apr 7th, 2021 | Di | Categoria: Interviste

Patrick Fontana, 1998

L’Italia ai tempi del Recovery Plan

Intervista agli economisti

Nell’articolo d’apertura della sezione Transuenze (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito), ci chiedevamo – provando ad interpretare alcuni fenomeni come il ritorno dello Stato al centro dei processi regolativi, le misure espansive promosse dagli Stati Uniti e il varo del Recovery Plan in Europa, la flessibilizzazione del target del 2% di inflazione da parte della Federal Reserve e via discorrendo – se il precedente ciclo a egemonia neoliberale fosse in progressivo esaurimento. Occorre tuttavia essere consci del fatto che questa, come ogni crisi, è «ponte e cesura, collegamento e discontinuità» e che al regredire di un dato ordine non corrisponde una stabilizzazione di eventuali nuovi assetti di potere. L’emergere – sempre che di questo si tratti – di un altro paradigma, infatti, è la posta in palio della gestione e della risoluzione della crisi stessa e passa attraverso la necessaria costruzione di nuovi blocchi sociali, il rilancio dell’accumulazione, le fibrillazioni geopolitiche. E non è detto che il «nuovo» non possa essere letto, come ci invitano a fare gli studiosi da noi interpellati in questi mesi, come un rilancio su differenti basi degli stessi processi da cui ipotizziamo si stia prendendo congedo.

Per orientarci in questi processi, abbiamo chiesto ad alcuni economisti «eterodossi» di interagire con alcune domande sui temi sopraccitati. Nella prima «puntata» rispondono alle nostre domande Andrea Fumagalli (docente dell’Università di Pavia, tra i suoi lavori Il lavoro autonomo di seconda generazione con Sergio Bologna, La moneta nell’impero con Christian Marazzi e Adelino Zanini, Economia politica del comune edito da DeriveApprodi) e Stefano Lucarelli (docente dell’Università di Bergamo, tra le cui pubblicazioni citiamo la cura e introduzione, con Andrea Fumagalli, del volume Fordismo e postfordismo. Il pensiero regolazionista di Robert Boyer, la versione italiana di Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria di Andrè Orlean, i volumi The resistible rise of mainstream economics con Giorgio Lunghini e Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, con Federico Chicchi e Emanuele Leonardi).

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Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato, invece, un significativo ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Semplificando ai minimi termini, possiamo dire che nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia mentre, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli Stati Uniti). In che modalità si ripresenta lo Stato oggi?

Andrea Fumagalli: all’inizio dell’emergenza sanitaria, avevo pensato che si potesse sviluppare una maggior coscienza politica verso un ruolo insostituibile dello Stato soprattutto nei settori nevralgici della sanità e dell’istruzione. In un articolo pubblicato su Effimera (http://effimera.org/la-vendetta-del-welfare-di-andrea-fumagalli/) avevo parlato di «vendetta del welfare» di fronte ai disastri della privatizzazione dei servizi sociali primari, messi a nudo dal Covid19. Pensavo che un «significativo ritorno dello Stato nei processi regolativi» fosse effettivamente possibile. Oggi mi devo ricredere. Si sta verificando l’opposto, almeno in Italia. Le carenze del sistema sanitario hanno portato, infatti, allo smantellamento delle cure ordinarie: reparti di terapia intensiva per attacchi di cuore sono stati chiusi per far posto ai malati Covid, le visite oncologiche ridotte di molto (come denunciato più volte dalle stesse Associazioni mediche di categoria) e così via per le altre patologie che normalmente causano in un anno più morti dello stesso Covid. La domanda verso la sanità privata è fortemente aumentata con l’effetto di ridurre ancor di più lo spazio della sanità pubblica. Questa dinamica non stupisce. La gestione dei servizi di utilità sociale sono oggi parte integrante di un sistema di welfare che presenta elementi di selettività e si muove in una logica di sussidiarietà con il privato al fine di ottenere un ritorno economico (leggasi profitto) in nome dell’efficientismo produttivo. In conclusione, l’emergenza sanitaria ha finito per accelerare il processo di liberalizzazione e finanziarizzazione del welfare pubblico.

