Sulla composizione di classe

gen 25th, 2022 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

 

Sulla composizione di classe

Con questo intervento di Carlo Formenti si apre il dibattito sul tema della composizione di classe lanciato dall’articolo di Alessandro Testa, della redazione di “Cumpanis”, nel numero scorso del nostro giornale
Carlo Formenti Dicembre 2021
Provo a rilanciare gli  stimoli che ci ha offerto Alessandro Testa con il suo articolo sul tema  della composizione di classe.  In questo intervento mi concentrerò su alcune questioni di metodo che considero  decisive per dire qualcosa di sensato in merito. Testa parte da un dato di fatto: le mutazioni del modo di produzione capitalistico dai tempi di Marx a oggi sono tali e tante che il modello “classico”, fondato sull’opposizione bipolare capitale-lavoro, non è più una chiave interpretativa sufficiente: il secondo fattore del binomio è talmente cambiato (il che vale anche per il primo, ma indentificare le classi dominanti è relativamente più facile) che solo un’accurata indagine scientifica può aiutarci a darne un’adeguata rappresentazione “oggettiva” (il significato delle virgolette si capirà più avanti). Dopodiché aggiunge che, a rendere ulteriormente difficile l’impresa, contribuisce il fatto che la comunità scientifica che potrebbe realizzarla – fondi, ricercatori, istituti universitari, ecc. – è totalmente controllato da élite economiche, politiche e accademiche che non hanno alcun interesse a promuoverla (anzi hanno interesse a impedire che ciò avvenga, o a indirizzare la ricerca verso falsi obiettivi). Posto che l’osservazione è corretta, mi viene da osservare che, per quanto utile, il contributo di analisi empirica che ci potrebbe arrivare dalla ricerca accademica, qualora potessimo disporne, potrebbe integrare ma non rimpiazzare l’analisi teorica di un partito rivoluzionario.

Sono convinto che uno degli errori più gravi del marxismo dogmatico e accademico sia stato attribuire alle scienze sociali borghesi pari dignità rispetto alle scienze naturali, e ciò in particolare in campo economico, al punto che molti intellettuali marxisti – o sedicenti tali – hanno finito per convertirsi in altrettanti esperti di economia politica, dimenticando che l’intento di Marx non era fondare una nuova economia politica, bensì gettare le fondamenta di una critica dell’economia politica, scoprire, cioè, non le leggi dell’economia capitalistica, bensì le “leggi” della lotta di classe. Le virgolette sono d’obbligo per i motivi chiaritici dal più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukács: per Marx, scrive Lukács, l’unica vera scienza sociale è la storia, le cui “leggi” non possono essere descritte in astratto, a priori, ma solo post festum, ricostruendo – attraverso un’analisi concreta della situazione concreta – le catene causali che hanno indirizzato uno specifico processo storico. Ecco perché penso che il vero ostacolo che oggi rende difficile condurre un’analisi soddisfacente della composizione di classe non è tanto lo stato in cui versano le scienze sociali accademiche, quanto l’assenza di un partito di classe forte, numeroso e sufficientemente ramificato in tutte le parti della società per poter condurre in prima persona le indispensabili inchieste sul campo.

Quanto appena affermato non impedisce di abbozzare alcune riflessioni di metodo da cui partire per dissodare il terreno in vista di successivi approfondimenti. È quanto ha fatto Alessandro Testa attraverso un percorso che parte dalla doppia affermazione di principio secondo cui appartiene alla classe proletaria: 1) chi vive esclusivamente della vendita della propria forza lavoro, 2) chi, oltre a vivere della vendita della propria forza lavoro, non è in grado di determinarne il prezzo (le star dello sport e dello spettacolo, per esempio, vendono la loro forza lavoro ma sono in grado – chi più chi meno – di determinarne il prezzo). Vediamo le stazioni principali di questo percorso.

