Il blocco dei licenziamenti (e altre amenità) alla prova dei fatti

ago 27th, 2021 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

Un articolo di Santiago Barbieri

Fa abbastanza impressione vedere che l’altro ieri, 30 Giugno 2021, è scaduto il blocco dei licenziamenti per tutte le attività economiche – con l’eccezione del tessile, del calzaturiero e della moda (1) – senza che a livello mediatico se ne parli troppo o che l’opinione pubblica, a livello complessivo, reagisca particolarmente. Al di là di ciò che già si sa ed è stato detto mille volte: la mancanza di reattività delle classi subalterne – propria di tutto l’Occidente e dovuta a decenni di traumatizzazione tramite bassi salari, precarietà e alti tassi di disoccupazione (2) – o le condizioni di lavoro pessime vigenti in Italia (3), è necessario avere un armamentario tecnico che permetta di rispondere nel merito alle questioni sollevate dal blocco dei licenziamenti. Le critiche a misure come questa e ad altre simili devono essere anche analitiche, non solo basate su principî etici come il benessere o la sicurezza dei lavoratori, principî che, pur fondamentali, a livello di comunicazione e dibattito pubblico da soli non bastano, in quanto rischiano di infrangersi contro un muro di supposta inevitabilità e « competenza » sbandierata da chi sta dalla parte dei padroni e che finisce per far pensare al cittadino medio « beh, i lavoratori hanno ragione di per sé, però la situazione è grave, è inevitabile che si debbano fare sacrifici etc. etc. ». Non aiuta peraltro il quadro un’informazione che nella stragrande maggioranza dei casi (si pensi a Repubblica, Corriere, Stampa, Sole 24 Ore, ma anche alla totalità delle trasmissioni televisive) non fa che ripetere che il lavoro c’è ma manca chi lo voglia svolgere, che il Reddito di Cittadinanza impigrisce i lavoratori, che le aziende non trovano personale qualificato e altre amenità che fanno molta presa in un paese in cui è molto comune la diffidenza verso i propri concittadini e in cui ogni diritto è visto come una concessione, un favore per cui si dovrebbe solo ringraziare.

Cominciamo col notare che, quasi sempre collegate con lo sblocco dei licenziamenti, fanno capolino affermazioni come le quattro seguenti, che vanno tutte smontate pezzo per pezzo, dati alla mano.

1) « I posti di lavoro ci sono, gli imprenditori non riescono a trovare persone disponibili a lavorare »

I dati Istat parlano di circa 2,67 milioni di disoccupati ad Aprile 2021 (dati destagionalizzati) (4). A ciò andrebbe aggiunta sicuramente una parte degli inattivi, ossia di coloro che non hanno lavoro e non lo cercano, molti dei quali sono lavoratori scoraggiati. Comunque, facendo stime al ribasso, prendiamo solo il numero dei disoccupati. Ebbene, se la frase qui sopra fosse vera, vi sarebbe un numero di posti vacanti in Italia pari a circa il numero dei disoccupati. Ora, sempre dai dati Istat, emerge che il tasso di posti vacanti sul totale delle posizioni lavorative occupate è di circa l’1 % nel primo trimestre 2021 (5). Le posizioni lavorative occupate, a loro volta, nel quarto trimestre 2020 erano poco meno di 23 milioni (6) , cosicché i posti vacanti si aggirano intorno alle 230000 unità. Anche volendo fare una stima spannometrica sfavorevole al nostro ragionamento (esclusione totale degli inattivi) si giunge perciò ad un numero di posti vacanti che non raggiunge il 10 % del numero dei disoccupati, come già denunciato da Emiliano Brancaccio, nonché dal collettivo Coniare Rivolta, in più di un’occasione (7). Inutile fare tanti discorsi : in Italia c’è molta meno offerta di lavoro rispetto alla domanda.

