Platform Capitalism e l’atomizzazione del lavoro

dic 2nd, 2020 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

  

PLATFORM CAPITALISM E L’ATOMIZZAZIONE DEL LAVORO

 

Si crede molto spesso che il Modo di Produzione Capitalista sia sempre uguale: la borghesia detiene il monopolio dei mezzi di produzione ed il proletariato che lavora per creare quel plusvalore, che poi saranno, alla fine, i ricavi del capitalista.

Per quanto riguarda il sistema, poco è cambiato; quello che invece è mutato è la fenomenologia di questo sfruttamento. Dalle grandi aziende produttrici di manufatti (più o meno utili) il capitalismo si è trasfigurato in qualcosa di nuovo: come hanno analizzato i due studiosi Boltanski e Chiapello nel loro libro “il nuovo spirito del capitalismo”, negli anni movimentati del ’68 il sistema capitalista invece di soccombere sotto le spinte delle sempre più pressanti manifestazioni ha assorbito le stesse richieste di cambiamento. Questa forma di cooptazione è stata così ben congegnata che nemmeno ci si è accorti che il capitalismo era riuscito proprio nell’intento contro cui il proletariato aveva sempre lottato: l’assorbimento del lavoratore all’interno della stessa azienda, sfruttato, mal pagato, alienato e, allo stesso tempo, inconsapevole della sua stessa posizione.

Le rivendicazioni sessantottine puntavano a un minor controllo, ad una maggiore libertà di autodeterminarsi ed a una non piccola volontà di emanciparsi dall’autorità, pronti sempre a trasgredire: qualità che ora possiamo ritrovare nella descrizione del modello di manager di carriera. Tutto questo possiamo vederlo nelle richieste della nostra società: flessibilità, determinazione e spirito di intraprendenza; leggendo invece dalla prospettiva degli oppressi il significato diventa precariato, egoismo e sopraffazione.

L’esempio più eclatante è l’Amazon Mechanical Turk (AMT): tramite questo espediente, Amazon riesce a suddividere un progetto digitale in tanti piccoli progetti che vengono poi assegnati a lavoratori isolati, chiamati “crowd worker”.             Questi lavoratori guadagnano poco più di un dollaro all’ora e capita spesso che nemmeno percepiscano questo piccolo salario: isolati senza senso di appartenenza e privi di un sindacato che li possa tutelare, i lavoratori digitali di Amazon sono sfruttati e sottopagati senza alcuna garanzia né di pagamento né di stima dai loro capi, lavorando ore senza alcun diritto e con l’angoscia di portare a termine il più velocemente possibile il progetto.

Spesso i lavori non vengono nemmeno accettati per evitare che il committente paghi il salario ma questo non vieta loro, ai datori di lavoro, di poter utilizzare comunque il risultato degli sforzi di questo proletariato digitale, poiché è negli stessi termini dell’AMT che il committente si appropri del lavoro non appena lo abbia ricevuto: per di più, nonostante le piccole tutele, è improbabile che i nuovi capitalisti digitali vengano scoperti e nel caso in cui ciò accadesse hanno solo l’obbligo di consegnare il dovuto.

Si calcola che per la solo Amazon ci siano 500 mila lavoratori in queste condizioni, un enorme esercito di riserva che non fa altro che portare a ribasso l’infimo salario: la storia si ripete seppur in forme sempre diverse. Il lavoro digitale non è altro che l’ultimo ritrovato del capitalismo neoliberale, fatto di deregolamentazioni, precariato, delocalizzazioni e costo del lavoro sempre più basso per poter alzare sempre più i profitti dei capitalisti.

La società odierna subisce la perdita di coscienza di classe: nel momento in cui si pensava che il capitalismo stesse subendo una sconfitta, quest’ultimo ritrova le forze per cambiare. La nostra società è in preda all’ansia, siamo la “società della stanchezza”, in cui ogni momento della vita sociale è impregnato di riferimenti alla figura dell’imprenditore: dobbiamo essere sempre pronti al cambiamento, essere sempre precisi a soddisfare non solo i nostri bisogni ma anche quelli degli altri. L’ideologia della libertà ad ogni costo e della vita senza regole, che il capitalismo ha assorbito, ci sta portando ad una sempre più atomizzazione del lavoro e degli individui: i diritti sociali hanno sempre meno valore mentre la mercificazione di ogni aspetto della vita e l’alienazione diventano sempre più opprimenti.

Il capitalismo governa la società e la vita degli individui: crea sempre più bisogni che noi tutti dobbiamo soddisfare. Il lavoro digitale è la quintessenza e la personificazione di questi disvalori: lavorando da casa, attraverso il computer, non siamo più in grado di opporre una resistenza ai soprusi che troppo spesso sentiamo e viviamo; il lavoro a distanza invece di creare l’uomo libero lo ingabbia con catene invisibili e molto spesso senza sapere di essere prigioniero. La globalizzazione e le tecnologie informatiche non hanno fatto altro che peggiorare la situazione degli oppressi: il capitalismo è riuscito a mercificare le relazioni sociali ( facebook e instagram), ha reso sempre più necessario l’apparire, il lavoro vivo è considerato ormai solo un ostacolo al guadagno.

La vera vittoria del capitalismo è questa: l’impressione di ciascuno di un’assenza di alternative, la trasformazione in una società ad “una dimensione”, il favore degli stessi oppressi che, invece di lottare, incarnano gli stessi valori degli oppressori.

Stefano Sirch

 

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