In primo luogo, Testa si chiede come classificare quei soggetti che, oltre a percepire un reddito da lavoro più o meno corrispondente al costo della propria riproduzione, godono di una piccola rendita aggiuntiva (come l’affitto di un appartamento ereditato o acquistato con i propri risparmi, o un certo numero di buoni del tesoro). La sua risposta è che ciò non è sufficiente per negare a tali soggetti lo status di proletari. Sono d’accordo, ma con una precisazione. Thomas Piketty, nelle sue analisi che dividono la popolazione per percentili di reddito, ci dice che negli Stati Uniti e in Europa, a parte l’esigua minoranza di super ricchi che concentrano nelle proprie mani gran parte delle risorse, esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che riescono a intercettare rendite sufficienti a garantire un livello di vita medio alto, nettamente superiore a quello che potrebbero permettersi con il solo reddito da lavoro. Di per sé questo dato non inficia la tesi di Testa: ci dice semplicemente che i rentier appartenenti alle classi medio alte sono – almeno qui in Occidente – altrettanto se non  più numerosi dei proletari che usufruiscono di piccole rendite. Ma la questione non è meramente quantitativa: occorre tenere conto anche del peso psico-antropologico che anche minime quote di proprietà immobiliare e mobiliare giocano nell’inibire l’autopercezione di sé come appartenenti alla classe proletaria (più volte si è sottolineato il ruolo che l’alta percentuale di italiani che vivono in un’abitazione di proprietà gioca nello smussare il potenziale combattivo delle classi subalterne del nostro Paese). Cominciamo così a intuire perché ho messo quelle virgolette sull’appartenenza al proletariato come dato “oggettivo”. Ma andiamo avanti.

Sul secondo criterio introdotto da Testa non mi dilungo perché mi pare incontestabile: la proprietà o meno dei propri mezzi di produzione vale come elemento discriminante solo ove si parli di mezzi di produzione di massa. Nessuno può pensare che lo status sociale del rider è definito dal fatto che la bici o il motorino con cui va in giro sono suoi. Analoghe considerazioni valgono per altre due questioni affrontate da Testa: il lavoro autonomo non è di per sé un criterio significativo, dal momento che la quota di lavoro fintamente autonomo (vedi gli autisti di Uber e quasi tutte le attività classificabili nell’ambito della cosiddetta gig economy) è in costante crescita in quanto consente alle imprese di sfruttare forza lavoro a cui non deve versare contributi, retribuire i giorni di malattia e ferie, pagare liquidazioni ecc. Idem per quei piccoli (o piccolissimi, come gli ambulanti) esercenti che, in molti casi, intraprendono queste attività rifugio dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro dipendente.

Più intrigante la questione dei quadri intermedi d’impresa, in quanto si tratta di un altro caso in cui identità di classe “oggettiva” e percezione soggettiva della stessa tendono a divergere. Di questo ho discusso in vari lavori nei quali ho polemizzato con le tesi post operaiste in merito al presunto ruolo di avanguardia dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Com’è noto, gli autori in questione, sostengono che la rivoluzione digitale ha creato un nuovo strato di lavoratori che presentano una elevata propensione alla cooperazione reciproca e all’autonomia nei confronti del comando capitalistico. Questa “classe hacker” disporrebbe di un habitus mentale, oltre che delle competenze e delle capacità necessarie ad assumere il controllo diretto della produzione sociale, appropriandosi del general intellect ed emancipandosi dal potere del capitale. Se questi sogni hanno avuto una qualche giustificazione nella fase arrembante delle startup californiane (negli anni Novanta), la crisi dei primi anni Duemila e il rapido processo di concentrazione monopolistica delle Internet Company li hanno spazzati via. Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori di tale settore (programmatori, sviluppatori, web designer, ecc.) sia che operino come autonomi (in catene di subfornitura caratterizzate da alti tassi di sfruttamento e feroce competizione fra poveri) sia come dipendenti dei colossi high tech, sono a tutti gli effetti operai come gli altri (cioè non dotati di alti livelli di comprensione del processo produttivo totale in cui operano come piccoli ingranaggi individuali). Viceversa le minoranze di quadri inseriti in grandi imprese monopolistiche – come Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft – sono a tutti gli effetti funzionari del capitale il cui ruolo consiste – similmente a quello degli ingegneri analisti dei sistemi nell’era taylorista – nello sviluppare modelli di governo, controllo e comando non solo sugli altri dipendenti d’impresa, ma anche sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma (vedi gli algoritmi che controllano il lavoro dei rider), dei consumatori e più in generale dell’insieme dei rapporti sociali. Oggettivamente sono proletari, soggettivamente no.

Testa inserisce poi un ulteriore elemento di riflessione che consiste nel mettere l’appartenenza di classe in relazione alla posizione occupata all’interno del processo di creazione di plusvalore. Tema che implica altre questioni, come le distinzioni fra lavoro produttivo e improduttivo, manuale e intellettuale, materiale e immateriale, servizi e produzione, creazione e realizzazione del valore, ecc. Questioni intricatissime già ai tempi di Marx (basti pensare al Capitolo VI inedito e al Secondo e Terzo libro del Capitale) ma che appaiono oggi ancora più complicate dall’elevatissimo livello di integrazione raggiunto fra i vari spezzoni delle catene del valore (ricerca e sviluppo, progettazione, produzione materiale e immateriale, distribuzione e commercializzazione, logistica ecc.) reso possibile dalle nuove tecnologie, per tacere dell’impatto dei processi di finanziarizzazione su tutto ciò. Non avendo le competenze per addentrarmi in una discussione in merito alla possibilità di attualizzare la legge del valore lavoro nell’attuale contesto socioeconomico, mi limito ad offrire alcuni spunti.

