AUTOPRESENTAZIONE DI COSTANZO PREVE

gen 7th, 2022 | Di | Categoria: Primo Piano

AUTOPRESENTAZIONE DI COSTANZO PREVE [SCRITTA DA LUI MEDESIMO]

Dal momento che non sono collegato ad Internet e quindi non dispongo di un blog personale, alcuni amici mi hanno cortesemente chiesto di scrivere una sintetica autopresentazione per poterla poi mettere in Rete. Accetto con gratitudine.

Esporrò questa autopresentazione in alcuni punti successivi, che anticipo subito:

1.     Breve autocertificazione. Dall’illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e creativo.

2.     La centralità della storia della filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte universalistico veritativo.

3.     Un’interpretazione originale del pensiero di Karl Marx (1818-1883).

4.     Un’interpretazione originale della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.

5.     Un’interpretazione della dinamica complessiva di sviluppo del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991)

6.     Un’interpretazione della natura globale del “capitalismo assoluto”, postborghese e postproletario, che caratterizza l’attuale momento storico.

7.     Breve esposizione delle mie opinioni politiche e geopolitiche nell’attuale momento storico.

8.     Breve esposizione delle mie opinioni ideologico-culturali nell’attuale momento storico.

Spero che questa esposizione in otto punti, di diseguale importanza scientifica, filosofica ed autobiografica, possa contribuire a rimettere l’eventuale discussione critica sul mio modesto pensiero su binari più razionali e meno inquinati dai gossip e dalle affrettate ed irresponsabili falsificazioni. Ovviamente esse non cesseranno e non possono cessare, perché nutrono la società dello spettacolo (Debord) e della chiacchiera, curiosità ed equivoco (Heidegger). E tuttavia ci si rivolge sempre idealmente al “popolo invisibile” delle persone serie e desiderose di discutere sulla base di informazioni veridiche e di stimoli critici.

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1. Breve autocertificazione. Dall’illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e creativo.

Le autocertificazioni autobiografiche devono essere sempre prese con le pinze. La psicoanalisi freudiana ci insegna come il soggetto si costruisce la propria storia passata ed il proprio profilo presente sulla base di una lunga storia di rimozioni, sublimazioni ed adattamenti. Anche i matti si autocertificano come Napoleoni, ma non per questo possono sfuggire ad una visita psichiatrica. E tuttavia anche le autocertificazioni ci possono dire qualcosa su di un individuo.

Nessuno sfugge all’influenza determinante del tempo storico e dell’ambiente sociale in cui è “gettato” dalla casualità dell’incontro dei propri genitori. Nel mio caso la prima decisione esistenziale (fine anni cinquanta – inizio anni sessanta) fu quella di non accettare l’insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo piccolo-borghese dell’Italia dell’epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non l’unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l’anarchismo, gli stili di vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici, sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava “comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo essersi autoproclamiti esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo. La storia ci offre molti esempi di questo tipo.

E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell’ambiente che mi era più vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità ideologiche dominanti erano quelle dell’antifascismo azionista e dell’operaismo sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee, esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui riconoscermi, ma da un’inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse sia per l’antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per l’identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici, compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi “militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna.

Dato il clima intellettuale del periodo storico (1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non potevo che essere attratto dalla figura dell’ “intellettuale”, nella doppia versione dell’intellettuale impegnato (Sartre) e dellì’intellettuale organico (Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più nemmeno un “intellettuale”. So bene che all’interno della divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all’interno di una gerarchia differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso “intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E tuttavia gli intellettuali a partire da fine ottocento sono un gruppo sociale specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro possono anche essere “intellettuali”, così come un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore. E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati.

Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire sia pure brevemente il perché.

L’intellettuale impegnato (engagé) è quello che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile, corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli rivoluzionari si impegna per l’esportazione imperialista armata dei cosiddetti “diritti umani”, oscena protesi ideologica dell’impero americano distruttore della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello della comprensione del mondo ma è quello dell’ “impegno”, si passa la vita in una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad esempio, Sartre si “impegnava” per l’Algeria, ma per la Palestina no (probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari dell’umanità”.

L’intellettuale organico è l’intellettuale che, sulla base dell’interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario (vedi punto 6), si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o “operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere l’organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione della società. Il fallimento è assicurato, ed il novecento ne è stato uno scenario teatrale gigantesco.

Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera).  Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo.

Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare.

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2. La centralità della storia della filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte universalistico veritativo.

Io mi sono formato non solo professionalmente ma anche esistenzialmente come studioso di storia della filosofia occidentale. Questo studio ha caratterizzato la mia intera vita (oltre che permettermi di guadagnarmi uno stipendio ed una pensione), e sarebbe quindi sciocco rimuoverlo come qualcosa di poco rilevante. Il mio stesso interesse per Marx ed il marxismo successivo è inseparabile dalla loro collocazione adeguata nel corso di questa storia della filosofia.

A differenza di quanto accade nella pratica concreta delle scienze naturali moderne, in cui esiste una differenza di principio fra la storia delle scienze e la codificazione sistematica dei paradigmi scientifici ritenuti unanimemente validi dalla comunità mondiale degli specialisti, nella filosofia invece la pratica filosofica non può mai essere unificata in un solo paradigma unanimemente accettato, e quindi non può mai essere svolta senza un ritorno contestuale all’intera storia della filosofia precedente.

Nelle scienze naturali moderne (il discorso sarebbe diverso per le scienze sociali, il cui statuto è “intermedio” fra le scienze naturali e la filosofia, senza però identificarsi con nessuno dei due) è possibile raggiungere grandi risultati e diventare premi Nobel senza disporre di serie conoscenze sulla storia della propria disciplina. Naturalmente la conoscenza di questa storia può diventare un concreto fattore positivo quando ci si trova di fronte a delle crisi di paradigma (Thomas Kuhn), in modo da favorire il coraggio innovativo, ma resta comunque il fatto che è possibile essere ottimi scienziati specialisti senza disporre di conoscenze approfondite nella storia della propria scienza. Tutto questo è assolutamente impossibile nel campo della filosofia.

La pratica della filosofia non coincide ovviamente con la conoscenza della storia della filosofia. Ma essa ne presuppone l’assimilazione profonda. Non è un caso che oggi l’impero americano, nel suo tentativo simbolico di azzerare tutto il passato al di fuori della promessa biblico-messianica con cui legittima la sua pretesa imperiale, istituzionalizzi nei suoi apparati universitari una pratica della filosofia “analitica” priva di dimensione storica. Se per “filosofia analitica” si intende l’analisi semantica dei concetti, essa non nasce a Los Angeles o a Cincinnati ma nasce con Aristotele di Stagira. Ma qui il tentativo di fare filosofia senza storia della filosofia esprime simbolicamente il “creazionismo” dei concetti da zero, cancellando la storia precedente come poco rilevante. Sia pure a mio avviso poco soddisfacente ed insufficiente per il suo ostentato relativismo la correzione di Richard Rosty sulla filosofia come “conversazione dell’umanità” rivela l’autoconsapevolezza dei migliori filosofi americani di oggi della natura folle della pratica astorica della filosofia analitica.

La prima storia della filosofia occidentale fu la classificazione fatta da Aristotele e dai filosofi precedenti sulla base della teoria tassonomica delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale). Questa teoria è del tutto astorica ed inadeguata, e proprio per questa sua astoricità è divenuta il modello di tutti i manuali di storia della filosofia. Con questo, Aristotele resta ovviamente un grande, anzi un grandissimo, ma sarebbe assurdo chiedergli cose che al suo tempo non potevano essere prodotte culturalmente, dalla relativizzazione storica della schiavitù alla teoria darwiniana dell’evoluzione, dal modello cosmologico copernicano alla teoria dialettico-materialistica della genesi storica e sociale delle categorie del pensiero, che presuppone la non ancora esistente ai suoi tempi teoria marxiana dei modi di produzione sociali.

L’avvento del cristianesimo non poteva certamente migliorare questa situazione, ma anzi la peggiorò. Se in Aristotele la classificazione filosofica si basava sul presupposto astratto ed astorico della tassonomia aprioristica delle quattro cause, con l’avvento del nuovo monoteismo rivelato la filosofia  diventa “ancella della teologia” e la sua pratica passa sotto il controllo di apparati ecclesiastici che hanno anche il potere di persecuzione e di interdizione. L’ultimo esempio storico (per ora) di questa subordinazione della libera pratica filosofica ad apparati teologici dotati di protesi poliziesche armate è stato quello della teologia atea del materialismo dialettico sovietico, il cui studio è enormemente facilitato dall’accurato studio di sistemazioni teologiche precedenti (confucianesimo imperiale cinese, ordini francescani, domenicani e gesuiti, eccetera).

L’illuminismo settecentesco e Kant riportano lo studio della storia della filosofia su basi razionalistiche e non più subordinate alla compatibilità coattiva con la teologia. In un certo senso, si tratta di un ritorno al metodo aprioristico delle quattro cause di Aristotele. Ma tutti gli apriorismi, da Aristotele a Kant, mostrano un (spesso involontario ed in buona fede) rifiuto della storicità, e della consapevolezza per cui le categorie filosofiche non hanno solo la storicità della loro discussione pluralistica differenziata successiva, ma hanno anche la storicità della loro genesi e del loro sviluppo.

E’ stato il grande Hegel il primo pensatore che ha messo a mio avviso su basi metodologiche corrette la storia della filosofia occidentale, il che non significa ovviamente che non abbia potuto sbagliare o essere “ingeneroso” su singole valutazioni particolari (Epicuro, eccetera). La storia della filosofia di Hegel rifiuta sia la subordinazione alla teologia (Tommaso d’Aquino, marxismo sovietico, eccetera), sia la classificazione aprioristica sulla base di tassonomie astratte (teoria delle quattro cause di Aristotele, terza via fra razionalismo ed empirismo in Kant, eccetera). La storia della filosofia diventa il percorso progressivo dei grandi dell’autocoscienza razionale dell’umanità, e questa impostazione si vuole direttamente polemica con la concezione della storia della filosofia come successione di “opinioni” largamente casuali dei filosofi, ed anche della storia della filosofia come semplice “contestualizzazione” dei sistemi di pensiero al periodo storico e geografico dato.

Quella di Hegel è stata ovviamente una rivoluzione nella storia della filosofia, che l’ha messa su basi più solide di quelle precedenti di Aristotele e di Kant. Tuttavia essa soffriva di alcuni difetti strutturali, che sarebbe sbagliato sottacere. In primo luogo, non c’era (e non ci poteva essere) una vera deduzione sociale delle categorie filosofiche, per il semplice fatto che Hegel non ignorava soltanto la teoria dell’evoluzione di Darwin, ma ignorava soprattutto la teoria dei modi di produzione sociali di Marx. In secondo luogo, c’era una sottovalutazione evidente ed anzi ostentata delle tradizioni filosofiche non occidentali (indiana, cinese, eccetera), in quanto la storia del pensiero umano era fatta iniziare con il solo mondo greco. In terzo luogo, la storia della filosofia era ricostruita come una sorta di “grande narrazione” rigida e monolineare, in cui non erano di fatto consentite delle “uscite laterali”, e tutto l’apparato concettuale era cucito insieme in un solo grande nastro. In quarto luogo, infine, questo mirabile apparato concettuale di fatto “precipitava” teleologicamente in un punto, e questo punto diventava di fatto il coronamento finale insuperabile di tutte le possibili filosofie, e cioè la sistemazione hegeliana dell’idealismo.

Questi quattro difetti (ed altri ancora che qui trascuro per brevità) non distruggono però il grande avanzamento effettuato da Hegel nei confronti del precedente astrattismo aprioristico di Aristotele e di Kant. Gli insulti di Schopenhauer e di Kierkegaard ed i rilievi di Feuerbach e di Trendelenburg, infatti, non toccano il cuore teorico dell’impresa hegeliana, che sta appunto nell’aver cercato di “concretizzare” storicamente le vicende del pensiero filosofico superando sia la subordinazione servile alla teologia sia le classificazioni aprioristiche di Aristotele e di Kant. Che poi questo sia avvenuto con difetti anche gravi è oggetto di collocazione e di contestualizzazione storica posteriore.

E veniamo a Marx, o più esattamente alla rivoluzione marxiana, che non può che riguardare anche la storia della filosofia così come si era svolta fino a lui. E tuttavia Marx non si è mai occupato del problema della storia della filosofia occidentale, ma solo della critica dell’economia politica e della teoria della successione storica dei modi di produzione. Il suo contributo al tema che ci interessa non può quindi che essere indiretto, implicito e metodologico. Esso non deve essere cercato nelle opinioni pur acute che ha espresso su singoli filosofi (Democrito, Epicuro, Aristotele, Feuerbach, Hegel, eccetera). Esso deve essere cercato nel suo metodo “materialistico” di deduzione sociale delle categorie, metodo da tenere ben distinto dalla deduzione trascendentale di Kant ed anche dalla catena teleologica e di fatto necessitata di Hegel. Nessuno può allora parlare “in nome di Marx”, oppure ritenere di sapere “che cosa avrebbe detto Marx”. Queste sono sciocchezze religiose. Il problema sta nel sapere se Marx apra un campo metodologico più produttivo di quello di Aristotele, Kant o Hegel nello specifico campo della ricostruzione razionale della storia della filosofia occidentale.

