche esperienza l’avevamo avuta nei partiti della sinistra li abbiamo visti per quel che sono: una versione non particolarmente originale del senso comune liberale o, nella versione radical, del libertarismo postmoderno inevitabilmente individualista.

 

 

Non è necessario, anche se ce lo siamo chiesto a lungo, come sia avvenuto. È stata una lunga storia che ha portato alcuni, i post-comunisti, a rigettare completamente una tradizione (serbandone solo un certo habitus mentale ormai pervertito) ed altri a dichiararsi post-comunisti, ma senza sapere ormai come fare, dato che la sostanza era stata regalata. Sostanza che per Andrea è la prospettiva popolare, collettiva, umanistica, nazionale e internazionale, e, abbastanza necessariamente anche austera e disciplinare. Ci sono, insomma, gli apostati e ci sono gli smarriti.

Di qui partiamo.

Andrea ha citato la dialettica hegeliana ed anche io vorrei fare un esercizio dialettico con il suo testo, ma più antico. Vorrei discuterlo pacatamente, pazientemente, ordinatamente, cercando di stare nel vero, ma soprattutto cercando di formulare qualche altro enunciato e ipotesi entro i termini che il testo (se lo capisco) pone ed accetta. Vorrei cercare insieme. E, naturalmente, cercare una visione generale[2].

 

Nell’articolo è proposto un percorso stilizzato. Ci sono due crisi che determinano lo stato nel quale siamo: la prima è la crisi aperta nel 2007. Nel nostro contesto essa mette in movimento una catena di eventi che aprono gli occhi a molti sulla vera natura del progetto europeo. Non si tratta, come aveva(mo) sperato e creduto, del tentativo di costruire un modello economico diverso ed opposto a quello americano, ma di assorbirlo neutralizzando finalmente la specificità europea[3]. Qui il livello di stilizzazione è invero molto alto, ma abbiamo passato troppi anni a discuterne nei minimi dettagli per non concederlo. Quando lo speravamo e credevamo, con noi molti ed una intera, enorme, letteratura non solo europea, ci illudevamo (ci siamo sempre illusi, anche ben prima del crollo del muro, al riguardo). Ma certo ora non ci crediamo. La natura della Ue è davanti a noi. Né basta a mutare parere qualche balbettio e promessa[4].

La seconda è la crisi del 2020, avviata ed incrudita su solide basi preesistenti dalla sfida pandemica. Andrea ed io rifiutiamo qualsiasi lettura di questa fondata sulla ipersemplificazione e la ricerca del capro espiatorio, o, che è lo stesso, sulla sua mera e semplice negazione. La crisi non è la causa, ma certo l’immane acceleratore di insopportabili ineguaglianze e dissimmetrie, essa induce tensioni colossali nello sfilacciato e anomico corpo della non-società neoliberale. Lascia intravedere il rischio di crollo.

Non già del capitalismo, ma del livello resistente della civiltà del novecento, in particolare europea. La crisi, se produrrà crollo, mi sembra dica Andrea, potrebbe completare il percorso di disgregazione fino al grado zero di ogni azione collettiva razionale, delle sue istituzioni, delle strutture di senso che ancora, abbastanza miracolosamente ed assediate, qui e lì, resistono.

 

Un crollo che non ha positività. Dal quale non verrà alcuna palingenesi.

 

Da questa diagnosi deriva un primo posizionamento. E con esso inizia la mia dialettica.

Tre enunciati, riguardo alla crisi socio-economica nel contesto delle istituzioni europee:

a-      Tutto si sta muovendo e nulla è (ancora) davvero deciso;

b-      Molte (nuove) carte sono disponibili e andrebbero giocate (tutte) senza preclusioni;

c-      È egualmente rischioso se a giocarle sono i pasdaran progressisti o la destra mercatista.