2) « Il lavoro del mercato è duale : da un lato i maschi anziani sono garantiti, dall’altro le donne e i giovani sono precari e subiscono tutto il peso della crisi »

Una frase di questo genere è stata detta per l’appunto da Mario Draghi al recente vertice di Porto (8). Dietro questo ragionamento vi è l’idea secondo cui, se i più « garantiti » rinunciassero a parte delle proprie tutele, accettando più flessibilità, l’occupazione ne beneficerebbe. Poi aggiungere la nota sulle donne e i giovani, in modo da mettere pezzi di società l’uno contro l’altro armati, aiuta sempre : meno i lavoratori sono uniti, più sarà facile soverchiarli. Ma c’è qualcosa di molto più profondo dietro tutto questo, qualcosa che che va anche ben oltre essere gli Andreotti dell’economia – definizione che che si adatta bene a Draghi : vi è l’idea di una relazione inversa tra salario (e tutele) ed occupazione, ossia la curva di domanda di lavoro marginalista. Senza entrare in tecnicismi, si tratta di un assunto della teoria economica dominante o « neoliberista » – ma il nome più adatto è « marginalista » (è la teoria che, a partire dagli anni 70-80, ha prevalso in accademia e nelle istituzioni). Il postulato, a grandi linee, è che riducendo le tutele sul lavoro e di conseguenza la capacità dei lavoratori di chiedere salari più elevati (o decenti) – capacità che passa, per esempio, attraverso la garanzia di non essere licenziati perché si ha un lavoro stabile oppure tramite il fatto di avere un’àncora come il Reddito di Cittadinanza o il blocco dei licenziamenti che impediscono di dover cercare qualsiasi cosa a qualsiasi salario pur di sopravvivere – il salario scenda al suo livello « naturale », che è quello che garantisce la piena occupazione. A parte la presunzione secondo cui buona parte della disoccupazione sarebbe dovuta al fatto di non accettare un salario abbastanza basso – che nel nostro caso fa abbastanza ridere visti i dati del punto 1 su posti vacanti e occupazione – dal punto di vista teorico tale formulazione significa supporre che vi sia un unico punto di equilibrio « naturale » tra domanda e offerta di lavoro e che vi sia pieno utilizzo del sistema produttivo. Detto in maniera grezza : solo se non si può produrre di più, ossia se non c’è capacità produttiva inutilizzata, aumentando l’occupazione diminuirà il salario (ossia quella parte del prodotto che finisce ai lavoratori). Nella situazione italiana, segnata da un pluridecennale sottoutilizzo del sistema produttivo, siamo quanto mai lontani da questa situazione (8 bis).  Inoltre, come messo in luce, per esempio, da tre grandi economisti italiani, Piero Sraffa, Pierangelo Garegnani e Luigi Pasinetti (9), la curva di domanda di lavoro marginalista è logicamente viziata in maniera irrimediabile anche per altre questioni molto più tecniche, ma fondamentali.

Purtroppo, tale costruzione teorica in Italia è stata alla base della precarietà introdotta dal pacchetto Treu (1997) e poi delle misure prese da Monti e Fornero (2012) e da Renzi (2015), il cui mantra era « riduciamo le tutele perché così almeno tutti possono lavorare » : l’Italia è stato peraltro il paese europeo che, dopo la Grecia, ha più liberalizzato il suo mercato del lavoro negli ultimi trent’anni (11) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Come se non bastasse, come recentemente riportato in uno studio di Brancaccio, De Cristofaro e Giammetti (10), su 53 pubblicazioni sull’argomento dal 1990 a oggi, il 28 % è a supporto della tesi che maggiore precarietà porti a maggiore occupazione, il 21 % afferma che i risultati sono ambigui e il 51 % nega invece questa tesi. Addirittura, se si vanno a guardare solo gli studi usciti nell’ultimo decennio, la percentuale di ricerche che nega o non conferma la tesi che lega maggiore precarietà a maggiore occupazione sale all’88 %. Dulcis in fundo, recentemente, anche istituzioni conservatrici come il FMI, la Banca Mondiale o l’Ocse hanno messo in luce una correlazione debole o nulla tra precarietà e occupazione (11).