Stefano Lucarelli: il punto è che il ruolo dello Stato è cambiato, ma non è mai scomparso. Semplicemente abbiamo assistito quanto meno a partire dagli anni Ottanta alla ridefinizione del ruolo dello Stato. In particolare, in Europa, attraverso le politiche pubbliche dei vari Stati nazionali, è stata imposta un’economia di mercato organizzando altresì un minimo intervento regolatorio. Ciò che è accaduto con la Pandemia è che gli Stati nazionali si sono trovati di fronte ai classici fallimenti del mercato. Pertanto, il loro ruolo regolatorio si è dovuto fare più stringente. Tuttavia, ciò è avvenuto in un contesto in cui i gruppi di interesse legati ad alcune attività imprenditoriali hanno avuto un enorme potere. Mi sto riferendo in particolare alle imprese farmaceutiche su cui non si è voluto imporre una regolazione ancora più incisiva, come sarebbe stato logico fare stando a ciò che stabilisce la teoria economica dei beni pubblici. Ma a ben vedere dietro alle imprese farmaceutiche e alle loro strategie ecco riemergere ancora il potere di alcuni Stati. L’azione dei pubblici poteri non è di per sé l’anticamera di un diverso modo di produzione fuori dal capitalismo. Anzi è uno strumento di cui i sistemi di mercato si avvalgono il più delle volte nel loro interesse. Esistono fasi in cui sono le grandi imprese a chiedere l’intervento degli Stati nazionali. Ma esiste la possibilità, quantomeno in un contesto di democrazia sostanziale, e non semplicemente formale, che anche altri gruppi di interesse possano essere rappresentati all’interno delle istituzioni statuali così da indirizzare gli interventi regolatori dei pubblici poteri verso gli obiettivi necessari a garantire uno standard adeguato nell’esistenza anche dei più bisognosi. Un tempo si sarebbe parlato di classi subalterne – ma francamente non riesco oggi ad identificare cosa abbiano in comune i membri di una classe subalterna oltre alle difficoltà di arrivare alla fine del mese. Perché – oltre all’assenza di rappresentanti all’interno delle istituzioni che pongano in cima ai propri obiettivi i temi rilevanti per i più bisognosi – ciò che davvero manca per parlare di classe dei subalterni o degli sfruttati è una coscienza di classe. Qualcosa che può emergere solo attraverso un’azione politica che non si intravede all’orizzonte. E che ci lascia nella trappola della non rappresentanza. Quindi in un contesto in cui i gruppi di interesse meglio organizzati e più capaci di utilizzare i pubblici poteri appartengono al mondo delle grandi imprese private e delle grandi banche, ci dovremo aspettare che lo Stato legittimerà gli interessi promossi da quelle lobbies. Se poi quel particolare Stato occupa un posto subalterno nella politica internazionale allora le sue istituzioni dovranno tenere anche conto degli interessi degli Stati nazionali più forti dai quali dipende la loro possibilità di realizzare almeno parte degli interessi non tanto dell’elettorato in generale, ma di quella parte dell’elettorato che di fatto vogliono rappresentare.

L’Unione Europea, per contrastare la crisi sanitaria ed economica, ha partorito il Recovery Plan. Intorno a questo fondo ci sembra si stia costruendo (oltre che una retorica provincialotta, almeno in Italia, condita da richiami neo-emergenziali circa la necessità di non disperdere o sperperare questa «storica» opportunità) una sorta di ideologia imperniata sugli imperativi della svolta verde e smart, ma anche di selezione «meritocratica» delle risorse del paese. Franco Momigliano sosteneva che l’impatto dei piani Marshall fu culturale prima che economico, una sorta di abilitatore della spinta alla ricostruzione e modernizzazione di un paese sottosviluppato, nel gioco conflittuale ma sinergico tra «liberismo temperato» (Luigi Einaudi) e «pianificazione» (Pasquale Saraceno). Cosa possiamo dire del Recovery Plan? In breve, a noi sembra basarsi su una logica che riflette essenzialmente l’esigenza di mettere in moto il volano delle infrastrutture per spingere la componente dei consumi pubblici.