Dei termini posti accolgo che si sta muovendo la situazione, ma non che lo fa “tutto”. Accolgo che nulla è deciso, ma in un senso in parte diverso. Accolgo che molte carte nuove sono disponibili, e accolgo che andrebbero giocate se possibile (ma su un piano che va precisato). Accolgo che è egualmente rischioso se a giocarle sono chiamate questa sinistra che abbiamo tra i piedi (ovvero, è chiaro, il governo in carica) o la destra mercatista che potrebbe subentrarle.

 

Ma rinvio la discussione circa la mia riserva a quando abbiamo completato il percorso dell’articolo.

Interviene la seconda soglia. O il secondo posizionamento, come mi piace definirlo. Per Andrea la crisi Covid non produce solo effetti sul quadro istituzionale o inter-governativo; essa mette davanti ai nostri occhi una sorta di “test naturale”. La violenza degli effetti sulle vite comuni e quotidiane di quasi tutti noi, e l’immane distanza tra gli impatti (a seconda della posizione di ciascuno nel meccanismo produttivo, di inclusione protetta, di inclusione incerta, a tempo e precaria, debole, di semi-esclusione o di completa esternalità[5]), producono uno stress rispetto al quale siamo interrogati. Due temi sono enucleati dall’autore di “Identità della persona e senso dell’esistenza[6], di “Critica della ragione liberale[7], ma anche di “Libertà e natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione[8]:

1)      il dilemma tragico tra salute e libertà;

2)      la scelta tra volontà e ragione.

Nel porre la questione in questo modo è presente, anche se naturalmente non esplicato, un profondo radicamento filosofico. Sono, questi, temi sui quali si è esercitato a lungo e sistematicamente. Questi sono di gran lunga i passaggi più specifici, accurati e interessanti dell’intero articolo.

Il “dilemma tragico” tra la necessità di salvaguardare il valore della vita umana (si noti, non tanto sfidata dal decorso della malattia quando adeguatamente assistita, ma dagli effetti di questa sul sistema di assistenza) e la libertà individuale, o le conseguenze a carico del sistema economico, pone questioni che si stanno facendo chiare. La seconda coppia, quella tra “semplificazione volontaristica” e “complessità raziocinante”, sta emergendo con forza e si intreccia con la prima in modo complesso.

 

È qui che il testo fa una scelta forte. È qui che, se anche accolgo la sostanza del fatto enucleato, vorrei porre una differenza. Andrea legge direttamente politicamente la doppia coppia. E poi cala la distinzione entro il campo di coloro che erano e sono impegnati nella critica all’Europa realmente esistente ed alle culture politiche con essa legate.

Orientarsi nel primo dilemma verso la polarità libertà/economia, svalorizzando (o negando) quella protezione e salute, significa per il nostro direttamente essere sensibile alla tradizione politica della destra neoliberale, o liberale. Mentre restare sintonizzati con la protezione collettiva della vita implica un ancoraggio alle citate tradizioni dei partiti e movimenti della sinistra, ben più sensibili all’attivismo statale. Avere in sospetto la semplificazione volontaristica, e ricercare l’articolazione delle cause rifuggendo colpevoli facilmente identificabili resterebbe connesso con la stessa frattura destra/sinistra.

Ma esiste uno slittamento rilevante: mentre la prima coppia vede all’opposizione un approccio collettivista o statalista contro uno libertario, e quindi si legge secondo la lente della differenza tra le due coste dell’Atlantico; la seconda riverbera posture anti-razionali e anti-intellettualistiche che ricordano la tradizione fascista, restando quindi ben fondata in Italia. Ne deriva che, andando immediatamente a maggiore profondità, la differenza direttamente politica si radica in “tendenze antropologiche e psicologiche” che hanno una ragione storica, a fianco di altre.

 

Insomma, si sono ripresentate le distinzioni destra/sinistra e le posture più radicate di entrambe. Da una parte il “me ne frego!”, dall’altra il suprematismo morale.