A mio avviso sì. Utilizzando criticamente il metodo di Marx si può tentare di disegnare una ricostruzione della storia della filosofia sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, da non confondere con la semplice “aggiunta integrativa” di informazioni sul contesto storico. E tuttavia, questo utilizzo del metodo marxiano non può essere disgiunto da una serie di spregiudicate critiche allo stesso Marx.

In primo luogo, bisogna respingere l’idea utopica dell’abolizione della filosofia nel senso della sua integrale realizzazione. Si tratta di un’utopia escatologica di origine romantica, che a sua volta era l’esito di una maldestra secolarizzazione di una precedente escatologia religiosa di tipo messianico. La filosofia è invece un’attività umana permanente, che trova la sua radice antropologica nel “domandare” umano sul senso complessivo dei destini individuali e collettivi.

In secondo luogo, la negazione di fatto compiuta da Marx della concezione filosofica veritativa di Hegel, cui Marx intende sostituire integralmente una concezione “scientifica” (nel senso di liberata da presupposti filosofici) della conoscenza della natura e della società, porta e non può non portare ad una forma di nichilismo ontologico, nichilismo ontologico che assume la forma del relativismo sociologico. In questo modo la filosofia è di fatto ridotta ad ideologia, o meglio a copertura sofisticata di interessi sociali di classe. Ma se Platone “esprime” gli interessi della classe aristocratica ateniese e Kant “esprime” gli interessi della protoborghesia tedesca nascente, eccetera (ed inoltre Gentile esprime gli interessi del fascismo, Lukács dello stalinismo e Heidegger del nazionalsocialismo), allora la filosofia perde ogni valenza veritativa universalistica ed è di fatto ridotta alla sua “ricaduta” ideologica. Se si persevera su questa strada si evita certamente lo Scilla della classificazione astorica ed aprioristica (Aristotele, Kant, e soprattutto il 95% della manualistica in cui la filosofia è ridotta a dossografia, e cioè ad elencazinoe diseducativa di opinioni), ma per cadere nel Cariddi del relativismo sociologico degli “interessi economici” sublimati ideologicamente in pretese di verità eterne più o meno trascendentali.

Per passare fra Scilla e Cariddi bisogna disporre di una nave robusta e di un buon pilota. Occorre quindi tenere insieme concretamente il punto di vista della genesi sociale e storica delle categorie filosofiche con il punto di vista dell’autonomia e della veritatività della conoscenza specificatamente filosofica. La storia della filosofia è una disciplina che prima di tutto insegna l’umiltà, perché occupandoci di Platone Spinoza o Hegel ci liberiamo delle velleità narcisistiche di onnipotenza e scopriamo che ciò che vorremmo dire è già stato detto in passato ed ancora meglio di quanto riusciamo a fare noi. Ma a fianco dell’umiltà essa ci insegna anche il coraggio, e cioè il coraggio di tentare interpretazioni nuove e di osare anche la manifestazione del nostro dissenso con “mostri sacri” che restano ciò nonostante al di sopra di noi (Spinoza, Marx, Hegel, eccetera).

Ed è appunto ciò che oserò fare nel prossimo terzo paragrafo.

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3. Un’interpretazione originale del pensiero di Karl Marx (1818-1883).

Da più di un secolo il profilo espressivo complessivo del pensiero di Karl Marx è oggetto di interpretazioni di alto livello filologico e teoretico, e allora la “concorrenza” è forte. La fusione ideologico-storica fra interpretazione di Marx e politica del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991) ha creato per quasi un secolo un clima “medioevale”, in cui la libera discussione su Marx era subordinata al controllo poliziesco di apparati inquisitori di partito e di stato. L’attuale situazione, in cui la discussione su Marx è di fatto sequestrata da apparati specialistici universitari di “sinistra”, che la mescolano spesso con il Politicamente Corretto e con la cultura radicale post-sessantottina (pacifismo, femminismo, eccetera), è solo apparentemente migliore della precedente, in quanto almeno non c’è da temere l’incarceramento e la morte, ma è altrettanto insoddisfacente, perché la persecuzione ideologica precedente rivelava pur sempre indirettamente la rilevanza storica gigantesca del pensiero di Marx, mentre l’incorporazione attuale in alcuni apparati universitari globalizzati anglofoni di “sinistra” ne testimonia la sostanziale irrilevanza. E’ possibile però che la situazione attuale sia provvisoria, ed il pensiero di Marx, opportunamente modificato e revisionato, possa riacquistare fra qualche decennio una funzione politica rivoluzionaria. Improbabile è però che tutto questo possa avvenire nel corso della mia vita terrena.

Fra i molti esempi possibili, ricordo qui i due profili complessivi di Marx proposti da Karl Korsch negli anni trenta e da Louis Althusser negli anni sessanta del novecento in Europa. Tralasciando qui le importanti differenze fra il teorico tedesco e quello francese ricordo che in entrambi i casi si è di fronte ad un sostanziale rifiuto di intendere Marx come un filosofo della storia. Per Korsch Marx è un teorico del solo modo di produzione capitalistico, e non di un’intera storia universale, ed il criterio della scientificità dei suoi enunciati sta nella capacità reale del soggetto operaio, salariato e proletario di agire collettivamente in modo realmente anticapitalistico. Per Althusser Marx è stato lo scopritore scientifico del Continente Storia, e questa scoperta scientifica implica la riduzione dello spazio filosofico a semplice spazio epistemologico, “scaricandone” tutte le precedenti illusioni metafisiche, umanistiche e storicistiche, e recuperando nello stesso tempo un concetto di critica dell’economia politica come spazio di lotta di classe integrale nei rapporti di produzione.

Ho voluto partire dalle interpretazioni classiche di Korsch e di Althusser, che pure considero di altissimo livello critico e di grande interesse storiografico, per poter affermare subito per differenza il mio radicale dissenso con il loro approccio. Io ritengo infatti che la capacità rivoluzionaria della classe operaia, proletaria e salariata non debba essere messa a criterio in ultima istanza della cosiddetta “scientificità” del marxismo (Korsch), e non ritengo affatto che lo statuto filosofico del pensiero di Marx debba essere eliminato in nome di una pura “scienza strutturale” della società capitalistica (Althusser). Ritengo inoltre che Marx sia filosoficamente un idealista e politicamente un comunitarista, anche se questi “ismi” sono del tutto ingannatori ed inadeguati. Penso inoltre che quella di Marx sia a tutti gli effetti una filosofia della storia. Ma andiamo con ordine.

L’ispirazione unitaria del pensiero di Marx sta certamente nell’idea di critica, e più esattamente di critica radicale dell’esistente. Critica dell’economia politica borghese-capitalistica, prima di tutto, ma anche critica del diritto, critica della religione, critica della filosofia, eccetera. In questo senso, Marx non è allievo di Hegel, perché Hegel aveva arrestato la sua critica al presente, sottraendo questo presente stesso alla sua critica spietata. E nello stesso tempo Marx resta un allievo del suo metodo e della sua ispirazione, perché Hegel aveva trasformato l’intero spazio della storia della filosofia e della società precedenti in uno spazio di critica radicale. Ciò che Marx fa, e che Hegel non aveva fatto, è estendere il metodo critico al presente. Se comunque prestiamo attenzione al fatto che Hegel aveva criticato realtà politico-economiche a lui contemporanee (giacobinismo francese, liberalismo inglese, conservatorismo di Metternich, eccetera), vediamo che anche su questo punto Marx non era poi così lontano da Hegel.

La radice hegeliana del pensiero di Marx sta però in due specifiche “eredità” hegeliane, e cioè nella sua elaborazione ulteriore di due figure hegeliane precedenti, le figure del riconoscimento del lavoro dello schiavo rispetto al signore e dell’elaborazione della cosiddetta “coscienza infelice”. E’ questo il punto da cui partire per cominciare a delineare un profilo espressivo di Marx in quanto pensatore complessivo. Entrambe queste figure provengono dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel del 1807, il capolavoro che fa da presupposto filosofico del Capitale di Marx del 1867. Non solo, ma queste due figure, convenientemente elaborate dialetticamente, fanno da presupposto indiretto alla teoria marxiana dell’alienazione, la quale a sua volta fa da presupposto al modo specifico in cui Marx tratta la teoria del valore-lavoro.

In breve, i passaggi sono tre:

( a ) Elaborazione dialettica delle due figure hegeliane del riconoscimento del riconoscimento del lavoro del servo e della coscienza infelice. Il servo prende coscienza attraverso il lavoro  di essere il creatore della ricchezza con cui vive il signore e ne cerca il riconoscimento, che però è impossibile finché lo sfruttamento sta alla base della riproduzione sociale complessiva. Il borghese rpende coscienza – e ne resta così inquieto, o meglio “infelice” – che il suo universalismo razionalistico è illusorio ed impossibile finché permane lo sfruttamento, e da questa coscienza infelice (che per Hegel è ancora pienamente religiosa, ma che Marx poi laicizza, o se vogliamo “secolarizza”) si origina la specifica filosofia della storia di Marx, basata sulla progressione dei tre momenti successivi della dipendenza personale (forme di sfruttamento precapitalistico), indipendenza personale (forme di sfruttamento borghese-capitalistico), ed infine libera individualità (comunista).

( b ) Il concetto di alienazione, lungi dal secolarizzare la tesi religiosa della rottura di un’unità originaria e la conseguente formazione di un “mondo a testa in giù” (Lucio Colletti), e lungi dallo  “spostamento semplice” dalla critica religiosa di Feuerbach alla critica dell’economia politica di Marx, deve essere inteso come “ricaduta antropologica” ed esistenziale della lotta per il riconoscimento del lavoro del servo e della coscienza infelice per l’impossibilità della universalizzazione reale dei valori umanistici borghesi. Ma il riconoscimento integrale è incompatibile con lo sfruttamento, e così pure è incompatibile l’universalizzazione reale con il mantenimento dello sfruttamento.

( c ) L’analisi marxiana del valore presuppone l’acquisizione del concetto di alienazione. Questo non significa, a rigore, che vi sia un’equazione integrale fra teoria filosofica dell’alienazione e teoria economica del valore (Lucio Colletti e Claudio Napoleoni sulla scorta della tesi di Isaac Rubin avanzata già negli anni trenta). Significa però che c’è un rapporto di dipendenza fra la premessa filosofica dell’alienazione e la conseguenza economica della teoria del valore di scambio della forza-lavoro umana come scambio ineguale sotto l’apparenza dello scambio di equivalenti.

In base a questa sommaria ricostruzione si ha una prima conclusione: il pensiero di Marx sorge dall’elaborazione della coscienza infelice del mancato universalismo reale (o, se si vuole, “materiale”) delle stesse promesse del precedente universalismo borghese. Essa è quindi il prodotto di un momento autocritico radicale della forma di coscienza “borghese”, che si è poi “incontrata” in un secondo tempo con un autonomo processo “proletario” di contestazione dell’esistente. E’ possibile connotare questo incontro teorico come un incontro “pratico” fra l’idealismo (coscienza infelice dell’impossibilità universalistica delle promesse borghesi) ed il materialismo (autonomo movimento di rivendicazioni materiali da parte dei nuovi ceti di lavoratori salariati e “proletarizzati” dall’accumulazione primitiva borghese del capitale).

Accertato questo primo punto, passiamo al secondo. Ed il secondo sta in ciò, che bisogna ridiscutere dalle fondamenta il problema della dicotomia fra Idealismo e Materialismo in Marx.

Il profilo filosofico complessivo di Marx non ha soltanto “tracce giovanili di idealismo  poi superate” (Althusser), oppure “contatti con l’idealismo di Hegel pur all’interno di un rigoroso materialismo” (Lukács), ma è invece idealistico al cento per cento, nel senso dell’idealismo monomondano moderno che ha come “scienza filosofica” di riferimento la Storia, o più esattamente la storia universale dell’intera umanità pensata unitariamente come unico concetto trascendentale riflessivo e caratterizzata da una dialettica triadica. I riferimenti moderni della filosofia di Marx sono molti, ma i principali possono essere trovati in Spinoza, Rousseau, Fichte ed infine naturalmente Hegel, riferimento massimo e principalissimo. Non ha dunque senso alcuno parlare di marxismo anti-hegeliano, ma neppure di marxismo hegeliano. Questa contrapposizione dicotomica è fatta per fuorviare ed ingannare. Marx è un filosofo idealista indipendente, con caratteristiche specifiche ed inimitabili, ed ogni “comparazione” finisce per fare torto alla sua marcata e specifica originalità.