AF: il Recovery Fund (NextGU) si presenta come un grande piano di investimento nel settore pubblico, a partire dai programmi di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sino alla gestione dei servizi sociali principali (trasporti, infrastrutture, istruzione e sanità).

Utilizzo il termine gestione, perché è il termine che oggi conta, a prescindere della struttura proprietaria. In un’economia a flussi, il concetto di proprietà (sia esso pubblica-statuale che privata, dei mezzi di produzione o di specifici titoli finanziari) perde di rilevanza, sostituita da strumenti di controllo che oggi sono in grado di sviluppare le leve del potere tecnologico e finanziario. Si tratta di un cambiamento di paradigma fondamentale e oggi ancora troppo poco compreso: un cambiamento dirimente, che interessa sempre più da vicino il sistema di welfare, dopo decenni di processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e il progressivo e parallelo smantellamento del sistema keynesiano di welfare. Negli ultimi trent’anni, infatti, il processo di privatizzazione ha ridotto di molto l’insieme dei beni pubblici, in Italia a partire dalle liberalizzazioni (trasformazioni in SpA, quindi società di diritto privato) dal 1992 (con il governo Ciampi e l’arrivo di Draghi, divenuto l’anno prima Direttore Generale del Ministero del Tesoro) e in Europa con gli accordi di Cardiff del 1996. I servizi sanitari e dell’istruzione privati, ad esempio, sono stati equiparati a quelli pubblici in termini di costi per gli utenti, tramite politiche di incentivazione all’accesso, mentre i servizi energetici e del trasporto e delle public utilities sono stati invece direttamente privatizzati.

Non è un caso che proprio per far fronte alle nuove sfide della gestione dei servizi e beni pubblici nel corso degli anni ‘90 si è diffuso un nuovo paradigma di governance che è diventato noto sotto il nome di «New Public Management» (NPM). Esso detta nuove regole di gestione del settore pubblico, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglo-sassoni, dove comincia a diffondersi il sistema di workfare, integrando le gestioni tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato economico.

La finalità è decretare la scomparsa della sfera pubblica senza che scompaia del tutto la proprietà pubblica, immergendola nelle leggi del mercato, non più improntata al buon andamento della società, in funzione delle esigenze di una collettività. È il trionfo dell’individualismo anche nella sfera pubblica. La sanità, così come il sistema d’istruzione e la pubblica amministrazione, vengono gestite in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il NPM la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità – e della quantità contano solo gli aspetti economici, che vengono valutati attraverso il benchmarking: invece di fissare gli obiettivi di un’istituzione in base ai suoi scopi (tipo curare i malati per la sanità, istruire per la scuola), si stabilisce uno standard astratto – il benchmark – che dovrebbe consentire di mettere a confronto diverse istituzioni.

Di conseguenza, a differenza del piano Marshall, il Recovery Plan non produce nuova cultura ma, all’opposto, è l’applicazione della cultura dominante interna alla filosofia del NPM.