 

Ne conseguirebbe che nella piccola comunità (apparentemente) impegnata nella ridislocazione delle tradizionali categorie di destra e sinistra, e nella costruzione di una nuova rotta più utile ad affrontare le tempeste del presente, questo ripresentarsi ha reso visibile un rimosso. La tensione ha lacerato un tessuto evidentemente debole. Andrea sostiene, in primo luogo, che nell’anti-europeismo di alcuni si nascondevano semplicemente tradizionali posizioni filoamericane nutrite di un frontismo che sta tornando per effetto del quadro geopolitico in mutamento. Quindi che il rifiuto dell’esterofilia fino all’autorazzismo di molte posizioni ‘progressiste’ per alcuni era naturalmente in continuità con mero nazionalismo, più o meno razzista. Terzo, che il rifiuto sbandierato del pensiero unico ‘neoliberale’ e della ‘narrazione unica’ mainstream poteva essere motivato sia da un legittimo senso critico come da un “incredibile bestiario di leggende metropolitane, mitologie complottarde e schiette forme di paranoia non diagnosticata in cui compare come unico indice di verità il non comparire nei resoconti mainstream”. Erano fianco a fianco ma ognuno non vedeva realmente l’altro.

 

Una catastrofe, insomma. E, se questo è vero, ne è coinvolta anche l’ipotesi di lavoro, durata anni, secondo la quale la crisi dell’ortodossia liberale, fattasi soffocante ma soprattutto traditrice nei suoi propri termini[9], poteva riattivare le energie della storia e rimettere in gioco visioni alternative in potenza contenute nelle tradizioni di provenienza. Una ipotesi che per Andrea ora bisogna chiamare con il suo nome: una illusione.

La catastrofe mostra in definitiva la profondità del disastro, sia culturale sia umano, provocato dal quarantennio neoliberale. Il sedimento fangoso dei frammenti di senso comune che stanno risalendo, ribollendo, alla superficie. Tutti vogliono semplicemente tornare alla normalità, costi quel che costi agli altri. Si fottano i poveri, gli anziani, i malati, gli ‘improduttivi’, ma anche i ‘garantiti’, gli ‘statali’, quelli che hanno ‘il culo al caldo’. Senza avvedersi di ripetere il mantra andato per quaranta anni a televisioni e talk show uniti, molti, sfidati e turbati dalle conseguenze, stanno reagendo disperatamente con il più classico degli scaricabarili. A tutti ma non a me.

 

Ma c’è anche altro. Si manifesta quello che, in modo molto perspicace, Andrea chiama un “prodotto storico inedito”, precisamente quello in cui:

“l’individualismo libertario neoliberale si allea alla santificazione dell’interesse privato, sfociando nel rifiuto di ogni ricerca dell’obiettività, vissuta come oppressiva. È come se sullo sfondo delle coscienze neoliberali avesse preso oscuramente forma una visione riassumibile così: ‘la ricerca stessa del vero ha una pretesa di universalità e di accordo collettivo, dunque in fondo la verità è una forma di collettivismo che opprime l’individuo’. Ciò che resta, una volta che questa idea ha preso pieno possesso delle coscienze è solo una concezione integralmente strumentale di ogni dato e argomento, che prende vita solo se e nella misura in cui serve a giungere a quella conclusione che privatamente mi fa comodo”.

 

Insomma, i cosiddetti ‘negazionisti’ sono solo una parte uscita allo scoperto di un vasto mondo per il quale l’unica guida alla ragione è ormai il pregiudizio, purché autointeressato.

 

La conclusione è drastica: “tutto o quasi il movimento di liberazione dal quarantennio neoliberale si è mosso all’insegna di una ripresa e adeguazione ai peggiori frutti della stagione neoliberale”. Questo è un primo senso nel quale “il cerchio si chiude”. Ce ne è un altro, e rappresenta un piccolo ma decisivo slittamento: l’irrazionalismo è coltivato dalla destra fascista e neofascista ed è quindi questo che si è saldato con l’individualismo anarcocapitalista che è un necessario componente del “neoliberismo”.