L’idealismo di Marx si basa sulla centralità del presupposto della centralità della storia universale dell’umanità pensata come unico concetto trascendentale riflessivo, e quindi necessariamente “ideale”. Secondo il modello di Hegel (ben distinto dal modello dell’idealismo di Platone basato sulla partecipazione e sull’imitazione e dal modello neoplatonico basato sul progressivo allontanamento da una unità primitiva ed originaria), l’Idea diventa Spirito, e cioè idea autocosciente di sé, soltanto attraverso un processo di “alienazione” in cui si sviluppa dialetticamente il “potere del negativo”. Per Marx la comunità originaria viene presupposta (senza nessuna tentazione primitivista o naturalistica di tipo russoviano), ma non è pensata come origine di una rottura semplice alienata “a testa in giù” (Lucio Colletti, letture variamente religiose di Marx). La storia si svolge progressivamente come insieme di scissioni, ed a loro volta le scissioni vengono indagate nella forma dei rapporti classistici dicotomici dei diversi modi di produzione. L’ultimo modo di produzione storico preso in considerazione da Marx, quello borghese-capitalistico, fa anche da presupposto per il possibile (nel senso della potenzialità aristotelica del dynamei on, vedi Vadée) rovesciamento dialettico nel comunismo. Ed il comunismo per Marx coincide di fatto con l’autocoscienza dello Spirito in Hegel (Geist), in quanto l’umanità può essere finalmente messa in grado di riconoscere se stessa nella sua storia (oppure, detto in linguaggio darwiniano, l’anatomia dell’uomo è la chiave per capire l’anatomia della scimmia, e non viceversa).

Questo profilo filosofico complessivo integralmente idealistico pensa però se stesso (in falsa coscienza necessaria, per usare una concettualizzazione marxiana) attraverso la metafora obbligata del materialismo e del concetto metaforico di Materia. Questo concetto, tuttavia, lungi dall’essere soltanto metaforico ed “ornamentale”, produce effetti reali di conoscenza, e permette di concettualizzare spazi conoscitivi ed ideologici particolari. Ne elenco qui in particolare cinque, di importanza diversa. Non è necessario gerarchizzarli, ma se lo si vuole fare è sempre possibile farlo:

(1)   La materia è metafora di prassi, ed in particolare di prassi rivoluzionaria anticapitalistica, che si opporrebbe alla presunta “contemplazione passiva” idealistica. In realtà l’idealismo (Fichte, eccetera), lungi dall’essere un pensiero della contemplazione o della “interpretazione” (tesi su Feuerbach del giovane Marx), è per natura un pensiero della trasformazione attiva (vedi in Fichte rapporto tra Io e Non-Io).

(2)   La materia è metafora di struttura. La società non viene così “idealisticamente” considerata come un tutto retto da opinioni, convinzioni, idee e valori etici trascendentali e/o razionalistico-immanentistici, ma viene storicizzata in successione di modi di produzione ed infine ideologie e sistemi ideologici oppositi di giustificazione e/o di contestazione.

(3)   La materia è sinonimo di ateismo, e cioè di inesistenza di Dio inteso come demiurgo materiale del mondo e come giudice in ultima istanza del bene e del male. Viene così chiamato “materialismo” il punto di vista della autopoiesi progressiva materiale dell’universo senza alcun intervento progettante divino e della connessa origine genetica dei valori morali e religiosi all’interno dello sviluppo storico.

(4)   La materia è metafora della fragilità umana individuale e delle connesse necessità del solidarismo comunitario. L’uomo è un animale particolarmente fragile e “non-specializzato”, riduttore della complessità e del carico di stress (Belastung), ed è quindi ad un tempo necessario e giusto che viva in una comunità solidale, forma sociale “materialmente” corrispondente all’idealità della sua autocoscienza complessiva di superamento dell’alienazione.

(5)   La materia è metafora della necessaria contrapposizione dicotomica nel mondo borghese capitalistico per pensare il concetto di “libertà”, opponendo la libertà formale (borghese) alla libertà materiale (comunista). Marx è infatti un pensatore della libertà,  ed il considerarlo un pensatore del livellamento egualitario forzato è un errore filologico e filosofico.

Queste cinque specificazioni metaforiche di “materia” non esauriscono il tema, ma sono sufficienti per rimettere su nuove basi il problema dell’interpretazione complessiva del profilo di Marx. Non si parla qui dei suoi contributi “economici” (teoria della crisi capitalistica, teoria del plusvalore assoluto e relativo, eccetera). Si parla qui esclusivamente del suo profilo complessivo di pensatore. E questo è il secondo punto che mi premeva di chiarire.

Il terzo ed ultimo punto sta nel fatto che in Marx c’è ovviamente il “classismo”, con  le connesse teorie fondanti della lotta di classe e della dittatura del proletariato, ma questo classismo è un mezzo e non un fine, ed è anzi messo al servizio di una forma di comunitarismo. La tattica è il classismo, ma la strategia storica è il comunitarismo. Sia Aristotele che Hegel possono essere considerati dei precursori dello specifico comunitarismo di Marx. Né Aristotele né Hegel sono ovviamente “comunisti”, ma su questa ovvietà non ha neppure senso soffermarsi. Lo specifico “comunitarismo comunista” di Marx, che ha come fondamento ontologico-antropologico il concetto di “ente umano naturale generico” (Gattungswesen), non deve essere ovviamente confuso con le varie forme preborghesi di comunità (Gemeinschaft), che hanno nutrito la polemica della cultura moderna di “destra” contro l’individualismo borghese.

Riepiloghiamo: bisogna avere il coraggio di proporre un’interpretazione complessiva di Marx, sapendo perfettamente che essa non può mai essere né quella “giusta” (non avendo mai lo stesso Marx sistematizzato e coerentizzato le sue concezioni), né tantomeno quella “definitiva”, perché ogni generazione storica ha sempre il diritto ed il dovere sovrani di reinterpretare i grandi pensatori; il pensiero di Marx è il prodotto di una particolare elaborazione della coscienza infelice della protoborghesia europea del tempo della giunzione di tre componenti teoretiche (illuminismo, romanticismo e positivismo), che si incontra con un’autonoma corrente di opposizione proveniente dalle classi subalterne, operaie, salariate e proletarie; il pensiero di Marx è una forma integrale, rigorosa, radicale e soprattutto originale di idealismo, che utilizza metaforicamente il concetto di materia (e di conseguenza di materialismo) in cinque principali significati, che a loro volta però producono decisivi “effetti di conoscenza”; infine, la filosofia politica di Marx è una forma di comunitarismo, che utilizza il classismo proletario esclusivamente come mezzo tattico di contestazione del capitalismo.

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4. Un’interpretazione originale della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.

Ci si aspetterebbe che il metodo di Marx venisse prima di tutto applicato a se stesso, dando luogo non solo ad una valutazione critica “marxista” di Marx stesso (che non può ovviamente coincidere con la riproduzione acritica delle opinioni soggettive con cui lo stesso Marx interpretava se stesso), ma ad una storia marxista del marxismo e dei marxismi successivi. Niente di tutto questo. Sono in circolazione dossografie “opinionistiche” di storia del marxismo di carattere partigiano-ideologico, in cui ogni corrente esalta se stessa ed insolentisce e demonizza le altre. Questa pittoresca incapacità di autovalutazione “materialistica” (qui il termine di “materia” è usato come metafora di capacità di autoriflessione critica) ha anch’essa ovviamente una spiegazione materiale, dovuta alla precoce religiosizzazione dogmatica del marxismo come ideologia di salvezza e di riscatto delle classi subalterne, precoce religiosizzazione dogmatica che sacralizza la storia, sostituita alla vecchia divinità monoteistica, e che si dota di un apparato clericale ed inquisitorio che sostituisce al libero dibattito il controllo poliziesco sui dissenzienti.

E tuttavia una storia marxista del marxismo resta sempre possibile, purché si distingua preliminarmente fra due dimensioni teorico-pratiche distinte, anche se interconnesse:

(1)   La teoria di Marx è una scienza filosofica nel senso idealistico del termine, che comprende nel suo codice teorico due aspetti di fatto inscindibili, anche se astrattamente separabili, e cioè una interpretazione filosofica della storia universale intesa come concetto unitario trascendentale riflessivo, ed una “ricaduta” epistemologica costituita dal concetto di modo di produzione con le sue tre articolazioni dialetticamente interconnesse (forze produttive, rapporti sociali di produzione, ideologia). In quanto scienza filosofica, la teoria di Marx non può per sua propria natura assumere il profilo delle scienze naturali (Galileo) o delle scienze sociali (Max Weber), in quanto la valutazione morale, o se si vuole il giudizio di valore assiologico (nel nostro caso: il capitalismo è negativo, perché aliena e sfrutta), non può essere separato dalla conoscenza “oggettiva” (o meglio, oggettivata) dei rapporti economici e sociali esaminati.

(2)   La teoria di Marx non è direttamente una ideologia (al massimo, potrebbe essere una cattiva scienza filosofica, o una scienza filosofica migliorabile togliendone gli aspetti deterministici e/o utopici, eccetera), ma nel momento in cui se ne impadroniscono forze sociali reali per utilizzarla come profilo politico identitario di appartenenza, non può necessariamente che assumere un aspetto ideologico. E’ dunque scorretto sostenere che l’ideologizzazione del pensiero di Marx è frutto di un “errore”, di un “fraintendimento”, di un “tradimento”, eccetera.

Anche il marxismo, quindi, deve essere indagato secondo il metodo della deduzione sociale delle categorie. Questo metodo è di difficilissima applicazione (vedi secondo paragrafo), in quanto deve tenere insieme un elemento storico-genetico, necessariamente relativistico e sociologico, con un elemento filosofico-veritativo, che per principio non riduce e non può ridurre la produzione teorica a semplice “riflesso” economicistico di interessi sociali di gruppo. E tuttavia, anche se difficile, si tratta di un metodo perseguibile. Il marxismo successivo a Marx, quindi, deve essere  indagato anch’esso con il metodo della deduzione sociale delle sue categorie, unito alla necessaria consapevolezza dell’intreccio fra la storia del suo codice originario di scienza filosofica e la storia del successivo intreccio delle ideologie di legittimazione, manipolazione ed appartenenza.

Il primo codice marxista sistematizzato e coerentizzato (si noti bene: il primo, non il secondo, perché Marx non è mai stato “marxista”, o lo ha anche esplicitamente dichiarato), fu elaborato e sistematizzato congiuntamente da Engels e Kautsky nel  ventennio 1875-1895. In termini freudiani, si tratta della “scena primaria” del marxismo, quella che non si dimenticherà mai più dopo averla vista. Esso fu elaborato (e non avrebbe potuto essere diversamente) sulla base di una committenza indiretta della socialdemocrazia tedesca del tempo, unita ad un influsso diretto del principale paradigma filosofico-scientifico borghese dominante, quello del positivismo. La chiave metodologica cui applicare la deduzione sociale delle categorie deve quindi prendere in considerazione l’intreccio sociologico-culturale di committenza indiretta (CI) e di influsso diretto (ID). Sapere se il già defunto Marx sarebbe stato d’accordo o meno con questo codice sistematizzato e coerentizzato è cosa da lasciare agli evocatori delle anime dei defunti ed ai lettori di Nostradamus. La mia personale opinione può essere riassunta così: non sarebbe stato d’accordo, ma nello stesso tempo non avrebbe potuto in alcun modo opporsi, ed il suo storicismo un po’ “nichilistico” lo avrebbe probabilmente portato alla storicistica conclusione per cui in fondo il reale era razionale, e se il suo pensiero era stato assimilato in questo modo era impossibile che ciò avvenisse in altro modo.

Il codice marxista originario (1875-1895) era quindi una sorta di Grande Narrazione Positivistica (GNP). Spieghiamoci meglio. Il modello di scientificità positivistica (determinismo, prevalenza del cosiddetto “fattore economico”, irrilevanza della personalità nella storia, eccetera) era innestato su di un discorso ideologico di tipo progressistico-borghese, dando luogo ad un vero e proprio “ircocervo”, e cioè un Determinismo Teleologico Integrale (DTI), per cui il capitalismo sarebbe necessariamente ed infallibilmente evoluto in socialismo. Ritengo che sia antistorico irridere ingenerosamente questo penoso parto metafisico con la consapevolezza dell’oggi. In base alla deduzione sociale della categoria, bisogna relazionare questo modello ormai intollerabilmente obsoleto al tempo storico che lo ha prodotto. In base alla valutazione veritativa, bisogna invece dire che questo modello non solo non era “vero” (e non era neppure certo ed esatto – al massimo  era veridico, nel senso che era creduto veridicamente tale), ma era cattivo. Nello stesso tempo, probabilmente corrispondeva all’incurabile subalternità del suo soggetto di riferimento, che evidentemente “pretendeva” una religione imperfettamente laicizzata, che da un lato corrispondesse alla “vera scienza”delle università borghesi e dall’altro mantenesse la promessa del lieto fine emancipativo della storia. Il problema interpretativo non sta dunque nel capire perché questa penosa metafisica fu prodotta, ma perché in cento anni non è stata sostanzialmente corretta, e nel 1989 è morta più o meno nella stessa forma in cui era stata concepita nel 1889, e cioè un secolo prima. A questa domanda può soltanto rispondere un’analisi storiografica condotta con il metodo della deduzione sociale delle categorie, sia filosofico-scientifiche che soprattutto ideologiche. E qui la dossografia alla Diogene Laerzio, e cioè la noiosa  elencazione delle “opinioni” dei marxisti autoproclamatisi tali (l’autoproclamazione è un criterio simile a quella della autocertificazione di essere Napoleone da parte dei matti dei manicomi) non fa che incrementare l’inutile distruzione degli alberi per farne carta, o meglio cartaccia.

