Luigino Bruni, “Il capitalismo e il sacro”

dic 16th, 2021 | Di | Categoria: Recensioni

 

 

Luigino Bruni, “Il capitalismo e il sacro”

 

Il piccolo ma denso libro[1], edito dalla collana “Vita e pensiero” di Avvenire, indaga in una prospettiva storico-ricostruttiva le radici religiose della figura ideale moderna dell’homo oeconomicus, paradigmatica per il sorgere del pensiero economico. Anche in questo lavoro, proseguendo come in altri testi[2] la lettura delle complesse ed ambigue relazioni tra il capitalismo e la religione (occidentale), l’economista e teologo cattolico Luigino Bruni mostra come il capitalismo ottenga la sua vittoria, e la dominante impressione di naturalità, dalla continuità (non priva di tensioni) con la visione cristiana della ricchezza e povertà. In altre parole, la natura religiosa della ricchezza si traduce nel capitalismo non è creata da questo. La potenza della sua funzione simbolica e quindi dei suoi effetti ordinanti la società fin nelle più intime connessioni deriva da questa continuità.

Come scrive, infatti, ed in assonanza con una importante letteratura[3], “il capitalismo è molto di più di un sistema di produzione e distribuzione di beni e servizi: è sistema di segni, è un culto, è una nuova, antichissima, religione”[4]. È quindi necessario, secondo Bruni, per comprendere davvero autori seminali del pensiero economico come Adam Smith e Antonio Genovesi, conoscere e fare mente al dibattito teologico, da Agostino di Ippona a Tommaso d’Aquino. Il capitalismo, insomma, è più un fatto religioso che tecnico. Chi lo volesse criticare deve farlo a partire dal suo essere una forma di vita che celebra dei valori, gli attribuisce culto.

 

In sostanza, come ricorda Pavel Florenskij[5], il motivo per cui il capitalismo è esso stesso una forma di religione è che dà risposta alle stesse domande essenziali. Ma è una strana religione: senza dogmatica e senza teologia fisse, una religione di solo culto. Il capitalismo è, cioè, una forma paradossale di messianesimo. Risponde sostanzialmente alla domanda di salvezza, si radica nei medesimi tormenti e paure ai quali rispondono le religioni.

Ad una religione di tutto culto non si risponde, dunque, con una diversa ‘teologia’ (come se si trattasse di confutarla), ma con un altro culto. Riconoscendo e valorizzando altre esperienze essenziali, facendo leva su altre prassi (per rafforzare le quali è utile avere una propria ‘teologia’, ma non ne è l’essenziale). Esperienze che non siano fondate sui dogmi ora centrali del capitalismo: consumo (il vero Dio, più che il denaro o la vecchia produzione), debitomeritocraziaincentivi.

 

Secondo Bruni si vedono tracce seminali della crisi di questo spirito, forme di consumo comunitario anziché individuale che si affermano; la ripresa di valori come la lealtà, la fedeltà, la passione, il sacrificio, l’autenticità, persino nel nuovo management[6]. L’ideologia neo-manageriale, ad esempio, avverte un vuoto, cerca quindi di riciclare (ovviamente snaturandoli e manipolandoli) codici che derivano dalle esperienze familiari, comunitarie, quindi da ‘culti’ diversi da quello classico-capitalista. I manager di successo riciclano valori nati fuori, ed anche contro[7], che nascono dall’adesione a pratiche conviviali. Da pratiche di riconoscimento paritario, libero, gratuito. Ovviamente come ricorda Bruni tutto questo è sia un segnale (di insufficienza e mancanza di autonomia, di radicamento antropologico, dei valori strettamente capitalisti) quanto una contraddizione ed un pervertimento. Se le imprese che vogliono coinvolgere tutto l’umano nel processo della valorizzazione, attivando quindi le motivazioni simboliche più profonde, fossero conseguenti dovrebbero infatti coinvolgersi nel ‘circolo del dono[8], ma così esse si indebiterebbero. E perderebbe il controllo.