Con questa frattura e questa nuova saldatura abbiamo a questo punto un nuovo terreno nel quale emergono corposi “rischi”, o meglio nel quale si radicalizzano. Il rischio che:

-          criticando l’involuzione della sinistra si dia spazio ad una destra di nuovo conio che, senza saperlo, mischia l’irrazionalismo con il neoliberismo in una miscela tossica ed esplosiva;

-          cercando di contrastare il politicamente corretto “buonista” della sinistra si dia spazio e legittimazione al mero egoismo individuale ed alla dissoluzione di ogni pubblico;

-          criticando la tecnocrazia e lo scientismo si rilegittimino semplicemente le forme più ridicole di irrazionalismo, e l’incompetenza esibita ed orgogliosa.

 

Sono tre rischi reali, naturalmente.

 

Nella logica stringente del discorso, allora, se si giunge al “capolinea” e la tigre sta facendo il suo balzo, bisogna rimettere in piedi le priorità:

-          la sinistra postmoderna e la sinistra liberale restano due avversari,

ma

-          la destra neofascista e quella liberale sono i nemici.

In definitiva, come si vede, alcune formule cadono nel testo e lo indirizzano. Una è questa “illusione”, un’altra è “rischio”, la terza è “si chiude il cerchio”, “l’arrivo al capolinea” ed infine, nella chiusa, la coppia “avversario/nemico”.

 

Ma questa conclusione poggia su una densa stratificazione di presupposti. Alcuni ho già scritto di condividerli, per altri bisogna chiedersi che cosa sia, e se sia, “la tigre”, quale la natura della sua minaccia e cosa “l’uomo”. Del “boa” abbiamo parlato sempre. Cosa sostiene la distinzione tra “avversari” e “nemici”? E di che genere di “nemici” qui si parla? In una risposta che lo stesso Andrea fornisce ad un post[10] di Fabio Falchi, su Facebook, si legge: “Mentre sul piano delle singole persone coinvolte, in un confronto uno a uno, si possono accogliere e discutere e comprendere molte delle istanze e dei problemi di quella piccola e media borghesia, non bisogna dimenticare che di fatto, quando quel gruppo sociale ha vestito i panni della destra fascista e neofascista lo ha fatto diventando il fondamentale alleato ‘popolare’ del grande capitale. Quindi il mio problema non è solo ‘culturale’. È anche schiettamente politico”. Ed è politico in quanto la “tigre” ha effettivamente artigli possenti e volontà (nonché occasione) di usarli. Ciò cambia, ed effettivamente lo fa, interamente la situazione.

Se è in corso un balzo di tigre, è urgente fermarlo. Qui ed ora.

Anche il boa ha la potenzialità di ucciderci, ma non ora. Se il fascismo, in una delle sue forme[11], si ripresenta sulla scena in effetti ci sono poche scelte.

 

Dal tenore generale delle discussioni condotte sembra di individuare l’idea sottostante che sia alla vista un momento eversivo, del quale le masse spaventate della piccola borghesia divengono potenziale massa di manovra, e nel quale circoli di destra “identitario-tribale” (o “fascista” nel linguaggio del pezzo) possano prenderne la testa. Tutto ruota intorno a questa previsione. In linea generale è possibile che il “momento Polanyi”, come è già avvenuto, precipiti localmente in questo esito, però è decisivo comprenderne la temporalità.

Se fosse dovremmo rinserrarci in un qualche CLN “di sinistra” (in effetti è la mossa che, imitando la favola del lupo che attacca il gregge, instancabilmente si reitera da anni).

 

Non credo affatto che Andrea intenda questo, e del resto lui stesso ha escluso che questa sia una interpretazione legittima del suo scritto.