Il codice “marxista” socialdemocratico, sublimazione evoluzionistico-deterministica di un blocco sociale europeo già totalmente “neutralizzato” da ogni velleità rivoluzionaria dalla fusione dell’economicizzazione del conflitto (Bauman) con la nazionalizzazione imperialistica delle masse (Mosse), si estinse storicamente fra il 1914 (accettazione del grande macello imperialista da parte delle direzioni politiche e sindacali e dei loro miserabili intellettuali “organici”) ed il 1917 (servile scomunica della rivoluzione russa del 1917). La sua estinzione storica non coincide però con l’estinzione ideologica, che si ripresenta nella storia continuamente (ad esempio nell’ideologia storicistica del PCI fra il 1945 ed il 1989, vero esempio di kautskismo all’italiana insaporito con la vecchia tradizione dell’ipocrisia e della doppiezza linguistica ereditata dalla controriforma cattolica del cinquecento).

Il codice “comunista”, o più esattamente il codice ideologico di legittimazione politica del comunismo novecentesco (1917-1991) presenta sia elementi di continuità che elementi di discontinuità con il precedente codice ideologico socialdemocratico. Si tratta appunto del leninismo, che poi viene sistematizzato da Stalin fra il 1924 ed il 1926 in “marxismo-leninismo”, formazione ideologica che comincia ad entrare in crisi dopo il 1956 e la cosiddetta “destalinizzazione”. La destalinizzazione apre un piano inclinato in cui il marxismo-leninismo non cesserà di precipitare fino alla catastrofe del 1989. Criticato dall’esterno dalla tradizionale eresia trotzkista (la quale era in realtà il frutto di un’ortodossia secondinternazionalistica di estrema sinistra), viene contestato all’interno del movimento comunista dal maoismo cinese, destinato nel corso di un ventennio (1956-1976) a fallire sia in Cina che in Europa, anche se permane come guerriglia rivoluzionaria di contadini poveri (India, Nepal, Perù, eccetera).

Il codice “comunista” continua a conservare elementi socialdemocratici precedenti, primo fra tutti il determinismo teleologico che “assicura” la vittoria finale del socialismo, mentre rompe con il precedente codice socialdemocratico con la pratica della dittatura del proletariato intesa come dispotismo sociale esclusivista di partito. Non si trattò di un errore o di un fraintendimento nei confronti di Marx. Si trattò di un adeguamento obbligatorio alla situazione storica di assoluta incapacità di egemonia pacifica del proletariato sociale sulle classi medie vecchie e nuove, incapacità egemonica che fu necessario “compensare” con misure di dispotismo politico. Antonio Gramsci ebbe ragione nell’individuare nel concetto di “egemonia” il cuore della questione, ma si illuse sul fatto che una classe subalterna potesse diventare “egemonica”, sia pure attraverso la mediazione di improbabili “moderni principi” e di ancora più improbabili “intellettuali organici”.

Il materialismo dialettico sovietico fu la teologia di una classe subalterna, per sua natura incapace di “autocoscienza idealistica” (salvo ovviamente eccezioni, significative, ammirevoli e pur sempre minoritarie). Da un lato, sacralizzò il processo storico nella forma della successione deterministico-teleologica dei cinque stadi, successione positivisticamente divinizzata, e quindi non “superiore” al culto di Padre Pio o del sangue di San Gennaro. Dall’altro, restaurò con l’unificazione delle leggi dialettiche della natura e della società il cuore del pensiero primitivo mondiale, che era appunto basato sull’unità fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. Sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, una classe subalterna non può che produrre un’immagine del mondo arretrata e subalterna.

I gruppi eretici marxisti minoritari elaborarono tutti una “teologia di riferimento”, necessaria per il compattamento del gruppo ed il mantenimento della loro ideologia identitaria di appartenenza politica (anarchismo, comunismo dei consigli, bordighismo italiano, trotzkismi internazionali e nazionali, maoismi europei, asiatici e latino-americani, eccetera). La sostanziale sopravvivenza del trotzkismo, sempre marginale ma anche sempre sopravvissuto, deve essere a mio avviso correlata al fatto che il trotzkismo continua a funzionare come “coscienza infelice” dell’impossibilità storica di applicare un’ortodossia marxiana che sembra inapplicabile, ma di cui si nega pervicacemente l’inapplicabilità inserendo nella storia un “fattore negativo” (la burocrazia, appunto), che gioca lo stesso ruolo giocato dal demonio nelle teologie religiose. Ci si può allora contemporaneamente dichiarare marxisti rivoluzionari ortodossi, da un lato, ed evocare l’elemento diabolico-negativo della burocrazia, spiegandolo “razionalmente” con l’espediente ideologico del cosiddetto “basso livello delle forze produttive”. Il paradigma trotzkista rappresenta un luminoso esempio della teoria di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, sempre rimandate con la continua interpolazione di “aggiunte ad hoc” o di “eccezioni”. A tutt’oggi il codice ideologico trotzkista continua ad essere un fattore attivo per rimandare e rendere difficoltoso il necessario mutamento di paradigma teorico marxista.

In sintesi, tre sono i criteri principali per la composizione di una (non ancora esistente, ma già abbozzata in alcuni lavori pionieristici, fra cui includo anche alcuni miei) storia marxista dei marxismi:

(1)   Applicazione del metodo materialistico-genealogico della deduzione sociale delle categorie allo specifico oggetto storico del pensiero di Marx e dei marxisti successivi, indagati con il metodo dialettico-triadico di origine hegeliana della genesi, dello sviluppo ed assestamento provvisorio ed infine del tramonto e della dissoluzione.

(2)   Distinzione fra la scienza filosofica marxiana originaria e le sue necessaire ricadute ideologiche. Le ricadute ideologiche, quindi, non devono essere indagate in base alle false categorie di errore, fraintendimento, tradimento, eccetera, ma in base all’appropriazione selettiva di temi originari sulla base di interessi collettivi di identità.

(3)   Classificazione delle ricadute ideologiche sulla base dei destinatari sociali differenziati cui queste ricadute ideologiche si rivolgono, direttamente o (più spesso) indirettamente (con acclusa falsa coscienza necessaria di preteso ed inesistente universalismo  e di preteso ed inesistente statuto scientifico. Fra i molti destinatari ne seleziono soltanto quattro:

( a ) Classe dei contadini poveri e medi. Il messaggio marxista è percepito nei termini della riforma agraria radicale, o come collettivizzazione integrale della terra, o come ripartizione egualitaria (contadini poveri e braccianti), o come sostegno statale ai prezzi agricoli ed all’agricoltura (contadini medi). In quanto ai contadini ricchi ed alle imprese capitalistiche in agricoltura, il marxismo è un nemico meritevole di squadroni della morte (America Latina).

( b ) Classe operaia, salariata e proletaria dell’industria e dei servizi moderni capitalistici. Il messaggio marxista è percepito nella forma dello statalismo   assistenziale di “sinistra” (altro che statalismo come fraintendimento del pensiero di Marx!), in cui gli apaprati partitico-statuali devono garantire soprattutto i due parametri della sicurezza del posto di lavoro contro la disoccupazione e dell’assistenzialismo pensionistico, abitativo e medico generalizzato . Ciò non può che comportare inevitabilmente ad un certo punto (dopo la fase dell’industrializzazione primitiva forzata ed accelerata) stagnazione economica,  ipertrofia delle maestranze necessarie, pigrizia ed inefficienza diffusa di massa, parassitismo burocratico, invidia sociale scambiata per nobile egualitarismo virtuoso, ritardo nell’introduzione di tecnologie “risparmia-lavoro”, eccetera.

( c ) Classe alto-borghese, medio-borghese ed in generale agenti sociali della riproduzione capitalistica. Il marxismo è inteso come “aberrazione” di difficile comprensione (Gianni Agnelli), rivolta dei poveracci e dei malriusciti pigri contro la meritocrazia (niccianesimo popolare reazionario di tipo berlusconiano), parentesi aberrante del secolo ideologico novecentesco, secolarizzazione delle vecchie escatologie religiose nel linguaggio moderno dell’economia politica, apologie della società chiusa contro la società aperta (vulgo: liberalcapitalistica), concretizzazione della demcorazia totalitaria giacobino-russoviana, coronamento del pensiero utopico mostruoso, eccetera. Parlo ovviamente della classe borghese post-1848 (Lukács), priva ormai dei minimi residui religiosi-illuministici-romantici di coscienza infelice. La protoborghesia è infatti parzialmente illuministico-romantica (1789-1848), la “medioborghesia” 1848-1914 è positivistica e protoesistenzialistica nella sua prima fase ed esistenzialistica nella sua seconda fase (1914-1968 circa), ed infine postmoderna ed individualistico-libertaria nella sua ultima fase tardoborghese (dopo il 1968 fino al 1989 circa).

( d ) Gruppo sociale degli intellettuali europei. Il marxismo giunge a loro in una prima fase in una forma positivistica (1875-1914 circa). In una seconda fase, sulla base esclusiva dei due shock delle due guerre mondiali 1914-18 e 1939-45, giunge a loro in una forma esistenzialistica o paraesistenzialistica, come “risposta personalizzata” alla mancanza di senso nella vita nel capitalismo. In una terza ed ultima fase (dopo il 1968 ed ancor più dopo il 1977 ) il postmoderno rappresenta la via di dissoluzione della precedente coscienza esistenzialistico-marxista. Il postmoderno sta alla dissoluzione del mondo spirituale borghese-proletario (l’endiadi è necessaria, in quanto i due termini camminano sempre insieme come i carabinieri di una volta) come a suo tempo l’illuminismo lo è stato alla dissoluzione del mondo spirituale religioso, tardofeudale e tardosignorile. Ma su questo punto mi soffermerò maggiormente nel sesto paragrafo.

E’ invece necessario ribadire la necessità di effettuare un’analisi ideologica differenziata di questi quattro gruppi di “destinatari” e/o di “committenti”. Una volta fatta metodologicamente questa analisi ideologica differenziata bisognerà poi fare un’analisi geografica differenziata, perché le culture europee, americana, latino-americana, medio-orientale, indiana, africana, cinese, eccetera, hanno a loro volta avuto codici diversissimi nella ricezione del marxismo. Si tratta infatti di diverse “inculturazioni”, per usare il concetto utilizzato dai sociologi della religione, e di quella cattolica in particolare. Gli “strati culturali” sottostanti di tipo cristiano (cattolico,protestante ed ortodosso), ebraico, musulmano, induista, buddista, confuciano, eccetera, hanno sviluppato profili marxisti diversissimi, ed in alcuni casi quasi incommensurabili.

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5. Un’interpretazione della dinamica complessiva di sviluppo del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991).

Occupata Napoli nel 1943, i militari americani commissionarono a don Benedetto Croce un articolo di giornale che spiegasse al lettore statunitense il perché di una cosa così strana come il “fascismo” nella terra del sole, degli spaghetti e dei mandolini. Nonostante le sue frasi vuote sul marxismo come canone storiografico, don Benedetto Croce non aveva la minima idea di come applicare al fascismo questo canone storiografico, ed allora ripiegò sulla teoria “parentetica” del fascismo. In sostanza, il fascismo era stata una “parentesi” patologica nella grande storia del liberalismo, una parentesi patologica aperta nella prima guerra mondiale e felicemente chiusa con l’arrivo dell’esercito USA in questa seconda. Quand’ero giovane (anni sessanta e settanta del novecento) la tautologica non-spiegazione del complesso fenomeno del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), che pure è stato uno dei fenomeni storici  complessivi più importanti dell’intera storia dell’umanità dalle piramidi egizie ad oggi. Il comunismo sarebbe stato un’incresciosa parentesi utopico-totalitaria ed ideologico-dispotica della grande storia universale della libertà, libertà a sua volta identificata con un grande centro commerciale globalizzato (Badiale-Bontempelli). A questo trionfo della Pantautologia (come direbbe Ignazio Silone) concorre la sinergia dei vecchi critici (la tradizione dell’anticomunismo liberale borghese da Hayek a Popper) e dei nuovi critici (i rinnegati sessantottini che devono avvelenare il pozzo in cui avevano bevuto nella loro stralunata gioventù in modo che nessuno più possa berci per l’eternità, eternità scambiata da loro per il restante della loro miserabile e fallita vita terrena). L’addizione di vecchi critici e di nuovi critici non caratterizza così la conoscenza del fenomeno globale del comunismo storico novecentesco, ma la sua esorcizzazione e demonizzazione “parentetica”. Credo che tutto questo (scrivo nel 2007) dovrebbe durare ancora alcuni decenni, vista la forte integrazione ideologica sinergica fra le tre componenti del ceto politico specializzato della governance post-democratica, del circo mediatico televisivo e giornalistico integralmente americano-sionista e della classe universitario-accademica globalizzata in base a codici ispirati alla variante politicamente-corretta del pensiero unico neoliberale.