Parto dal binomio lavoro produttivo-improduttivo. Come notavo già decenni fa , in campo marxista la questione è inquinata da alcune rozze impostazioni (che Marx avrebbe definito materialismo volgare) fondate su una sorta di pregiudizio “morale”, in ragione del quale viene considerato produttivo esclusivamente il lavoro manuale. Nel Capitolo VI inedito Marx sgombra il campo da simili idee: è produttivo il lavoro che genera plusvalore per il capitalista che lo sfrutta, senza alcuna distinzione relativa al tipo di attività svolta. Di più: a mano a mano che la produzione diviene sempre più complessa e integrata, che cresce il livello di cooperazione fra tutte le operazioni di una fabbrica sempre più socializzata, l’attributo di lavoro produttivo va riconosciuto al lavoratore collettivo che la mette in funzione. Fra le altre cose, ciò rende difficile tracciare un netto confine tra produzione e servizi, come nota Testa: “progettare un prodotto, progettare un processo, mettere fisicamente a disposizione un prodotto attraverso una rete logistica globale e fortemente automatizzata sono ormai divenuti elementi strutturali della creazione di valore, elementi senza i quali produrre un telefonino o persino un bullone diviene totalmente inutile ed insensato”.

Attenzione: quanto appena detto non impedisce che, in una società socialista, il criterio possa mutare, nella misura in cui la produttività del lavoro è qui commisurata alla sua utilità sociale, per cui attività come il marketing, la pubblicità, ecc. che per il capitalista sono produttive, divengono improduttive in un mondo socialista. Anche fra lavoratori dei settori pubblici e privati è difficile tracciare nette distinzioni: mentre è interesse dell’ideologia neo liberale accusare in blocco di improduttività il lavoro del settore pubblico (per giustificare i tagli alla spesa e ridurre lo spazio di intervento dello Stato in economia), è chiaro che molti lavori pubblici (non solo nel settore delle infrastrutture) sono indispensabili per il funzionamento della macchina economica, e che anche i criteri di queste distinzioni varieranno nella transizione dal capitalismo al socialismo. Sorvolo invece sul tentativo di certi teorici post operaisti di invertire la gerarchia fra lavoro materiale e immateriale, rovesciando specularmente il punto di vista materialista volgare cui accennavo poco fa – tentativo che ho criticato in precedenti lavori ai quali rinvio.

Per tirare le fila di questa prima parte di ragionamento, richiamo brevemente un altro aspetto di cui mi sono occupato negli ultimi anni. Marx aveva intuito già ai suoi tempi che il capitale è in grado di sfruttare vari tipi di “lavoro del consumatore”. Questo fattore si è oggi dilatato a dismisura: basti pensare al fatto che tutti noi, per il solo fatto di connetterci ai social media, produciamo sistematicamente una enorme massa di dati e informazioni (non solo sotto forma di testi, immagini ecc. ma anche e soprattutto di dati sensibili sui nostri comportamenti, fedi politiche e religiose, tendenze sessuali, ecc.) che sono la materia prima, o meglio i semilavorati, del modello di business delle Internet Company che estraggono valore da questo materiale di cui si appropriano gratuitamente. Mi è stato obiettato che queste attività in quanto “libere” volontarie, non finalizzate a generare un reddito e fonte di gratificazione per coloro che le compiono non possono essere classificate come economiche. In un libro ironicamente intitolato “Felici e sfruttati” ho replicato che questo loro carattere “ludico” non inficia l’esistenza di una relazione di appropriazione gratuita di risorse che generano valore economico per chi le sfrutta (per inciso: la quantità di lavoro che non solo le piattaforme digitali, ma anche banche, compagnie aeree, portali commericiali ecc. delegano ai propri utenti è in continua crescita, consentendo alle aziende di alleggerirsi di numerose operazioni che, altrimenti, dovrebbero essere svolte da forza lavoro retribuita). Naturalmente ciò non basta per definire come appartenenti al proletariato tutti coloro che in questo modo contribuiscono ad alimentare la catena del valore.