 

La questione che trovo centrale è un’altra. Se il primo movimento della crisi ha determinato lo stato di rimessa in questione dell’astratto universalismo mercatista europeo, il secondo, insieme al rischio di crollo sistemico avrebbe invece aperto una frattura di natura individuale ed antropologica. Quel che mi pare dirimente, nel modo di organizzare il discorso, è questo dualismo tra il livello sistemico e quello individuale e umano. Ovvero tra i vincoli sistemici determinati dalla dinamica interistituzionale e dei poteri nella dialettica nazionale e sovra, e la natura umana.

Se anche, ed è vero, il duplice “test” (salute/libertà e volontà/ragione) caratteristico del “secondo movimento” ha reso manifeste delle fratture entro un campo che si credeva più coeso (quello creato dal “primo movimento” della crisi), resta però una questione. Una importante questione.

Il mio punto è che le categorie non possono essere depurate della relazione con gli effetti socializzanti e umanizzanti (anche “de”) dei modi di produzione e dei sistemi sociali come, infine, del quadro storico geopolitico che li codetermina in una totalità. L’uomo è un campo di battaglia[12]. Ciò che sembra, invece, autorizzato dal testo è una interpretazione che vede nel modo di articolazione del discorso prodotto l’esistenza ex ante di un tipo umano “di sinistra” ed un tipo umano “di destra”. Quasi due specie che si dividono l’essere dell’uomo. Ancora di più, sembra che tra queste si possa porre una sorta di gerarchia, o di gradiente di valore.

 

Conosco molto bene questa idea. L’ho avuta in me da quando ero adolescente, di tanto in tanto riemergere, cerca di formularsi, trovare conferma e nascondere le confutazioni; l’ho sempre trovata molesta, se pur familiare. Come un cugino ingombrante, insistente, un poco goffo, leggermente villano e però anche antipatico, supponente. Tuttavia, un cugino.

So benissimo che Andrea l’ha combattuta molto di più di me, con maggiore energia. Ne ha fatto l’espresso bersaglio, non gli ha lasciato scampo, l’ha cacciata dalla casa e l’ha inseguita fino ai confini del paese. Ha dichiarato eterna inimicizia.

Perché ora lascia che si riaffacci?

 

Noi viviamo tempi difficili e confusi. Stiamo assistendo all’estenuazione di una estenuazione, si era esaurita la spinta propulsiva della fase neoliberale di fronte all’esplodere delle contraddizioni, e ora sembra esaurirsi anche il ciclo breve della critica di questa. La seconda estenuazione assume carattere recuperante, io concordo con Andrea. Ma se un cerchio si chiude non mi pare possa essere quello della seconda estenuazione, tornando attraverso la seconda crisi a recuperare lo spirito neoliberale. Questo avviene, ma è solo un episodio minore. Il quadro generale parla di una lunga transizione in corso a livello di sistemi-mondo, difficile e incerta come è normale sia. Solo questo quadro può fornire il punto di giudizio per dirimere i grandi cicli dai piccoli, le correnti profonde dalle onde di superficie.

Se nel grande ciclo neoliberale avevamo assistito sconcertati all’estenuarsi a sua volta del senso della critica sistemica, che aveva perso progressivamente il solido ancoraggio alle dure condizioni materiali, traducendosi in una postura che cresce nel vuoto di progetto, allora oggi, al suo tramonto, quando ne viviamo i torbidi, dobbiamo ritrovare l’ancoraggio. Il quadro generare si potrebbe interpretare in questo modo:

-          l’instabile soluzione neoliberale ai dilemmi del secolo ed agli equilibri di potenza mondiali sta progressivamente precipitando in un punto di caos, dal quale potrebbe emergere una nuova egemonia.