SL: l’Unione Europea attraverso il Recovery Plan ha comunque introdotto all’interno del suo ordinamento qualcosa di nuovo, che pone le basi per un’azione politica futura verso una politica fiscale comune. Per coloro che vorrebbero il disfacimento dell’Unione Europea e il ritorno alla sovranità nazionale questo è un orizzonte nefasto. Per coloro che analizzano la geopolitica mondiale e le dinamiche economiche internazionali prestando attenzione alle performance degli USA e della Cina, un’evoluzione dell’Unione Europea verso una federazione dotata di un bilancio comune e di una politica industriale e dell’innovazione comune appare come l’unica possibilità concreta per evitare che l’economia europea venga soffocata dai due grandi giganti mondiali. La cosa peggiore che possa accadere a mio avviso è che il Recovery Plan sia considerato una eccezione alla politica economica europea. E questo accadrà se un Paese come l’Italia non utilizzerà quelle risorse, ma anche le risorse di bilancio che il Recovery Plan libera, per impostare davvero una dinamica economica strutturale verso un modello di sviluppo capace di incidere in modo significativo sui contenuti della produzione industriale nel rispetto del proprio ambiente, del proprio paesaggio, delle proprie specificità artistiche, culturali e naturali. Per fare questo sarebbe necessario che i gruppi di interesse nella società civile innanzitutto abbiano un piano e facciano pressione sulle istituzioni per realizzarlo. Le scelte del governo Draghi a proposito dei contenuti del Recovery Plan appaiono nelle mani soprattutto del ministro Colao e del ministro Franco. Ma se quelle risorse verranno utilizzate per sostenere la costruzione di grandi infrastrutture con un grande impatto sull’ambiente e sul territorio – senza tener conto delle specificità delle nostre aree interne, delle nostre bellezze naturali, e dei nostri reali sistemi di sviluppo locale potenziali – e per incentivare semplicemente l’incremento della dimensione di impresa, come temo dai segnali che i due ministri su menzionati hanno lanciato, allora saremmo di fronte ad un’occasione persa. Ripeto l’occasione non sta tanto nella dimensione economica dell’intervento, quanto nella logica dello strumento e nelle prospettive politiche che esso potrebbe aprire per l’evoluzione istituzionale dell’Europa e per la dinamica economica strutturale del nostro Paese. In questo scenario appare quanto mai necessaria l’azione dal basso delle forze della società civile che sono custodi delle competenze soprattutto in tema di politica ambientale e di preservazione dei beni comuni, le quali devono trovare il modo di proporre un loro piano di sviluppo. Per farlo occorre tornare a fare politica sui territori, trovando anche il modo di occupare degli spazi fisici, chiaramente nel massimo rispetto dei comportamenti che occorre tenere per evitare il contagio. Ma dal momento che anche i parlamentari e i ministri si riuniscono, non vedo perché, con le stesse accortezze, non possano riunirsi coloro che hanno a cuore la politica di questo Paese.

Possiamo dire che vi sia però anche la ricerca di nuovi assetti economici e sociali (la spinta alla costruzione di un nuovo blocco)? Da questo punto di vista, si può ipotizzare che gli investimenti su sanità, istruzione, pubblica amministrazione costituiranno assi importanti dell’azione di governo e dello stesso programma europeo. Secondo te questi campi (la produzione dell’umano, più che per l’umano) saranno centrali nel tentativo di rilancio dell’accumulazione e dei profitti «industriali»?

AF: oggi il welfare è un modo di produzione. I comparti del welfare sono oggi quelli a maggior valore aggiunto. Rappresentano la frontiera della mercificazione e della sussunzione della vita al capitale, in cui finanziarizzazione e capitalismo delle piattaforme vanno a braccetto. Gli investimenti in sanità, istruzione e digitalizzazione della pubblica amministrazione sono i più redditizi (della green economy parleremo più avanti). Con lo sviluppo delle tecnologie algoritmiche e di sorveglianza, i big data e il «network value» divengono la base di nuovi processi di valorizzazione che fanno perno sulla gestione (e il controllo) della vita umana, sempre più direttamente messa a valore. Si è cominciato con la finanziarizzazione del sistema previdenziale per arrivare oggi, complice il Covid, alla «platformization» di ogni nostro atto. A ciò poi, nell’ottica della filosofia del NPM, si aggiungono le nuove joint ventures nella gestione dei dati tra le multinazionali dell’informatica e enti pubblici: dalla costruzione di infrastrutture per la rete 5G (che dovrebbe essere un bene comune e un diritto primario) agli accordi per la trattazione dei dati sanitari, come nel caso dell’accordo tra IBM e Regione Lombardia del dicembre 2017.