E invece il marxismo resta sempre la chiave per comprendere questo maestoso fenomeno storico. Purché, appunto, non si creda che il marxismo si trovi nelle forme ideologiche di autolegittimazione politica di questo fenomeno (tanto varrebbe studiare l’antico Egitto sulla base dei papiri segreti dei sacerdoti del Dio Sole Râ). Il metodo di Marx si trova fuori dal mondo stregato ed autoreferenziale di queste operazioni ideologiche, e si trova appunto nelle categorie politiche, economiche, sociali e culturali che devono essere applicate creativamente e spregiudicatamente a questo fenomeno, così come Marx applicava le sue al capitalismo inglese dell’ottocento. Con questo, non sono così presuntuoso da dichiarare che il modo in cui personalmente applico queste categorie è già quello giusto. Non lo penso nemmeno nel mio foro interiore. Sono invece ragionevolmente sicuro che questo sia almeno l’approccio giusto, anche se fortemente correggibile nei prossimi anni. Questo mio approccio è lontanissimo sia dalle interpretazioni demoniaco-parentetiche (totalitarismo, utopia, follia ideologica oggi quasi incomprensibile), sia dalle colpevolizzazioni nominative dei tiranni (Stalin, Mao, Pol Pot, e via evocando Dracula e Nerone), sia dal pentimento neoliberale (se vogliamo la libertà, non possiamo e non dobbiamo negare la proprietà privata dei mezzi di produzione), sia infine dalle versioni di tipo minoritario-eretico-gruppettaro (spiegazioni anarchiche, anarco-comuniste, comuniste dei consigli Korsch-Pannekoek, bordighiste italo-francesi Bordiga-Dangeville, trotzkiste Trotzky-Mandel, maoiste occidentali Bettelheim, neostaliniste Martens-losurdo-Catone, eccetera). Questo quadrifoglio ideologico demoniaco-parentetico, colpevolizzatore nominativo dei tiranni sanguinari, pentitistico-neoliberale ed infine gruppettaro-identitario deve essere tenuto presente, ma solo come altera pars negativa da cui tenersi il più possibile lontani.

Bisogna partire da due vere e proprie ovvietà, in quanto – come scrisse Hegel – il noto in quanto “noto” non per questo è “conosciuto “. In primo luogo, la rivoluzione comunista russa del 1917non avrebbe mai e poi mai potuto scoppiare senza la “finestra d’opportunità” concessale dalla prima guerra mondiale, e cioè non da uno scontro fra   borghesi e proletari (secondo il modello originario di Marx), ma da uno scontro totalmente interno al mondo della borghesia capitalistica. In secondo luogo, la rivoluzione comunista russa del 1917 non avrebbe mai e poi mai potuto assestarsi e durare senza la direzione del partito bolscevico di Lenin, ed i pure robustissimi movimenti “spontanei” sarebbero inesorabilmente rifluiti senza la funzione di direzione bolscevica.

Questi due “fatti” danno luogo ad uno “scenario” del tutto incompatibile con il codice “marxista” del tempo, e l’ortodosso Kautskyfu il primo a notarlo. Eppure è necessario qui scegliere fra la lettera di Marx ed il suo spirito rivoluzionario e comunista. La “lettera marxiana” delegittima la rivoluzione russa del 1917, lo “spirito rivoluzionario marxiano”invece la legittima. E’ questa la freudiana “scena primaria” del comunismo.

Il comunismo come fenomeno mondiale nasce nel 1919 con la fondazione della Terza Internazionale, e nasce sulla base di una diagnosi (crisi finale del capitalismo) e di una prognosi (apertura di un periodo di imminenti rivoluzioni anticapitalistiche nelle metropoli imperialistiche) del tutto errate. E nno solo parzialmente errate, ma completamente errate. Corretta era invece l’analisi del congresso di Baku del 1920, per cui le rivoluzioni coloniali avrebbero potuto assumere un carattere socialista e comunista. E quindi Mosca 1919 fu smentita clamorosamente, mentre Baku 1920 fu in buona parte confermata. E’ questo il punto storico e teorico da cui è necessario partire se vogliamo cominciare a capirci qualcosa del problema-comunismo. In sintesi: non è possibile essere anticapitalisti se non si è anti-imperialisti, ed è impossibile essere “comunisti” se non si è entrambi.

Lenin muore nel 1924, ed il periodo storico che va dal 1924 al 1953-1956 (morte fisica di Stalin e destalinizzazione ufficiale del XX congresso del PCUS) coincide con il cosiddetto “stalinismo”. In proposito, a proposito di Stalin per brevità elencherò soltanto tre posizioni, la demonizzatrice oggi dominante, la critico-trozkista ed infine la giustificazionistica-contestualzizatrice:

(1)   Sulla posizione demonizzatrice ho già avuto modo di soffermarmi. Stalin diventa Koba il Terribile, il georgiano crudele e impazzito, il simbolo del delirio ideologico del novecento da mettere subito dopo Hitler, che resta comunque il Demone Primario per il fatto che si è messo contro gli ebrei. Questa posizione, che si basa sulla sinergia fra vecchi critici e nuovi critici, corrisponde pienamente alla lettera ed allo spirito della storiografia postmoderna, in quanto il postmoderno utilizza insieme la stroncatura critica delle cosiddette “grandi-narrazioni” e la riproposizione di un apparato magico-simbolico di esaltazione angelica e di esorcizzazione demoniaca.

(2)   La posizione critico-trotzkista (unita anche ad una sorta di maoismo europeo trotzkisteggiante degli anni 1966-76) considera Stalin l’uomo del Termidoro Sovietico, il papa dei burocrati, e quindi il portaparola degli interessi storico-economici di un gruppo particolare, la burocrazia comunista, spiegabile “materialisticamente” con l’accerchiamento capitalistico ed il basso livello delle forze produttive. Se poi questa burocrazia debba essere considerata un semplice ceto o gruppo sociale (variante trotzkista classica) o una vera e propria classe sociale in senso marxiano (variante del maoismo occidentale 1966-76 o variante della scuola trotzkista del cosiddetto “capitalismo di stato”), possiamo per ora metterlo da parte, in quanto queste varianti sono pur sempre all’interno di questa seconda posizione.

(3)   La posizione giustificazionistica è disposta a prendere anche in considerazione gli errori ed i crimini di Stalin (anche se il vero e proprio  giustificazionismo estremistico – Ludo Martens – non consente neppure su questo), ma li colloca in un contesto storico “obbligato” che ne spiega e di fatto ne avalla i comportamenti politici fondamentali. Il mio approccio all’intera questione di Stalin è tuttavia originale, e non si basa su nessuna di queste tre posizioni, anche se la loro conoscenza è certamente utile per chiarire molte questioni storiografiche. Nessuna delle tre, a mio avviso, può essere ricondotta al metodo d’indagine di Marx.

Personalmente, considero insensato ed ideologico-religioso il chiedersi se Stalin abbia “tradito” o viceversa abbia “proseguito” Lenin nelle nuove condizioni storiche. Stalin deve essere considerato iuxta propria principia, e secondo criteri a lui propri, e non certo sulla base di una presunta “vicinanza” o “lontananza” da Marx, Engels o Lenin. Le diagnosi e le prognosi dei comunisti del periodo 1917-1924 essendo completamente sbagliate, non ha alcun senso fare il gioco infantile della vicinanza e/o lontananza.

Stalin restò fedele alla base sociale operaia e dei contadini poveri. E tuttavia, proprio perché voleva restarne soggettivamente fedele, era costretto per garantirne stabilmente l’egemonia a costruire un gigantesco apparato partitico e statuale interamente dispotico. In poche parole, a costruire un dispotismo sociale. Questo dispotismo sociale non poteva funzionare senza un apparato privilegiato, che potremmo anche chiamare “burocrazia” oppure maoisticamente “borghesia di stato” (Cliff, Natoli) o “borghesia di partito” (Bettelheim), purché non si cada nell’errore-idiozia di credere veramente che una stabile egemonia delle classi degli operai e dei contadini poveri avrebbe potuto essere stabilmente garantita senza apparati separati partitico-statuali con la semplice gioiosa anarchica autogestione economica e con il semplice armonico e virtuoso autogoverno politico delle mitiche “masse” consiliari. Sulla base del testo di Lenin Stato e Rivoluzione non si può governare stabilmente neppure una comunità montana di pastori, ma si può al massimo destrutturare un apparato repressivo.

Riconoscere a Stalin di avere effettivamente garantito un’egemonia operaia e proletaria non significa ovviamente “giustificare” i crimini di cui si è reso responsabile, dal ciclo di processi 1936-39 alla fucilazione di migliaia ufficiali polacchi a Katyn, eccetera. Devo dire che nel contesto della “macelleria generalizzata” 1936-1946 (Auschwitz, Hiroshima, Dresda, eccetera) non riesco ad indignarmi soggettivamente contro il solo Stalin, anche se questa mia soggettiva percezione non è ovviamente un parametro storiografico serio. Considero invece le “eresie salvatrici” (e salvatrici  perché intendono “salvare”  virtuosamente il messaggio marxista dal fango e dal sangue della storia) di tipo bordighista, trotzkista, maoista, operaista, eccetera semplici espressioni della Religione dello Struzzo, l’animale totemico che di fronte a qualcosa di minaccioso e sgradevole mette la testa sotto la sabbia. Ma ciò che consento volentieri allo struzzo non lo consento all’uomo in quanto homo sapiens, e quindi razionale.

Poniamoci allora il “dubbio iperbolico”: ha costruito Stalin una “società socialista”, sia pure ovviamente imperfetta ed assediata? Dipende da cosa intendiamo ovviamente con il termine di “socialismo”. Nel senso di Marx certamente no, perché per Marx il socialismo era concepito come qualcosa che conciliava la dittatura del proletariato con la democrazia politica, la libertà di espressione filosofica, artistica e letteraria (su questo punto Marx era pienamente “illuminista”), il rifiuto integrale dello statalismo, l’autogoverno e l’autogestione, eccetera. Ma il fatto che lo stalinismo non corrisponda al socialismo secondo Marx non significa nulla, perché Marx intendeva il socialismo come esito di una crisi catastrofica del capitalismo, di un grande sviluppo delle forze produttive ed infine della formazione di un lavoratore cooperativo collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale. Nelle condizioni novecentesche date tendo invece a pensare che Stalin abbia veramente costruito il “socialismo”, nel senso che data la pittoresca ed incurabile incapacità egemonica delle classi subalterne (operai, contadini poveri ed intellettuali miserabili servi del potere) il solo modo di garantire l’egemonia era il dispotismo sociale di partito. Al principio marxiano “proletari di tutto il mondo unitevi” Stalin sostituì il principio “non si può fare la frittata senza rompere le uova”.

Ma valeva allora la pena di fare questa frittata, se è vero che la stessa “crudeltà criminale” di Stalin è stata anche una gigantesca forza produttiva nel senso di Marx? A questa domanda iperbolica non è possibile dare una risposta univoca, perché la risposta dipenderà sempre dalla filosofia della storia implicita da cui partiamo. Do dunque una risposta dichiaratamente solo personale. Per me sì, ne valeva la pena, e non certo solo per “battere il nazismo” (che gli USA avrebbero battuto lo stesso, magari nel 1947 e non nel 1945) o per “appoggiare le rivoluzioni anticoloniali” (che si sarebbero sviluppate lo stesso, magari con qualche decennio di ritardo), quanto proprio la mia personale filosofia della storia, che rivendico pienamente contro il fatalismo postmoderno e l’apologia della fine capitalistica della storia, mi spinge a dire che è comunque giusto provare a sostituire il modo di produzione capitalistico. La “criminalità” di Stalin, che non mi sogno affatto di negare (come non nego le criminalità di Giulio Cesare e di Carlo Magno), ha avuto come causa l’insufficienza soggettiva strategica della sua penosissima e subalterna base sociale, che nello stesso tempo, senza smettere di essere subalterna ha comunque il diritto “naturale” assoluto di ribellarsi contro i suoi sfruttatori.

Il sistema di Stalin era quindi “socialista” (non nel senso di Marx, ovviamente, ma nel senso di dispotismo sociale di partito fondato sugli interessi delle classi subalterne), ma non poteva in alcun modo evolvere verso il fantomatico “comunismo”. Sono note le definizioni di “comunismo” in Marx (movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, estinzione della legge del valore-lavoro, da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni, deperimento dello stato, della famiglia e della stessa società civile, eccetera). Colgo l’occasione per dire subito che gran parte di queste connotazioni fanno parte di una sorta di “utopia trasparenzialistica” che considero impraticabile ed inapplicabile, e che quindi non condivido neppure come lontano orizzonte utopico indeterminabile di tipo kantiano (su questo punto, e non solo su questo punto, la mia preferenza per Hegel contro Kant è la preferenza del determinato contro l’indeterminato, i concetti-limite, eccetera).

Dopo la morte di Stalin (1953) e la destalinizzazione (1956) il sistema entrò in una dinamica autodistruttiva irreversibile. Krusciov (1956-1964) stabilizzò il miserabile potere degli apparati del partito-stato, alleggerendoli della minaccia poliziesca staliniana. Questi apparati di potere in URSS erano provenienti in buona parte dalla leva plebea degli assassini 1936-39. I figli di questa generazione di criminali cominciarono a distaccarsi dall’ideologia comunista negli anni cinquanta e sessanta, ed a partire dagli anni settanta cominciarono ad adottare il punto di vista dell’americanismo, e cioè non certo del capitalismo moderato socialdemocratico di tipo scandinavo, ma del capitalismo integrale ed assoluto USA. Il periodo di Breznev (1964-1982) non deve essere assolutamente connotato come quello della “stagnazione” (mai fidarsi del linguaggio manipolato della sovietologia capitalistica!), ma come un periodo di “equilibrio paralizzante”, in cui le classi subalterne non sono più in grado di esercitare la loro egemonia e le nuove classi “borghesi” di stato e di partito non sono ancora in grado di portare a termine il loro progetto complessivo di controrivoluzione capitalistica di massa.