-          Contemporaneamente, e non senza relazioni con questa accelerazione, stanno cambiando le “piattaforme tecnologiche”[13] in competizione e parzialmente disgiunte (ovvero i funzionamenti essenziali, i know how privilegiati, le norme sociali e gli orientamenti culturali, le istituzioni, i pacchetti di incentivi e di interdetti) e con esse possono cambiare i luoghi “densi”, le pratiche sociali dominanti e dominate, le dipendenze.

-          Questi due fenomeni ricadono immediatamente nell’incremento della dualizzazione. Nella creazione, crescita e consolidamenti di settori poveri, marginali ma indispensabili, funzionalmente connessi e dipendenti, nei quali la produzione di beni e servizi necessari per l’equilibrio di sistema e la stessa accelerazione dell’accumulazione avvengono con il modello del lavoro povero e servile (se pure formalmente autonomo, talvolta professionale o fintamente imprenditoriale). E, contemporaneamente, nell’espansione di settori ricchi, connessi ai vertici delle ‘catene alimentari’, ancorati a forme di lavoro incorporato profondamente alla valorizzazione e dominante. La base sociale della differenza “antropologica” identificata da Andrea affonda in questa dualizzazione, anche se poi non ne deriva automaticamente per effetto della rilevanza dei fattori di tradizione culturale, della dinamica del discorso pubblico, delle egemonie.

-          La seconda crisi, quella del Covid, ha messo solo allo scoperto queste linee di frattura e divaricazione preesistenti. Ha prodotto in linea con la tendenza ulteriori divaricazioni tra settori, territori, segmenti del lavoro. Ciò si è unito ad uno stress psicologico insopportabile, particolarmente per le frazioni meno protette ed esposte.

-          In questa condizione è fallita l’ipotesi derivante dalla prima crisi di sfuggire alla estenuazione neoliberale con “semplici” alleanze eterogenee di scopo, senza porre e vincere prima la questione dell’egemonia. Della questione “patriottica” e nazionale è stato prodotto un feticcio che nascondeva le autentiche fratture ed i conflitti di interesse e potere costitutivi. Non poteva funzionare e non ha funzionato.

 

Come si vede sono perfettamente d’accordo su tutto l’essenziale con la posizione di Andrea Zhok.

 

La domanda che potremmo farci, data questa situazione, è: dobbiamo continuare a muoversi tra Scilla e Cariddi[14], o è più prudente tornare nel porto? Dobbiamo cedere alla potente attrazione gravitazionale delle identità sfidate e turbate, o accettare di stare ancora nel vuoto?

 

È una domanda difficile, per rispondere ne occorre un’altra; anche ammesso di essere in “una crisi dentro la crisi”: serve la sinistra realmente esistente nel nuovo grande gioco[15]?

Per me la risposta resta quella che abbiamo già dato, non è parte della soluzione ma del problema. Credo si debba restare nel vuoto.

Tutto scorre.

 



[1] - Articolo pubblicato il 17 novembre sul suo blog “Ancora su destra e sinistra (riflessioni di un post-comunista)”.

[2] - Platone, “La Repubblica”, VII 537 c

[3] - La grande differenza tra l’ambiente sociale americano e quello europeo è il portato della lotta delle classi lavoratrici, e della borghesia nella fase immediatamente precedente. Mentre l’Europa identifica come problema la distribuzione ineguale della ricchezza e del privilegio, quello che Lipset chiamava nel 1996 “eccezionalismo americano”, in America sin dallo studio di Sombart (ma anche dalle riflessioni di Engels) si osserva che questo innesco manca. La differenza ha piani economici, istituzionali (il federalismo) e culturali (la dominanza della cultura WASP), ma anche antropologici (la costruzione del popolo attraverso addizioni ed affiancamenti culturalmente e per differenza di razza eterogenei). L’effetto di queste differenze è la minore ineguaglianza, la maggiore coesione, la presenza dello Stato ben più forte, il welfare. Tutte cose che dal 1990 ad oggi si sono di molto attenuate, riducendo decisamente la distanza tra le due sponde dell’Atlantico. Per uno studio classico e rilevante (e non certo di provenienza marxista) si veda Alberto Alesina, Edward Glaeser, “Un mondo di differenze”, Laterza 2005 (ed or. 2004).