3) « Le aziende non trovano lavoratori con le competenze adeguate, specie in ambito tecnico-scientifico. La maggioranza dei lavoratori italiani è inoccupabile. »

La frase, di per sé, suona abbastanza strana. Guardando i dati Istat del 2019 (12), si nota intanto che la quota dei 25-64enni italiani che possiedono un diploma (62,2%) è inferiore alla media UE (78,7%). Stessa cosa per la laurea (19,6 % contro 33,2%). Su questo molto ci sarebbe da dire su quanto scuola e università siano state massacrate negli ultimi decenni, nonché sul diritto allo studio, ma meglio glissare per brevità. In ogni caso, nonostante i dati di cui sopra, la quota di laureati italiani in discipline STEM (Scienze, Tecnologie, Ingegnerie e Matematica), ossia in quei profili più valorizzabili in termini di valore aggiunto per le imprese, è simile alla media UE e dei paesi OCSE (ed è superiore, per esempio, a quella del Regno Unito) ; questo già dovrebbe dire qualcosa sul ritornello « i giovani italiani si laureano nelle materie sbagliate, scelgono ambiti umanistici e poi per forza che non trovano lavoro ! »

A fronte di un numero di laureati così esiguo, se davvero vi fosse tutta questa richiesta di lavoratori istruiti e con alte competenze, la percentuale di occupazione di chi possiede il titolo universitario dovrebbe essere molto consistente. Invece, si nota che la percentuale di 30-34 enni laureati che risultano occupati è del 78,9 %, contro l’87.7 % della media UE. Più in generale, il tasso di occupazione della popolazione laureata è il più basso d’Europa dopo quello greco. Qualquadra non cosa, verrebbe da dire. Peraltro, andrebbe fatto notare che il 6 % degli italiani laureati vive all’estero, una cifra spaventosa se raffrontata al fatto che questo flusso in uscita non è compensato da alcun flusso in entrata, visto che il saldo netto di laureati per l’Italia è fortemente negativo (tra i peggiori d’Europa nel periodo 2013-2018) (13).

Dal punto di vista della richiesta di lavoro per specializzazione settoriale, i dati vengono invece da Unioncamere (14). Per il mese di Giugno 2021, si prevedono 560000 lavoratori in entrata nel sistema produttivo. Di questi, almeno 344000 (circa il 60%) sono riconducibili ad attività a scarsa qualifica o ad attività a scarso valore aggiunto (si veda la Tavola 5 del documento). Si nota, soprattutto, come i settori turistico, della logistica e delle costruzioni (tutti e tre a scarso valore aggiunto) facciano da leone. Non si tratta, chiaramente, di svilire i lavoratori che lavorano in questi ambiti, ma di mostrare come il sistema produttivo italiano, scarsamente innovativo e sempre più in ritardo tecnologico – e questo per ragioni lontane e profonde, la cui colpa non ricade soltanto sugli imprenditori (15) – non richieda chissà quali mansioni specializzate. I lavoratori si adattano a ciò che il sistema produttivo chiede e anzi, è proprio nei settori a più scarso valore aggiunto che essi sono più sfruttati (si pensi ai magazzinieri, ai muratori, a chi lavora negli stabilimenti balneari etc.).

4) « Il reddito di cittadinanza scoraggia la ricerca di un lavoro »

Senza girarci tanto intorno : questa è la più grande fesseria. Un imprenditore che cerca un lavoratore può rivolgersi ad un centro per l’impiego con la documentazione che descriva il profilo richiesto e la mansione da svolgere. A quel punto vengono chiamate in causa le persone che sono presenti sulle liste del centro, tra cui figurano sia disoccupati che percettori del Reddito di Cittadinanza con un profilo corrispondente a quello richiesto. Se non si trovano profili, la ricerca viene estesa ai centri per l’impiego vicini. Chi in queste liste riceve un’offerta di lavoro può rifiutarlo fino a un massimo di due volte per i primi 18 mesi, mentre dopo non può più rifiutare nulla, neanche la prima proposta di lavoro, pena la perdita del sussidio (16).