L’equilibrio paralizzante si scioglie nel periodo 1985-1992, in cui l’ubriacone Eltsin e il pubblicitario (Pizza Hut, Vuitton, eccetera) Gorbaciov, che rappresentano due settori distinti della controrivoluzione sociale di massa (Eltsin i futuri oligarchi sionisti assassini e Gorbaciov i ceti medi di stato e di partito che avrebbero forse preferito una transizione più “dolce” al capitalismo integrale ed assoluto), portano a termine il suicidio (a mio avviso definitivo) dell’esperimento socialista di tipo sovietico-staliniano.

Dei paesi dell’Est europeo non parlo, non perché non siano interessanti e differenziati l’uno dall’altro, ma perché si trattava di territori militarmente occupati dall’URSS, ed i servi non hanno storia autonoma se non quando si ribellano. D’altra parte, la dissoluzione di due paesi che pure non erano militarmente occupati dall’URSS (Jugoslavia ed Albania) dimostra che il “socialismo reale” era un blocco unico ed indivisibile, perché era un “fatto sociale totale” (Durkheim).

In quanto alla Cina, a fianco del marxismo sinizzato di Mao bisogna prendere in considerazione la tradizione imperiale-confuciana, che non ha praticamente alcun rapporto con la “sinistra” europea (aggiungo io: per sua fortuna!).

Il crollo del “campo socialista” è stato a mio avviso una terribile tragedia di tipo geopolitico, perché ha dato il semaforo verde all’impero USA. La mia opinione (pur stimando nell’essenziale anche Solzenitsin, di cui apprezzo soprattutto la sostanziale estraneità slavofila al capitalismo  occidentale ed il sacrosanto appoggio ad uno stato “forte” russo, purtroppo per il momento non ancora abbastanza forte!) è che abbia ragione l’ex-dissidente russo Zinoviev: il sistema sovietico poteva (ed era) sembrare assurdo (le cime abissali), ma era comunque il male minore sia sul piano interno che sul piano internazionale.

Ed ecco in breve la mia opinione: il sistema sovietico non andava certamente bene, non corrispondeva minimamente alla lettera ed allo spirito di Marx (e non era quindi “marxista”), era una forma di dispotismo sociale di partito e causa della pittoresca ed incurabile subalternità storico-strategica delle classi subalterne, ma restava il “male minore” sia all’interno che soprattutto sul piano geopolitico.

Il crollo geopolitico di questo “male minore” ha inaugurato l’epoca nuova che si è aperta nel mondo dopo il triennio 1989-91. Questa epoca nuova deve essere considerata sulla base dell’applicazione  di categorie nuove. Questo non viene ancora fatto, a causa del terribile potere manipolatorio inerziale degli apparati ideologici di dominio. Ma questo non potrà durare per sempre.

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6. Un’interpretazione della natura globale del “capitalismo assoluto”, psotborghese e postproletario, che caratterizza l’attuale momento storico.

Per partire metodologicamente con il piede giusto, e non cadere immediatamente in incresciose confusioni, bisogna subito distinguere fra il concetto di Modo di Produzione Capitalistico (MPC) secondo Marx, ed il concetto di Società Capitalistica Globalizzata (SCG)., così come sta oggi delineandosi nel mondo. Questi due concetti danno luogo a “campi epistemologici” distinti, anche se incrociati.

Il Modo di Produzione Capitalistico (MPC) secondo Marx è un concetto astratto che non corrisponde a nessuna società capitalistica concreta, neppure a quella inglese ottocentesca, come ritengono e ripetono spesso i confusionari. Come dice giustamente Gianfranco La Grassa, esso è semplicemente uno “scheletro” di un corpo. Sostiene il corpo stesso, che altrimenti cadrebbe e non potrebbe reggersi in piedi, ma non è in alcun modo un “corpo” di carne e di sangue. Marx ha indubbiamente indagato il MPC in termini di strutture anonime ed impersonali, quindi non antropomorfizzate (lezione di Spinoza) e dialettiche (lezione di Hegel), ma non c’è dubbio che lo abbia indagato presupponendone una dicotomia classistica (Borghesia e Proeltariato). La Grassa ritiene che il modo migliore di connotare il MPC oggi sia di farlo in termini di Formazione dei Funzionari del Capitale (FFC), ed in questa scelta terminologica c’è certamente l’influenza (peraltro rivendicata) dello strutturalismo della scuola di Althusser. Chiarisco allora subito la mia personale posizione in proposito.

Rifiutando radicalmente l’equazione di filosofia ed epistemologia, rifiutando il concetto di “scienza” applicata a quella di Marx, che non è una scienza ma una scienza filosofica, rivendicando pienamente il concetto di alienazione come filo conduttore di tutta l’opera di Marx e la sua natura di integrale filosofia della storia di tipo umanistico, eccetera, è evidente che respingo in toto l’interpretazione generale di Marx della scuola Althusser-La Grassa, e non voglio lasciare dubbi in proposito sulla mia totale estraneità a questa sorta di nichilismo positivistico (almeno, così personalmente lo connoto). Ma questo rifiuto radicale non comporta che io non consideri egualmente questa approssimazione concettuale (la ripeto: MPC=FCC) come la migliore (o la meno peggiore) presente sul mercato del marxismo contemporaneo, o meglio di ciò che ne resta.

Certo, è sempre possibile per ortodossia inerziale veteromarxiana continuare a chiamare “borghesia” l’insieme di funzionari della riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, e chiamare “proletariato” l’insieme della forza-lavoro potenziale da assumere, da quella stabile e meglio pagata a quella tenuta in condizioni semischiavistiche, flessibili e precarie. E’ possibile farlo, ma in questo modo si rifiuta di considerare il MPC come un processo storico caratterizzato da salti qualitativi, e lo si continua a pensare in modo antropomorfizzante come un “teatro” di scontro fra due Soggetti complessivi, i borghesi ed i proletari.

Bisogna allora capirci. Se facciamo l’equazione soprariportata (borghesi = agenti riproduttivi della formazione capitalistica; proletari = insieme della forza-lavoro da scambiare con capitale), allora queste due classi dureranno per i secoli dei secoli fino a che il MPC durerà. Ma se consideriamo i concetti di Borghesia e di Proletariato come più ampi, in modo da non identificarli economicisticamente con una semplice funzione economica di scambio, e li inseriamo anche in un mondo storico, artistico, letterario, filosofico, religioso, eccetera, allora scopriamo che la vecchia Borghesia ed il vecchio Proletariato in senso proprio non esistono più, sostituiti da funzioni economiche collettive globalizzate e sistemiche di tipo ormai postborghese e postproletario. Naturalmente la società continua non solo a fondarsi su differenziali di sapere, potere e denaro enormi, ma questi differenziali aumentano su scala geografica. Semplicemente, la dicotomia Borghesia/Proletariato non è più adatta ad interpretare la dinamica di approfondimento di questi differenziali.

Non si tratta soltanto del vecchio problema, già molto discusso nella tradizione marxista, per cui il concetto di Classe resta “muto” senza la correlata Coscienza di Classe, e il cosiddetto In Sé deve diventare Per Sé , secondo una meccanica applicazione della terminologia di Hegel al pensiero classista di Marx. Si tratta invece di sganciarsi progressivamente da questo intero modo antropomorfizzante-dicotomico di considerare l’intera questione. E questo comporta una vera “rivoluzione” mentale, un vero riorientamento gestaltico che l’attuale comunità residua dei marxisti non intende fare in alcun modo, per cui non ha senso “aspettarla”. Per il momento, si noti bene, siamo ancora al livello astratto della categoria di MPC, nno certo alla categoria di SCG, che è peraltro quella che mi interessa teoricamente  e praticamente di più.

Ma facciamo le cose con ordine. E per fare le cose con ordine, bisogna trovare l’elemento comune (traît d’union) fra le due categorie di Modo di Produzione Capitalistico (MPC)e di Società Capitalistica Globalizzata (SCG). E questo elemento comune è il concetto “semplice” (Begriff) di Capitale. In estrema approssimazione si possono enucleare storicamente e teoricamente due distinti ed incompatibili concetti “moderni” di Capitale.

Il primo concetto di Capitale, che caratterizza l’intera storia dell’economia politica dal settecento ad oggi, lo connota come “fattore produttivo originario”(FPO), insieme con altri due fattori produttivi originari che sono il lavoro e le risorse naturali (agricoltura, pesca, miniere, eccetera). Si tratta della concezione dei “classici” (Smith, Ricardo, eccetera), che poi evolve storicamente in “fattore scarso per usi alternativi” (economia marginalistica) fino ad arrivare a “vettore di innovazione tecnologica e di distruzione creatrice” (Schumpeter e schumpeteriani vari). I presupposti filosofici di questa concezione, che a mio avviso non ha nulla a che vedere con la corrente Hegel-Marx, stanno nell’empirismo di Locke (la pluralità del reale non è mediata concettualmente da un’idea unificante) e nel criticismo di Kant (separazione fra conoscenza teorica e scelte morali e negazione della possibilità di concettualizzare una totalità).

Il secondo concetto di Capitale, che caratterizza l’approccio di Marx in quanto allievo filosofico di Hegel, lo connota come Totalità Assoluta, o se si vuole come Totalità o meglio come Assoluto. Assoluto significa privo (o progressivamente privato) di limitazioni interne disomogenee, e significa anche totalità che progressivamente supera dialetticamente le limitazioni al suo concetto, limitazioni prima esterne e poi interne (nel linguaggio di Marx, passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale). Il concetto di Capitale in Marx  è quindi un concetto idealistico nella sua più profonda essenza, cosa che cominciano a capire persino gli anglosassoni  di tradizione empirista (Chris Arthur), ma che negheranno sempre gli anti-hegeliani (kautskiani, bersteiniani, neokantiani vari, dellavolpiani, althusseriani, eccetera), che a mio avviso è ormai inutile “inseguire”, ma che bisogna lasciare al loro destino (liquidazione collettiana, materialismo aleatorio, approdo alla critica postmoderna delle grandi narrazioni, eccetera).

Sulla base sicura di questo secondo concetto di Capitale, è possibile tentare una periodizzazione marxiana del capitalismo, nel doppio aspetto interconnesso di MPC e SCG. E dal momento che la dialettica non è forse “triadica” per sua essenza, ma la forma triadica è quella più nota e collaudata nella storia della filosofia occidentale (Hegel e poi Marx della successione dipendenza personale/indipendenza personale ed infine libera individualità), l’insieme di MPC e SCG può essere periodizzato in tre momenti successivi, avendo come criterio orientativo la progressiva assimilazione da parte dell’Assoluto-Capitale delle sue limitazioni precedenti, prima esterne e poi in un secondo momento interne. Da notare che la successione è logica, e soltanto logica, perché storicamente abbiamo sempre forme di compresenza di tutte e tre le forme:

(1)   Fase di concretizzazione dell’Assoluto-Capitale con limitazioni esterne. In questa fase il rapporto concettualmente puro di Capitale deve fare i conti con le ancora robuste forme di produzione precapitalistiche, asiatiche,  schiavistiche, feudali, signorili e soprattutto primitivo-comunitarie, caratterizzate dalla proprietà comune delle risorse naturali. Al vettore economico della proletarizzazione dei servi e degli artigiani ed al vettore politico del colonialismo all’esterno e all’assoggettamento delle classi signorili all’interno si accompagna il vettore ideologico dell’assoggettamento simbolico dello spazio (materialismo scientifico unificato) e del tempo (ideologia del progresso e della sua inevitabilità).

(2)   Fase di concretizzazione dell’Assoluto-Capitale con limitazioni interne. In questa fase, che viene logicamente dopo la prima mentre storicamente coesiste ancora largamente con essa, le limitazioni esterne precapitalistiche sono già sostanzialmente superate. Il concetto di Capitale resta del tutto unitario, ma nello stesso tempo si “scinde” (scissione dialettica, che non è per nulla teleologica o proveniente da una rottura originaria semplice – vedi fraintendimenti pittoreschi di Colletti e di Althusser) in due poli antagonistici, la Borghesia ed il Proletariato, poli sociologico-storici che elaborano differenti e contrastanti visioni complessive del mondo, che si presentano simultaneamente (e cioè nello stesso momento) come opposizioni reali dal punto di vista dell’Intelletto (Verstand) e come contraddizioni dialettiche dal punto di vista della Ragione (Vernunft).

Questa dicotomia storica Borghesia-Proletariato, lungi dall’essere coessenziale e coestensiva dell’intero ciclo logico-storico del MPC, ne caratterizza soltanto una fase temporanea, e cioè questa seconda fase (in Europa più o meno i due secoli 1789-1989). Questa dicotomia indebolisce fortemente la realizzazione del concetto di Capitale, in quanto finché dura non ci può essere ancora che una “sottomissione formale” (e non ancora “reale”) del lavoro al capitale ed un “dominio formale” del capitale sul lavoro, che si pensa come politicamente e sindacalmente sfruttato ed “alienato”, e quindi cerca vie politiche alla propria emancipazione collettiva (democrazia ottocentesca, socialdemocrazia gradualistica tedesca e scandinava, laburismo inglese, populismo latino-americano ed arabo, fascismo popolare europeo, ed infine ovviamente comunismo storico novecentesco veramente esistito).