[4] - Si veda “Bastone e carota. L’audizione del Commissario Gentiloni sul Next Generation Eu”, da settembre ad oggi le cose non sono certo migliorate.

[5] - Per una caratterizzazione, certo provvisoria, rimando al mio “Servitori, bottegai e castellani. La vera lotta e quella finta”.

[6] - Andrea Zhok, “Identità della persona e senso dell’esperienza”, Meltemi, 2018.

[7] - Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi, 2020.

[8] - Andrea Zhok, “Libertà e natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione”, Mimesisi, 2017.

[9] - Ovvero nella promessa di benessere.

[10] - Cfr. https://www.facebook.com/fabio.falchi1/posts/10217984891563194 Scrive Falchi: “La conclusione di questo articolo Zhok, che esprime con notevole chiarezza la posizione di un intellettuale (ossia di un filosofo) post-comunista, che può essere in buona misura condivisa anche da chi ha una diversa biografia politico-culturale, mi pare che sollevi una questione politica fondamentale. Zhok, infatti, conclude così il suo articolo:

“La critica post-Comunista aveva avviato un’indispensabile e feroce critica del degrado della sinistra, e lo aveva fatto perché capiva che quel degrado apriva le porte alla peggiore destra, e lo temeva.

Ma ora quella destra non è più un timore. Sta bussando alla porta. E per un post-Comunista l’ordine di priorità dei fronti di battaglia non può che cambiare: se è vero che la sinistra postmoderna e quella liberale sono un avversario politico, la destra neofascista e neoliberale sono il nemico.”

Ciò che nell’articolo Zhok definisce (correttamente, in base alle categorie politiche che denotano le attuali varie forze politiche) destra è uno schieramento politico che io talvolta ho definito, per semplicità, “nazi-populista” e che sotto il profilo ideologico presenta, a mio avviso, i tratti distintivi di quello che si potrebbe definire un estremismo di centro, come, in un certo senso, fu lo stesso fascismo, che perlomeno nella sua fase inziale fu sostenuto soprattutto dalla piccola borghesia, anche se si alleò con monarchia e il grande capitale per andare al potere. (Difatti, la destra è soprattutto – ma qui si deve usare l’accetta – quella monarchica e “tradizionalista” – ossia anti-socialista, anti-democratica e anti-moderna -, rappresentata da autori come De Maistre, Evola, ecc., o quella liberal-conversatrice, anti-socialista ed elitista – non certo anti-moderna ma ostile sia pure in varia misura, alla democrazia -, e rappresentata da autori come Mosca, Pareto, Michels, ecc.).

Comunque sia, una destra “nazi-populista”, caratterizzata cioè da un aggressivo estremismo di centro, rappresenta certo un pericolo, per chi condivide una concezione socialista e comunitaria, ancora maggiore della sinistra (neo)liberale, non fosse altro perché distorce in modo aberrante la stessa idea di comunità o addirittura, sotto certi aspetti, quella del socialismo.

Tuttavia, nella misura in cui queste due forme di antisocialismo sono espressione di due diverse forme di capitalismo – la sinistra (neo)liberale si può ritenere espressione del grande capitale più avanzato (sotto il profilo tecnologico ma non sotto quello sociale e culturale), mentre la destra “nazi-populista” rappresenta gli interessi della classe capitalistica più debole e arretrata (anche sotto il profilo socio-culturale) – è necessario tener presente che questa destra rappresenta anche il “malcontento” di una piccola borghesia che certo non si può definire parte della classe capitalistica e che è cresciuta di numero anche a causa della scomparsa dell’operaio massa e della progressiva “contrazione” delle dimensioni della classe operaia.