Certo, quando un imprenditore deposita una richiesta al centro per l’impiego è obbligato a specificare con che contratto vuole assumere, la paga, le ore lavorate etc., sarà per questo che molti si guardano bene dal farlo ?

Lo sblocco dei licenziamenti si inserisce in un quadro già fosco, perciò, peggiorandolo. Certo, esso non era miracoloso – prova ne sia la quantità di occupati persi nel 2020, stimata in quasi 1 milione, sebbene la metodologia utilizzata nella stima del 2021 sia nuova rispetto a quelle degli anni precedenti e vada presa con cautela (17). Tale relativa inefficacia è dovuta soprattutto ad un mercato del lavoro colabrodo (18). Le proiezioni della Banca d’Italia (da prendere con le pinze come tutte le simulazioni) mostrano come la sua assenza non avrebbe sostanzialmente modificato il numero dei licenziamenti rispetto al periodo pre-Covid (secondo queste simulazioni è la cassa integrazione che ha evitato la catastrofe). Senza blocco, i licenziamenti nel 2020 sarebbero stati intorno ai 500000, più o meno come nel 2019, mentre col blocco si sono assestati sulle 100000 unità ; nonostante tutto, quindi, il blocco ha salvato 400000 occupati. Inoltre, differentemente dal periodo pre-Covid, se non vi fosse stato il blocco, i licenziamenti sarebbero stati accompagnati da un crollo anomalo ed enorme degli occupati – pari a 1 milione di unità – di cui sopra, dovuto alla pandemia. Da un punto di vista sociale (ed umano) non è la stessa cosa avere lo stesso numero di licenziamenti in un periodo di (moderata) crescita degli occupati, come era il 2019, e in un periodo di crollo del numero degli occupati, in cui le aziende chiudono e in cui non c’è richiesta di lavoro. Per dirla in breve : senza blocco si sarebbe avuto sì lo stesso numero di licenziamenti del 2019, ma questi non sarebbero stati minimamente assorbiti dal sistema produttivo com’era prima della pandemia; azzardando un po’, si potrebbe tranquillamente dire che 500000 licenziati si sarebbero tramutati in modo praticamente automatico in 500000 disoccupati ! Questo senza contare il lato umano della faccenda : perdere il lavoro in tempo di pandemia è orribile ancor più di quanto non lo sia normalmente. Da questi ragionamenti si capisce come gli effetti dello sblocco dei licenziamenti dipenderanno, a livello aggregato, dall’entità della ripresa, ad oggi molto incerta. A livello sociale, invece, si tratta ovviamente di una misura deleteria e che butta benzina sul fuoco sul malessere del paese e dei lavoratori. Da un punto di vista di indirizzo politico, infine, lo sblocco è l’ennesima misura volta a traumatizzare e rendere insicuri i lavoratori e a mostrare loro che « la pacchia è finita » ; come se essere lavoratori di un’impresa in crisi in tempo di Covid fosse una pacchia.

Fonti e note

(1) https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/governo-232091d6-c08c-4eae-8a04-c0bf089fdf5d.html

(2) Alan Greenspan, governatore della FED negli anni ‘90, descrive magistralmente come il meccanismo precarietà-malessere-basso salario serva a impedire rivendicazioni da parte dei lavoratori.

(3) Esistono numerose pubblicazioni al riguardo. Basti pensare a « Basta salari da fame ! » e « Non è lavoro, è sfruttamento » di Marta Fana.