(3)   Fase di completamento della concretizzazione dell’Assoluto-Capitale con graduale superamento delle limitazioni sia esterne che interne. La concretizzazione storica di questa terza fase (che l’ideologia capitalistica tematizza come fine della storia, esaurimento dell’utopia e consumazioni delle grandi narrazioni, eccetera) si chiama oggi “globalizzazione”, e mira alla formazione di un mondo liscio, unificato, interamente postborghese e postproletario (fine della coscienza infelice universalistica borghese e fine del rivendicazionismo economico collettivo proletario), un mondo caratterizzato da sempre crescenti differenziali di sapere, potere e reddito, ma in cui alla dicotomia classistica precedente (cui restano legati per inerzia e pigrizia concettuale i paleomarxisti) si sostituisce un’unica piramide globalizzata mondiale che potremo (provvisoriamente) definire di tipo oligarchico-castale, neofeudale e neosignorile (ma le categorie sono del tutto provvisorie, in attesa di una concettualizzazione migliore, che peraltro certamente verrà a scadenza non troppo lontana, ma certamente non ancora nel corso della mia restante vita terrena).

A fianco di oligarchie finanziarie bianche, e soprattutto ebraico-sioniste e protestanti, avremo ovviamente progressive cooptazioni di oligarchie “diversamente colorate” (indiani, cinesi, arabi, eccetera). Si pensi in proposito all’impero romano, che si è costituito massacrando le oligarchie concorrenti celtiche, fenicie ed ellenistiche e poi le ha progressivamente cooptate sotto l’ideologia della pax romana (è una costante che ogni impero chiami la propria guerra “pace” e la guerra degli altri che resistono “terrorismo”o “barbarie”). Questi processi di omogeneizzazione sono del tutto strutturali, perché in questa terza fase del capitalismo, che diventa finalmente assoluto nel senso di “corrispondente al suo concetto” (Begriffsmässig), è necessario costituire una sorta di “unità astratta ed indifferenziata di consumo”, e questa unità astratta e indifferenziata di consumo deve lasciarsi alle spalle le differenziazioni precedenti.

Alla vecchia dicotomia ideologica di borghesia (liberalismo) e di proletariato (laburismo, socialismo, comunismo) si deve sostituire una nuova Ideologia Unica, il Politicamente Corretto, fatto gestire da un nuovo clero postmoderno diviso in clero secolare (il circo mediatico- giornalistico) ed in clero regolare (il professorato universitario globalizzato ed unificato). Si deve tendere ad un nuovo Tipo Androgino Sessuale Unificato, che vada al di là dell’obsoleta separazione fra Uomini e Donne (e su questo lavora ideologicamente il femminismo occidentale postmatriarcale e postpatriarcale e l’esaltazione della categoria dei gay e delle lesbiche). Si deve tendere ad una sola lingua mondiale di comunicazione globalizzata (l’inglese finanziario operazionale per le oligarchie e l’inglese maccheronico di comunicazione elementare  per i dominati). Si deve tendere ad un’unica Razza Umana Meticciata, che superi gli obsoleti colori bianchi, gialli, neri, rossi, eccetera, in cui la distinzione sia esclusivamente di potere d’acquisto. Si deve tendere ad un’unica Forma Multiculturale, che si contrapponga virtuosamente  ai nazionalismi ed alle religioni. In altre parole, si deve tendere alla concretizzazione di quella che ho definito la terza fase del Concetto-Assoluto di Capitale.

Se questa analisi è anche solo parzialmente plausibile, si pone ineludibilmente il problema di quale atteggiamento pratico assumiamo di fronte ad essa. E credo allora che ci siano molte tipologie di atteggiamenti, che possono però essere tutte riassunte in tre punti:

(1)   Tipologia di adesione e di adattamento positivo. Questa tipologia assume forme storiche, sociologiche, geografiche, religiose e culturali diversissime, ed è totalmente diagonale fra laici e credenti, poveri e ricchi, uomini e donne, ed è soprattutto diagonale fra Destra e Sinistra, categorie un tempo storicamente efficaci, ed oggi del tutto obsolete, e reimposte artificiosamente come protesi politologiche manipolate di simulazione culturale del conflitto sociale, all’interno di un concetto di post-democrazia come codice d’accesso politicamente corretto e non più come rappresentanza di interessi collettivi di cui si riconosce l’antagonismo.

(2)   Tipologia di adattamento passivo. Questa tipologia è di tipo neoellenistico, in quanto cerca una vita buona , o almeno una vita sopportabile all’ombra del potere. Il potere è riconosciuto come orribile ed inautentico (Umberto Galimberti, eccetera), ma nello stesso tempo le resistenze ad esso sono connotate   come “ancora peggiori”(nazionalismo, religioni, comunismo, eccetera), e si cerca allora una (a mio avviso impossibile e necessariamente “filistea”) vita autentica all’ombra del potere. Questa tipologia comporta ovviamente l’interiorizzazione psicologico-esistenziale della sconfitta, ed è naturale che concepisca l’intero novecento come secolo della follia produttivistica e dell’utopia sanguinaria.

(3)   Tipologia della resistenza. Questa tipologia unifica tutte le forme di resistenza consapevole al capitalismo assoluto di terzo tipo. Chi vorrebbe una resistenza “pura”, senza musulmani, talebani, russi, cinesi, iracheni, eccetera, ma semplicemente occidentalistico-progressistica, mente agli altri ed a se stesso, ed è come se non volesse nessuna resistenza. Ma è giunto il momento di passare agli ultimi due paragrafi di questa autopresentazione. Io sono infatti un aderente alla tipologia dei “resistenti”.

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7. Breve esposizione delle mie opinioni politiche e geopolitiche nell’attuale momento storico.

Il concetto del Politico comprende due elementi essenziali interconnessi. Il suo lato positivo è l’associazione comunitaria per l’autogestione e la l’autogoverno. Il suo lato negativo è la corretta individuazione e connotazione degli avversari e dei nemici. Il Buonismo Ipocrita, legato al Pecorismo Cerimoniale, consiste nel pensare che ci possa essere soltanto il primo senza il secondo. Il Cinismo Elitario, legato al Pessimismo Antropologico, consiste nel pensare che ci possa essere soltanto il secondo senza il primo. Personalmente, cerco di unirli entrambi. Il comunismo ed il comunitarismo fanno parte del primo elemento. L’antiamericanismo e l’euroasiatismo fanno parte del secondo. Personalmente, oggi (2007) sostengo in relativa solitudine (ma il tempo sarà galantuomo) una versione comunitarista del comunismo ed una versione euroasiatica del nazionalitarismo, euroasiatismo che personalmente concepisco in modo federale-nazionalitario e non invece “imperiale” (Mutti, Graziani, eccetera).

Alla fine del precedente paragrafo ho distinto la tipologia dei resistenti, cui mi sono idealmente iscritto, dalle sue tipologie dei conniventi ideologici attivi e dei sopravviventi passivi all’ombra del potere. Per la prima tipologia il capitalismo assoluto è il meglio, per la seconda è il meno peggio. Nonostante la differenza filosofica fra le due posizioni, l’effetto pratico-politico è del tutto analogo. Dire che Bush è il meglio, oppure è il meno peggio rispetto ad Ahmadinejad è esattamente lo stesso, anche se la seconda posizione è la più ipocrita, perché intende anche “salvarsi l’anima”.

Fra i resistenti – sia ben chiaro – non metto assolutamente il cosiddetto Movimento dei Movimenti Pacifista No Global, che il circo mediatico imperiale presenta (non a caso!) come la seconda superpotenza mondiale, e trova anche politicanti manipolatori che se ne inorgogliscono. Colloco costoro nella casella del Pecorismo Cerimoniale, che organizza manifestazioni ostensive belanti in cui si portano petizioni buonistiche ai potenti. Questo pecorismo cerimoniale ha la funzione di neutralizzare una potenziale opposizione giovanile (salviamo il Darfur! Abbasso i dittatori!), di selezionare una classe politica buonista-pecoresca omogenea al sistema ed in alcuni casi addirittura di avallare iniziative belliche di “intervento umanitario” (esportiamo la democrazia! Garantiamo i diritti umani contro i nuovi Hitler ed i nuovi Stalin!).

Fra i resistenti invece segnalo tre diverse posizioni:

(1)   Resistenti vetero-novecenteschi. Seguaci non certo di Marx, Lenin, Trotzky, Mao, eccetera, ma del generale francese Maginot, costoro intendono condurre l’attuale quarta guerra mondiale (prima guerra mondiale 1914-1918, seconda guerra mondiale 1939-1945, terza guerra mondiale 1945-1989) sulla base delle carte militari della seconda e della terza. Mentre siamo già giunti alla terza fase dello sviluppo del concetto di Capitale, costoro si comportano come se fossimo ancora dentro la seconda fase (proletari contro borghesi, fascisti contro antifascisti, comunisti contro anticomunisti, eccetera). Come rissosi galli nel pollaio, si distinguono in neostalinisti, neomaoisti, neotrotzkisti, eccetera. Come dice un vecchio proverbio russo: non hanno dimenticato niente, non hanno imparato niente. Se qualcuno gli indica la luna, guardano il colore del dito di chi gliela indica.

(2)   I resistenti futuristico-demenziali. Essi sono ben rappresentati dalla coppia accademico-postmoderna Antonio Negri – Michael Hardt. A differenza dei vetero-novecenteschi trinariciuti o con la barbetta (stalinisti e trotzkisti rispettivamente), essi almeno si rendono conto che ci troviamo vagamente nella terza fase dello sviluppo capitalistico, e non più nella seconda (da cui correttamente good-bye socialism!). E tuttavia, con un triplo salto mortale universitario-circense considerano il Capitalismo Assoluto (definito Impero) la base potenziale per il salto nel Comunismo Assoluto, di cui le Moltitudini sono l’aristotelico  Intelletto Attivo. Sono ovviamente contro le religioni, i popoli, le nazioni, e cioè tutti i fattori concreti che oggi lottano contro la globalizzazione. Dietro le presunte (ed inesistenti) Moltitudini ci stanno soltanto gli individui sradicati del politicamente corretto postmoderno.

(3)   I neoresistenti che individuano nell’impero militare americano il nemico principale, quello contro cui appoggiare le resistenze così come si manifestano qui ed ora. Dal momento che sono un sostenitore di questo partito neoresistente, approfondirò ora alcuni suoi aspetti problematici.

In primo luogo, non bisogna farsi spaventare dalle prevedibili accuse e diffamazioni di “anti.-americanismo”. E’ naturale che il circo ideologico degli aderenti diretti o indiretti all’impero USA utilizzerà questo appellativo diffamatorio. In realtà, non si è contro il popolo americano, eccetera, ma esclusivamente contro il progetto di impero geopolitico-militare USA, progetto che è sotto gli occhi di tutti e non è certamente una invenzione malevola degli “anti-americani”. Non si è anti-tedeschi perché si è anti-nazisti, o anti-russi perché si è anti-stalinisti, eccetera.

In secondo luogo, bisogna prendere atto che la dicotomia Destra/Sinistra, che pure è stata per quasi duecento anni (1789-1989) un indicatore reale per classificare le diverse posizioni politiche, ormai non lo è più, in quanto il solo indicatore reale ormai è il binomio Adesione/Resistenza all’impero geopolitico-militare USA. Con questo non intendo dire che tutto il variopinto mondo plurale delle posizioni culturali ed ideologiche viene “succhiato” dentro questa sola opposizione geopolitica. Intendo dire (con linguaggio althusseriano) che questa opposizione fondamentale “surdetermina” le forme di esistenza di tutte le altre contraddizioni, in quanto (con linguaggio maoista) questa contraddizione principale determina il ruolo di tutte le altre contraddizioni secondarie all’interno dell’insieme geografico e politico mondiale.

In terzo luogo, per potersi orientare teoricamente, non bisogna confondere tre distinte determinazioni, e cioè il concetto di capitalismo assoluto, il concetto di globalizzazione ed infine il concetto di impero geopolitico-militare USA. Più esattamente:

(1)   Il concetto di capitalismo assoluto prima definito è un concetto di tipo generale astratto, ed è pertanto prima logico e soltanto dopo storico (nel senso ovviamente non della logica formale, ma della logica dialettica di Hegel, di Marx ed anche di Lenin – vedi Quaderni Filosofici). Se però innestiamo questo concetto logico all’interno della concreta storicità contemporanea, vediamo che i piedi su cui cammina oggi il processo del capitalismo assoluto non sono i piedi deterritorializzati dell’Impero Negri-Hardt e neanche i piedi di una generica Borghesia Mondiale in lotta contro il Proletariato Mondiale, ma sono i piedi geopolitico-militari dell’impero americano, in quanto la sua specifica formazione economico-sociale, per ragioni storiche (mancanza di feudalesimo precedente) ed ideologiche (messianesimo veterotestamentario), è quella che più si avvicina al modello astratto del capitalismo assoluto senza limitazioni e con sottomissione reale integrale degli individui e dei gruppi sociali alla riproduzione capitalistica assoluta.