L’emergenza sanitaria ha accelerato questi processi (non a caso, le «GAFAM» hanno raggiunto i massimi livelli storici nelle quotazioni di borsa). E ciò è avvenuto anche grazie all’afasia della sinistra critica, troppo presa dalla paranoia sanitaria e incapace di sviluppare un’analisi adeguata ai cambiamenti e alle sperimentazioni di governance in corso.

SL: io credo che sarà ancora fortissima la tentazione di perseguire un regime di accumulazione in cui il profitto si intreccia con la rendita finanziaria. Per evitarlo occorre sottrarre alla finanziarizzazione quei settori che avete nominato nella domanda. Va detto chiaramente che la sanità, l’istruzione e la ricerca pubblica sono beni meritori. Si tratta di quei beni che – secondo la definizione di Richard Musgrave, un maestro riconosciuto dell’economia pubblica e della politica economica, mai percepito come un pericoloso sovversivo – sono rivolti al soddisfacimento di bisogni importanti per la collettività e nei riguardi dei quali il bilancio pubblico ha il compito di garantire una produzione ottimale. In altri termini questi settori vanno sottratti politicamente al mercato. E, si badi bene, questo è nell’interesse degli stessi capitalisti che in questo modo opererebbero in un sistema economico più stabile, sebbene per ottenere questo risultato alcuni imprenditori devono ridurre il proprio campo di azione su alcune aree della società e della politica, rinunciando a un po’ di potere. Uno dei problemi maggiori, tuttavia, è che gran parte delle élites soprattutto statunitensi ritengono che i beni meritori rappresentino di per sé un’ingerenza della burocrazia statuale nelle libertà private. In questo la tradizione welfaristica europea andrebbe recuperata e aggiornata. Ma per farlo ancora una volta ritorniamo alla necessità di manifestazioni chiare che emergano dalla società civile nel pieno di quella trappola della non rappresentanza di cui ho già parlato. A tal riguardo mi viene in mente quanto sostenuto da Karl Polanyi ne «La Grande Trasformazione» del 1944: il mercato autoregolato è un’istituzione che annulla la sostanza umana e naturale della società fino a voler distruggere l’uomo, la donna e l’ambiente. Per Polanyi è dunque inevitabile che la società prenda le misure per difendersi. Da qui egli spiega la grande trasformazione che ha ostacolato l’autoregolazione del mercato negli anni Trenta. Tuttavia, questo processo può portare con sé altri pericoli, fra questi – dice Polanyi – c’è il fascismo che egli analizza in termini di conflitto di classe, oltre che di crisi istituzionale definendolo come «una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo della estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica». In tal senso – e Polanyi lo riconosce esplicitamente – il fascismo è «una possibilità politica sempre presente, quasi una reazione emotiva istantanea, in ogni comunità industriale. Si può chiamarlo una “mossa” piuttosto che un movimento». Io, che amo molto la tripartizione classica delle forme di governo con le sue alterazioni, più che di fascismo parlerei di demagogia, ma il messaggio mi pare chiaro. E chiara mi sembra la sua attualità.

Il green deal è il pilastro della nuova strategia comunitaria. Tutti i programmi nazionali e regionali si stanno convertendo, anche con effetti comici, per adempiere a questa condizione. Al di là dell’ovvia denuncia sulle possibili pratiche di greenwashing e del carattere retorico di questa prospettiva, possiamo vederci anche tentativi «sostanziali»? C’è l’esigenza, ad esempio, di incuneare una prospettiva «europea», un modello di capitalismo in maggiore competizione con le polarità forti, USA e Cina? Possiamo vederci il tentativo da parte di determinate frazioni del capitalismo di incorporare, per così dire, la questione climatica e il concetto di «limite» nelle proprie strategie di accumulazione? Più radicalmente, è ipotizzabile un capitalismo «verde»?