(4) Prospetto 1 https://www.istat.it/it/files//2021/06/CS_Occupati-e-disoccupati_APRILE_2021.pdf

(5) https://www.istat.it/it/archivio/257759

(6) Il dato non cambia sostanzialmente prendendo in conto i lavoratori che hanno un doppio lavoro (che sono circa 350 000, ossia una quantità trascurabile in queste stime) https://www.istat.it/it/files/2021/03/Mercato_lavoro_IV_trim_2020.pdf

(7) https://coniarerivolta.org/2020/12/19/il-lavoro-ce-ma-i-lavoratori-si-scansano-la-favoletta-continua/

(8) https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Vertice-Ue-Portogallo-Porto-von-der-leyen-draghi-europa-vaccini-lavoro-recovery-bdafc60d-63a0-4916-8226-9dfefc37ecd1.html?refresh_ce

(8 bis) Come mostra l’economista S. Storm nel suo articolo « Why Italy’s woes are a warning to the whole Eurozone », normalizzando a 100 il tasso di utilizzo del sistema produttivo manifatturiero italiano rispetto a quello francese nel 1992, nel 2015 tale cifra era scesa a 70. Facendo lo stesso calcolo con la Germania si passa da 100 a poco più di 60. Le ragioni di tale declino stanno in una debolezza strutturale della domanda aggregata, che si protrae dall’inizio degli anni 90.

(9) Una bella descrizione – accessibile a tutti – sulla questione, che fu al centro del « dibattito tra le due Cambridge » (Cambridge in Inghilterra e Cambridge vicino Boston, dove ha sede l’MIT) si trova nelle Sei Lezioni di economia di Sergio Cesaratto (Diarkos, 2019). Sraffa, Garegnani e Pasinetti, nella Cambridge britannica, si confrontavano con altri grandi nomi dell’economia come Modigliani, Solow, Tobin e Samuelson (che erano all’MIT) riguardo, tra le altre cose, proprio alla curva della domanda di lavoro. Come riporta Cesaratto, Samuelson riconobbe infine che la Cambridge inglese aveva ragione sulla questione : la curva di domanda di lavoro marginalista, anche a prescindere dalla sua validità empirica o meno, presenta vizi teorici molto grossi.

(10) https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/09538259.2020.1759245?journalCode=crpe20&

(11) https://www.emilianobrancaccio.it/2020/02/14/riforme-del-lavoro-il-re-e-nudo-e-lo-sa/

(12) https://www.istat.it/it/files/2020/07/Livelli-di-istruzione-e-ritorni-occupazionali.pdf

(13) https://espresso.repubblica.it/affari/2019/12/19/news/laureati-in-fuga-dall-italia-tutti-i-numeri-di-un-emergenza-nazionale-1.342138/

(14) https://excelsior.unioncamere.net/documenti/bollettinimensili/doc.php?id=6591&spec=relateditems

(15) A tal proposito vi sono fior fiore di pubblicazioni. Su tutte spicca La scomparsa dell’Italia industriale di L. Gallino, ma vi sono anche il libro di Marta Fana Basta Salari da fame ! e i seguenti articoli, che mettono l’accento su una prospettiva più storica e macroeconomica

https://www.ineteconomics.org/research/research-papers/lost-in-deflation

https://www.deps.unisi.it/sites/st02/files/allegatiparagrafo/21-12-2018/793.pdf

Inoltre, vari spunti sono presenti anche in Lo sviluppo dell’economia italiana dal dopoguerra alla moneta europea di A. Graziani

(16) https://www.money.it/Reddito-Cittadinanza-perde-primo-rifiuto-lavoro

(17) https://pagellapolitica.it/blog/show/1029/abbiamo-davvero-perso-un-milione-di-posti-di-lavoro

(18) https://www.emilianobrancaccio.it/2021/05/29/brancaccio-sul-foglio-il-blocco-dei-licenziamenti-crea-disoccupazione-non-e-provato/

(19) https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/note-covid-19/2020/Nota-Covid-19.11.2020.pdf

 

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