(2)   Il concetto di globalizzazione non è affatto ovvio come sembra, ed infatti molti gli preferiscono versioni aggiornate del concetto leniniano di imperialismo, o meglio di concorrenza inter-imperialistica. Diciamo allora che il neoliberismo rappresenta la forma dominante della concorrenza inter-imperialistica per gli USA, così come era già stato per l’Inghiliterra al tempo dei cosiddetti “costi comparati” di Ricardo. Nella misura in cui il cosiddetto Movimento No Global, questa caricatura grottesca dell’opposizione di sua maestà al neoliberismo, è contrario alle politiche protezionistiche ed alla sovranità (sacrosanta) degli stati nazionali, è possibile capire che non è in realtà affatto “no-global” come dichiara ipocritamente di essere. Non esiste comunque alcuna “globalizzazione virtuosa” o “globalizzazione alternativa”, eccetera. Nella misura in cui la globalizzazione promuove il capitalismo assoluto, ed è indubbio che lo promuove, essa è cattiva senza altri aggettivi, ed è pertanto un nemico strategico in quanto tale.

(3)   Il concetto di impero USA può essere in un primo tempo correlato analogicamente ad esempi di imperi precedenti (impero romano, impero navale inglese, eccetera). Da questi esempi analogici risulterà però la sua assoluta novità. Si tratta infatti del primo impero che rivendica il dominio strategico e geopolitico mondiale assoluto, dominio che non vuole soltanto basarsi sulla “sottomissione formale” (impero romano, impero navale britannico, eccetera), ma intende farlo su di una vera e propria “sottomissione reale” (unificazione ed uniformazione degli stili di vita di tutto il pianeta in vista del consolidamento di una piramide unificata mondiale di tipo ultracapitalistico, postborghese, postproletario, ed anche neofeudale e neosignorile).

Chi coglie questo punto non si porrà lo stupido problema della “identificazione culturale soggettiva” con i movimenti di resistenza all’impero (dai talebani agli Hezbollah, da Hamas alla giunta militare benemerita del Myanmar, eccetera). L’identificazione culturale soggettiva di tipo sostitutivo e proiettivo era tipica della sinistra sessantottina (identificazione con Che Guevara, con i vietnamiti, eccetera). Questo approccio narcisistico deve necessariamente rovesciarsi nel suo contrario, in quanto all’illusione soggettivamente identificatoria non può che succedere il rovesciamento dialettico nella delusione della virtuosa presa di distanza.

Il discorso sarebbe appena cominciato, ma credo che sia già apparso chiaro il punto essenziale delle mie odierne posizioni politiche.

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8. Breve esposizione delle mie opinioni ideologico-culturali nell’attuale momento storico

La prima cosa da fare in un campo così delicato come la cultura e l’ideologia consiste nel separarle in modo netto e senza equivoci. E’ certo che le formazioni ideologiche (che ho già connotato come inevitabili e funzionali alla costituzione di soggettività collettive) si nutrono di ricadute di fatti culturali precedenti, ma questa ricaduta è talmente indiretta e derivata da poter essere di fatto trascurata.

Il fatto che poeti e scrittori come Pound, Céline, Hamsun siano stati di “destra” e poeti come Pasolini, Brecht ed Eluard siano stati di “sinistra” non conta nulla (capito? Non poco, assolutamente nulla!) per darne una valutazione artistica. Questo vale ovviamente anche per la scultura e la pittura. Ed inoltre, e questo deve essere sottolineato in modo particolarmente solenne, le simpatie politiche di filosofi come Gentile, Heidegger, Lukács, Bloch, Adorno, eccetera, non devono essere tenute in alcun conto per valutare la profondità delle loro sintesi filosofiche. Un conto infatti è la genesi autobiografica e psicologica di una creazione filosofica, in cui ovviamente la visione politica personale è rilevante, ed un conto è il valore dell’oggettivazione filosofica di pensiero cui sono giunti. Questo non vale solo per Platone, Aristotele, Hegel, Bergson, eccetera. Vale anche e soprattutto per lo stesso Marx. Marx non fu certamente “grande” per la sua passione egualitaria o per il suo “schieramento” soggettivo a “sinistra”, eccetera, passioni e schieramenti comuni a milioni di persone, geniali e/o coglione. Questo criterio di appartenenza è quello della famosa raccolta di firme di intellettuali, con cui la sinistra per più di un secolo coprì il proprio nichilismo filosofico ed il proprio intimo disprezzo per il pensiero critico ed originale, suo nemico primario, da uccidere o licenziare dove possibile, da ignorare, diffamare o emarginare dove non era possibile passare a vie di fatto più “pratiche”, Marx fu grande esclusivamente per il mirabile sistema concettuale che seppe creare.

Fatta questa doverosa precisazione, in questo paragrafo conclusivo mi limiterò allora ai soli Profili Ideologici (PI). Essi non sono “cultura”, arte, letteratura e filosofia, ma semplicemente “formazioni ideologiche sovrastrutturali” all’interno del capitalismo assoluto globalizzato a guida geopolitica-militare USA. Mi limiterò a segnalare in proposito lo scenario ideologico generale così come in questo momento (2007) mi sembra di poterlo sommariamente disegnare, partendo dal Politicamente Corretto Multiculturale (PCM) di oggi.

A questo punto è però necessario aprire una parentesi sul rapporto fra passato e presente e sull’uso simbolico ed analogico del passato per orientarsi ideologicamente nel presente. Il passato è un gigantesco deposito di ispirazione simbolica e di orientamento analogico, e tuttavia è anche il luogo culturale in cui i morti gravano sulle spalle dei viventi (Marx) e l’eccesso di memoria storica contribuisce a soffocare le esigenze del presente (Nietzsche). E tuttavia Lutero agisce pensando analogicamente a San Paolo e Robespierre agisce identificandosi con gli eroi di Plutarco. In questi casi, però, gli eroi del passato sono dei puri exempla per agire nel presente storico in cui si vive.

Le cose cambiano quando ci si continua ad orientare nell’attuale quarta guerra mondiale con gli schemi ideologici che hanno presieduto alla seconda (1939-1945) ed alla terza (1945-1989). In questo caso, la dicotomia Fascismo/Antifascismo e la dicotomia Comunismo/Anticomunismo sono come i morti che gravano sulle spalle dei viventi di cui parla Marx. E dal momento che ho proposto di interpretare il presente sulla base della categoria di Capitalismo Assoluto o Integrale, Postborghese e Postproletario, Piramidale e Neosignorile, Plebeizzato in modo postmoderno e con la Democrazia ridotta a Codice d’Accesso in cui il sacerdozio ipocrita dei Diritti Umani ha sostituito la Rappresentanza degli Interessi (rappresentanza oggi diffamata con il nome di corporativismo, populismo, eccetera), non ha senso (o meglio, ha senso come protesi manipolativa per i dominanti) inchiodare la nostra rappresentazione ideologica del mondo in cui viviamo alla fase precedente dello sviluppo capitalistico, la fase in cui non era ancora stata portata a termine la deriva dalla sottomissione formale (permanenza dei limiti esterni precapitalismo/capitalismo e dei limiti interni borghesia/proletariato) alla sottomissione reale.

E qui torno al mio primo paragrafo, perché qui il primo e l’ultimo paragrafo si incontrano. Il gruppo sociale degli intellettuali è oggi pressoché inservibile, ed è anzi un fastidioso ostacolo, perché non solo è lautamente pagato per riprodurre spettacolarmente i contenziosi della seconda e della terza guerra mondiale, ma anche e soprattutto perché nella sua stragrande maggioranza, salvo eccezioni limitate, non ha ancora capito che siamo passati dalla seconda alla terza fase della dinamica del modo di produzione capitalistico. Non solo non esistono oggi degli Spinoza, degli Hegel e dei Marx, ma non esistono ancora neppure delle rappresentazioni sistematiche utilizzabili della realtà presente. I morti gravano sulle spalle dei viventi, e le pagine culturali dei giornali, così come i talk show “colti” televisivi, ne sono i necrologi.

La Democrazia come Codice d’Accesso ed il Politicamente Corretto come sua teologia di legittimazione sono gli elementi ideologici da cui partire. Un sistema imperiale ha bisogno di un Principio di Intervento (pensiamo alla Santa Alleanza dopo il 1815), e questo principio di intervento si basa ovviamente in primo luogo sulla preponderante forza militare, nella doppia forma del bombardamento aereo annientatore preventivo e del successivo intervento sul terreno di carne da cannone (contractors superpagati, truppe volontarie in modo da non suscitare le proteste plebee che sorgerebbero in caso di invio di truppe di leva a massacrare i ribelli, eccetera). E tuttavia questo elemento della Forza si accompagna sempre ad elementi ideologici di giustificazione.

A chi devono essere rivolti questi elementi ideologici giustificativi? Non certo alla plebe indifferenziata maggioritaria, la cui parte maschile legge esclusivamente i giornali sportivi e la cui parte femminile legge esclusivamente giornali di gossip. Ma lo sport ed il gossip coprono solo un ottanta per cento del popolo riplebeizzato (il popolo, infatti, emerge dalla plebe nella prima fase del capitalismo, domina nella seconda e viene progressivamente riplebeizzato in modo postmoderno nella terza attuale). Resta un rimanente venti per cento, la parte che il comico Benni ha chiamato Gente di una Certa Kual Kultura (con due kappa). Sono costoro il destinatario della cosiddetta Opinione Pubblica, anche se non sono certamente loro l’Opinione Pubblica. Nella terza fase del capitalismo la cosiddetta opinione pubblica è composta esclusivamente dalle oligarchie finanziarie neosignorili (l’un per cento della popolazione mondiale), che attraverso la cosiddetta “opinione pubblica” controllano ideologicamente una nuova classe globalizzata, la new global middle class, di cui il Politicamente Corretto è il vettore ideologico di costituzione.

E perché lo è? Non è difficile cominciare a capirlo. Il mondo liscio del capitalismo assoluto ed integrale, postborghese e postproletario, neoimperiale e neosignorile, piramidale e stratificato, deve omogeneizzare tutti i differenti tipi umani nell’unico modello del consumatore (correlato con il lavoratore precario, flessibile e con i diritti sindacali ridotti al minimo), ma non più del consumatore equalizzato e livellato del comunismo standardizzato (un solo modello maoista di vestito, un solo modello sovietico di scarpe, eccetera), ma del consumatore differenziato non più da contrastanti concezioni del mondo, ma esclusivamente da differenti piramidali capacità di acquisto.

Il Politicamente Corretto segue la stessa strategia omologatrice del defunto comunismo (il che facilita enormemente la riconversione dei vecchi comunisti in nuovi politicamente corretti – la furia omologatrice è la stessa), ed è per questo che prima “bonifica” ipocritamente il linguaggio (operatori ecologici al posto di spazzini, diversamente vedenti al posto di ciechi, eccetera), e poi cerca di costituire un Unico Sesso (omo ed etero, con la normale sessualità riproduttiva umana ridefinita “etero”), un’Unica Razza (meticciata, con sportivi, cantanti ed indossatrici come testimonial), un’Unica Lingua, un’Unica Industria dei Divertimenti (concerto rock per i giovani e telenovela televisiva per anziani), un’unica ipocrita Religione Olimpica, un’unica filosofia politica globalzizata (democrazia come codice d’accesso e diritti umani da esportare con le armi), ed infine un’unica cultura mondiale, il Multiculturalismo appunto. Mentre tutto ciò è strutturale ed obbligatorio, esistono anche optionals per intellettuali e semicolti, come l’immagine storica del novecento come incubo totalitario generalizzato fasciocomunista o comufascista, l’annientamento della vecchia scuola umanistica consegnata a bande incontrollate di pedagogisti postmoderni e di psicologi invasivi. Ciò che però conta in questo fenomeno è che tutto si tiene, anche se bisogna evitare di credere di poter “dedurre” anche i più casuali e contingenti particolari (si pensi alla polemica di Hegel contro chi gli voleva far “dedurre” la penna del professor Krug).

Di fronte a questo il solo atteggiamento culturale possibile è quello della scissione assoluta, o per usare un termine impiegato da Antonio Gramsci, dello spirito di scissione. Purtroppo lo spirito di scissione è soltanto un dato psicologico-esistenziale preliminare, in quanto di per sé non è ancora in grado di costituire un profilo reale di opposizione al capitalismo assoluto ed integrale.

Soltanto un processo storico collettivo e comunitario potrà portare a questo, non certamente alcune “anticipazioni geniali” di un singolo. E qui posso finire con una confessione personale. Odio le sparate presuntuose e megalomani, ma mi sono anche odiosi gli ipocriti lamenti di falsa modestia. Ritengo infatti che l’insieme delle concezioni che ho riassunto in questa autopresentazione sia molto più avanzata della maggioranza delle concezioni dei miei coetanei, e che rappresenti un vero “fronte avanzato” dell’analisi contemporanea. In tutta sincerità, ritengo che per usare un linguaggio sportivo l’insieme delle mie concezioni sia di serie A. E tuttavia questo non mi viene affatto riconosciuto nel mondo esterno, e non mi accontento certo di spiegarlo con tautologie consolatorie come settarismo, invidia, pigrizia, senso identitario di appartenenza, eccetera. Evidentemente, o io mi sbaglio, e mi sbaglio di grosso (ma non lo penso proprio, ed anzi lo escludo), oppure non ci sono ancora le condizioni storiche per l’accoglimento di quanto sostengo. Nel frattempo, non potendo fare altro, metto il messaggio in una bottiglia (informatica e stampata). Chi vivrà, vedrà.

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