AF: la tematica ambientale è oggi sempre più centrale e rappresenta una grande opportunità per una nuova frontiera di accumulazione. Il rischio è che la sua trattazione diventi un nuovo regime di produzione al pari del welfare. Anche qui scontiamo la difficoltà di mobilitazione per incidere in modo alternativo, ma valgono le ragioni di cui sopra.

SL: Si possono creare condizioni di rilancio delle plusvalenze finanziarie a partire da progetti green, ma se la finanza resta questa finanza, cioè qualcosa di regolato in modo irrisorio in cui le dinamiche speculative restano sempre possibili (persino legittime) e in cui prevale la visione di breve periodo, non potranno realizzarsi quei progetti di lungo periodo necessari affinché l’intero pianeta possa essere vissuto secondo una prospettiva di preservazione degli eco-sistemi. Ma per farlo occorre riconosce dei beni meritori globali, non basta nemmeno puntare alla riduzione delle emissioni di CO2. Sto leggendo un libro appena pubblicato scritto da un intellettuale sui generis, Giulio Sapelli. Il libro si intitola «Nella Storia Mondiale. Stati Mercati Guerre». C’è un passo molto rilevante per i temi su cui stiamo ragionando: «Tutto confluisce […] nell’incapacità di reazione delle classi politiche dinanzi agli eventi che richiedono decisioni rapide e coese e nel contempo realistiche, ossia fondate su una conoscenza dell’universo economico e sociale nei confronti del quale si vuole agire […] il tutto mentre la tante volte ideologicamente negata competizione tra nazioni si svolge con estrema crudeltà». Sapelli si riferisce nello specifico alla politica internazionale di fronte alla pandemia, ma io credo che le sue considerazioni si debbano estendere anche alla crisi climatica e ambientale. Lo so che se un economista non estraneo al marxismo come sono io cita il Papa può suscitare ilarità, ma penso che su questo tema la consapevolezza di Bergoglio sia maggiore di quella di qualsiasi altro capo di Stato: «Io ho avuto una strada di conversione, di capire il problema ecologico. Prima non capivo nulla! […] Voglio sottolineare questo: dal non capire nulla ad Aparecida nel 2006, all’Enciclica (Laudato Si’ del 2015 ndr). Di questo mi piace dare testimonianza. Dobbiamo lavorare perché tutti abbiano questa strada di conversione. […] Il buon vivere non è la dolce vita, no, nel dolce far niente, no. Il buon vivere è vivere in armonia con il creato. E questa saggezza del buon vivere noi l’abbiamo persa. I popoli originari ci portano questa porta aperta.”

Gli importanti stimoli fiscali e monetari intrapresi da governi e banche centrali hanno suscitato un dibattito sul ritorno dell’inflazione. Ritenete possibile un eventuale ritorno dell’inflazione al di sopra del fatidico due per cento o continueremo a restare in una spirale di prezzi stagnanti? Lo ritenete auspicabile? Nel caso, se ciò avrebbe effetti positivi sul debito pubblico, in paesi come l’Italia (forte risparmio privato, depositi bancari che si gonfiano, mattone, anche di strati importanti di proletariato) quali effetti sociali dovremmo attenderci? Quali tendenze ritenete che prevarranno?

AF: in un’economia finanziaria di produzione, quale è l’attuale capitalismo bio-cognitivo, i mercati finanziari (controllati da un pugno assai concentrato di poche multinazionali) sono il motore dell’accumulazione economica, garantiscono liquidità, finanziarizzano il welfare, privatizzandolo, incidono in modo distorto sulla concentrazione del reddito e dettano le leggi della geo-politica mondiale.