Qui si viene al centro del libro, la gratuità è, abbastanza ovviamente, il grande tabù del capitalismo, quella parola che non si deve pronunciare e che, invece, è propria delle religioni. In questa assenza riposa per Bruni l’idolatria del capitalismo e la sua perversione. Il “dono” è uno dei due principi ordinatori fondamentali delle società pre-capitaliste, insieme alla gerarchia, e quindi è il creatore di Ordine. Invece lo spirito del mercato, quando si autonomizza (ed avviene solo nel capitalismo), uccide questo complemento della gerarchia. Dalla uccisione del dono, dice Bruni, nasce il contratto e lo scambio commerciale. Il capitalismo è quindi essenzialmente gerarchia senza dono, senza impegno reciproco, è questo che gli dà il suo carattere oppressivo e, in fondo, inumano.

Quindi, come mostrava anche Hugo Assmann in “Idolatria del mercato[9], il capitalismo è come ogni religione una cultura sacrificale. Ma più di tutte le altre è sacrificio senza remissione, senza grazia. Un moloch al quale bisogna sacrificare se stessi, ottenendo in cambio solo polvere (la polvere di innumerevoli merci che non possono riempire di senso la vita). Il capitalismo, al contempo, lontano dall’autentica logica del sacrificio (cioè dall’economia del debito reciproco che comporta), è un sacrificio a senso unico, non si sente mai in debito.

 

Per questo ci tradisce sempre[10].



[1] - Luigino Bruni, “Il capitalismo e il sacro”, Vita e pensiero 2019.

[2] - Di cui abbiamo giù letto, “Il mercato e il dono”, Università Bocconi, 2015, nel quale descrive l’economia civile della tradizione che proviene dall’economista napoletano Antonio Genovesi (morto 1769), autore di “Lezioni di economia civile”, 1765 (il primo trattato di economia europeo, nove anni prima de “La ricchezza delle nazioni”) e nel quale mostra come il capitalismo abbia natura religiosa, simbolica e spirituale; quindi “Fondati sul lavoro”, Vita e Pensiero 2014, nel quale ricostruisce la tradizione che nel monachesimo inquadra il lavorare come rapporto di cura e custodia della terra. E quindi anche come dono, reciprocità, vocazione. Nel piccolo “La piramide delle vittime”, una lettura del libro di Qoèlet nell’Antico Testamento, ed, infine, in “L’arte della gratuità”. Vita e Pensiero 2021.

[3] - Quella di autori come Karl Marx (in particolare nel III libro del Capitale), Max Weber (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904), Werner Sombart (“Il capitalismo moderno”, 1902), Walter Benjamin (“Il capitalismo come religione”, 1921).

[4] - Bruni, “Il capitalismo e il sacro”, cit., p. 11

[5] - Che, parallelamente a Benjamin, ma in altro contesto, tiene un ciclo di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca, tra agosto ed ottobre del 1921. Entrambi dicono in certo senso l’opposto di Max Weber, l’intramondano non viene desacralizzato dal razionalismo capitalista, ma il sacro si sposta in esso.

[6] - Op.cit., p. 45

[7] - Riferimento ad Eve Chiappello e Luc Poltansky, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2015

[8] - Cfr, Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, 1923, e, per restare sullo stesso autore, Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”, cit.

[9] - Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”, 1989.

[10] - Attenzione, è pur ovvio che ci tradisce quando, non sentendosi in debito (ed autorizzando i suoi agenti e sacerdoti a sentirsi liberi dal legame sociale), il buon ‘capitalista’, ad esempio, si sente moralmente autorizzato a licenziarci al primo turbamento di ‘mercato’, a farci passare da un sacrificio all’altro, mai ripagato. A tenerci nel circuito dei ‘lavoretti’. Ma tradisce anche il manager, preso nella medesima macchina de-umanizzante, costantemente in corsa verso nulla, che produce solo oggetti e svuota relazioni. Tradisce anche chi premia, nel momento in cui il prezzo del successo è la corsa nella ruota dei criceti, ancora, ed ancora, ed ancora. Per poi essere buttati a lato, quando si perde il ritmo. Corsa continua, disperata, stordente, che assorbe la vita.

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