L’immiserimento di gran parte dei ceti medi è infatti un fenomeno sociale che viene facilmente strumentalizzato dalla destra “nazi-populista” proprio perché la sinistra (neo)liberale da qualche decennio non rappresenta più gli interessi delle classi sociali subalterne.

Pertanto, anche se è vero che la destra “nazi-populista” presenta le caratteristiche tipiche del nemico politico per chi condivide una prospettiva socialista, ci si deve chiedere in che senso la sinistra (neo)liberale si deve considerare un avversario politico e non un nemico politico.

Orbene, è chiaro che Zhok non sta proponendo alcuna alleanza con la sinistra (neo)liberale per creare un fronte antifascista. La sinistra (neo)liberale è esplicitamente definita da Zhok un avversario non un alleato. Lo stesso Zhok, del resto, pochi giorni fa aveva scritto: “Brindo con gioia alla sconfitta di Trump. Se avesse vinto Trump, avrei brindato con gioia alla sconfitta di Biden.”

Credo dunque che Zhok non consideri il grande capitale meno pericoloso dei piccoli o medi capitalisti, frustrati per il peggioramento delle loro condizioni economiche e la progressiva perdita di “influenza” a livello politico e sociale (ovviamente anche a causa della globalizzazione), bensì che consideri la destra “nazi-populista” un nemico per ragioni di carattere politico-culturale. Ovverosia, credo che Zhok ritenga che almeno con una parte della sinistra neoliberale è ancora possibile scontrarsi in modo “duro” ma sostanzialmente “razionale”, ma che questo non sia praticamente possibile con i “nazi-populisti” (tranne alcune eccezioni che però confermano la regola), che come apprendisti stregoni rischiano pure di evocare forze che non saprebbero nemmeno controllare.

Nondimeno, non si dovrebbe ignorare che il grande capitale può usare “politicamente” lo stesso pericolo del “nazi-populismo” per giustificare un mutamento politico e sociale ossia per infliggere un colpo letale a qualsiasi prospettiva socialista e liquidare di fatto la stessa democrazia liberale, che peraltro già si configura come una forma di oligarchia (la sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi capitalisti non è certo – come pensava Marx – il segno che la società capitalistica, per così dire, sta per dare alla luce il “bambino socialista” e che quindi la politica del grande capitale sia “necessaria” per costruire una società socialista).

In questo senso, anche il grande capitale è un nemico e non un avversario. La sinistra (neo)liberale quindi, a giudizio di chi scrive, può essere definita un avversario e non un nemico solo nella misura in cui sia ancora disposta sia a ridefinire criticamente il processo storico che l’ha portata a condividere (pressoché acriticamente) posizioni euro-atlantiste e anti-socialiste, sia a prendere seriamente in considerazione la necessità di rappresentare gli interessi dei ceti sociali subalterni (senza nemmeno trascurare le ragioni del malcontento della piccola borghesia, in buona parte formata da lavoratori cosiddetti ‘autonomi’ ma che, in pratica, sono tali solo ‘di nome’) e senza anteporre la difesa dei cosiddetti ‘diritti individuali’ alla difesa dei diritti sociali ed economici e alla tutela del bene comune e del legame sociale.”

[11] - Si veda il successivo “Nota su fascismo e antifascismo

[12] - Si veda, ad esempio, in un diverso contesto di discorso l’argomento presentato circa l’antropologia dell’uomo neoliberale come prodotto storico di specifiche condizioni e non come esito naturale di una evoluzione in “Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”.

[13] -  “I set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambe, norme ed incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile)”.

[15] - Rinvio, per una interessante risposta allo stesso dilemma, prodotto nell’ambito specifico di questa discussione aperta dai pezzi di Zhok, all’articolo di Fabio Falchi, “Nota sulla tentazione nazional-populista alla luce della questione (neo) fascista e della trasformazione in senso antisocialista della sinistra europeo-occidentale”.

Alessandro Visalli

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