Il monopolio di emissione della moneta delle Banche Centrali non consente più di controllare direttamene l’offerta di moneta. La dinamica delle convenzioni finanziarie creano (e distruggono) moneta «ex nihilo» in misura molto maggiore di quanto possa fare l’intero sistema globale delle Banche Centrali. Nonostante si perori demagogicamente l’autonomia delle Banche Centrali, esse sono dipendenti dalle dinamiche speculative. In tale contesto, le politiche monetarie espansive sul modello quantitative easing (acquisto di titoli di varia natura sul mercato secondario e corrispondente emissione di liquidità) non incidono direttamente sulle variabili reali del sistema economico. Il legame diretto tra crescita della moneta, crescita del Pil e crescita dei prezzi è oggi del tutto saltato. L’enorme liquidità creata dalle Banche Centrali finisce quasi completamente nella pancia dei mercati finanziari, a vantaggio dei bilanci patrimoniali delle banche e della crescita degli indici azionari (e quindi delle plusvalenze). Non si tratta di una situazione congiunturale ma strutturale. E i dati lo dimostrano. Da quando è partito il QE della BCE (Marzo 2015), il tasso d’inflazione è stato sempre di gran lunga inferiore al target del 2%, limite fissato dal Trattato di Maastricht, oltre il quale la Bce è obbligata a intervenire con una politica monetaria restrittiva.

Al momento attuale, la BCE detiene circa 2.974 miliardi tra titoli pubblici (in prevalenza tedeschi) e titoli privati (in prevalenza francesi), una cifra superiore alla somma del Pil italiano e spagnolo. (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-debito-pubblico-quanto-ne-ha-acquistato-quanto-ne-avrebbe-dovuto)

La creazione di moneta pari a quasi 3000 miliardi è stata accompagnata, complice il Covid19, da una recessione del Pil europeo del 6,7% e da un tasso di inflazione europeo (HICO) nel periodo dicembre 2019 – dicembre 2020 addirittura negativo (- 0,27%). Tale dinamica è chiaramente spiegata dal calo della domanda finale (soprattutto i consumi interni). Nell’ultimo mese, il dato mensile ha visto invece valori fortunatamente positivi, a riprova di aspettative favorevoli sulla ripresa del Pil europeo nel corso del 2021.

Il rischio di inflazione è quindi inesistente, proprio perché la liquidità creata dalla BCE si ferma nei mercati finanziari e non «sgocciola» sull’economia reale. L’unico effetto positivo di questa politica monetaria è stata la riduzione dei tassi d’interessi, che non hanno però stimolato gli investimenti (dal momento che le aspettative imprenditoriali erano del tutto pessimistiche) ma ha favorito la riduzione dell’onere del debito (spesa per interessi). Ma non si può affermare che l’obiettivo di stimolare l’economia sia stato raggiunto. Semmai si sono solo stimolati i mercati finanziarie e le oligarchie finanziarie.

SL: Si avranno spinte inflazionistiche solo quando si sarà in prossimità del pieno impiego e al contempo i finanziamenti non verranno indirizzati verso nuove opportunità tecnologiche capaci di modificare lo stesso equilibrio di pieno impiego. Oppure vi potranno essere spinte inflazionistiche se questa inflazione verrà importata dall’estero acquistando beni prodotti altrove e irrinunciabili per il Paese interessati da un rialzo dei prezzi. Non vedo all’orizzonte nessuna di queste condizioni in Italia.

Fino a quando le regole europee sulla finanza pubblica restano sospese e fintanto che la BCE continua di fatto a comportarsi come un prestatore di ultima istanza non esistono problemi di sostenibilità del debito pubblico. Occorre tuttavia creare le condizioni affinché il tasso di crescita del prodotto interno lordo torni a superare il peso degli oneri finanziari sul debito. E occorre farlo affrontando seriamente il problema della transizione da un regime di accumulazione trainato dai mercati finanziari e insostenibile per gli equilibri ecologici del Pianeta verso qualcos’altro. Possiamo pure chiamarla economia dell’uomo per l’uomo, ma è qualcosa che somiglia molto ad una rimessa in discussione del modo di produzione capitalistico anche nella sua variante cinese.

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