Non resta dunque che attenersi al criterio generalissimo evocato in apertura: appartiene alla classe proletaria chi vive della vendita della propria forza lavoro e non è in grado di determinarne il prezzo? Sì, ma avendo ben presente che, non appena si scende al di sotto di questo livello di astrazione e ci si addentra nei meandri del mondo della produzione tipico dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, definire chi appartiene “oggettivamente” alla classe si fa progressivamente più complicato. Ma il vero punto è un altro: definire l’insieme di coloro che appartengono a quella che Marx definisce “classe in sé”, non equivale a definire l’insieme di coloro che costituiscono la “classe per sé”, cioè l’insieme dei soggetti che una forza politica rivoluzionaria dovrebbe di volta in volta assumere come interlocutori privilegiati. Questo compito, come cercherò di argomentare nella seconda parte di questo intervento, attiene a un’analisi di tipo sociopolitico piuttosto che socioeconomico, cioè a un’analisi che antepone il punto di vista storico, l’analisi concreta della situazione concreta – il metodo di Gramsci, Lenin e Mao – alla contemplazione del cielo dell’astrazione.

Un primo passo da fare, in questio senso, consiste nell’introdurre nel nostro ragionamento la dimensione spaziale, geografica e geopolitica del conflitto di classe. Già dopo la rivoluzione del 1917 non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti, oggi ciò è ancora più evidente. È grazie all’analisi leninista dell’imperialismo che l’elemento geopolitico ha fatto il suo ingresso nella teoria marxista. Marx ed Engels avevano assunto a modello il capitalismo ottocentesco inglese, e pensavano che tale modello si sarebbe gradualmente esteso al resto dell’Europa e, se non fosse stato rovesciato da una rivoluzione proletaria, al mondo intero. Tipico, in tal senso, il giudizio sul ruolo progressivo dell’imperialismo britannico in India – giudizio giustificato dal fatto che, ad onta dei suoi mostruosi costi umani, la colonizzazione avrebbe accelerato la trasformazione dell’India da nazione semifeudale a moderna nazione borghese, ingrossando le fila del proletariato mondiale. Viceversa Lenin, avendo potuto osservare la transizione del capitalismo alla sua fase monopolistica, e il ruolo strategico che il colonialismo aveva assunto nel processo di riproduzione allargata del capitale monopolistico metropolitano, fu in grado di cogliere la contraddizione per cui l’espansione metropolitana non solo non avrebbe innescato lo sviluppo capitalistico delle periferie, ma le avrebbe mantenute in uno stato di arretratezza economica, sociale e culturale, funzionale al dominio del centro. Di qui la sua intuizione in merito alla natura rivoluzionaria della lotta di liberazione nazionale dei popoli coloniali, e alla necessità di concepirla come parte integrante della lotta di classe contro il capitalismo.

Questa consapevolezza è divenuta patrimonio teorico-politico del regime sovietico – inspirandone la politica internazionale – perlomeno fino agli anni Cinquanta del Novecento. Un patrimonio che è stato arricchito da quella generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, hanno dato vita alla cosiddetta “scuola della dipendenza”. Viceversa, dopo il completamento del processo di decolonizzazione negli anni Settanta, la quasi totalità del movimento marxista occidentale – come denunciato da Domenico Losurdo nei suoi lavori – ha dato per scontato che ormai la questione nazionale avesse perso la caratteristica di parte integrante della lotta di classe a livello mondiale per cui, distolta l’attenzione dallo scontro fra Paesi del Nord e del Sud del mondo, si è regrediti su una posizione che vedeva come unico scenario della lotta di classe lo scontro fra borghesia e proletariato all’interno di ogni singolo Paese (oltre ad alimentare una fideistica aspettativa in una rivoluzione mondiale fondata su un modello che contrappone un ipotetico proletariato mondiale a una, forse meno ipotetica ma non meno astratta, borghesia mondiale).

Gli effetti della rimozione della dimensione spaziale, geografica, geopolitica della lotta di classe sono stati devastanti: liquidazione di ogni istanza patriottica come di ogni rivendicazione di sovranità popolare-nazionale in quanto espressione di ideologie “di destra” (con buona pace dello slogan patria o muerte, lanciato dai rivoluzionari latinoamericani); allineamento con le politiche imperialiste di Stati Uniti ed Europa che violano il principio di non interferenza negli affari interni di altri Paesi, in nome dell’esportazione della democrazia occidentale e della tutela di presunti “diritti universali dell’uomo” (basti pensare a come Antonio Negri, in Impero , arrivi a negare l’esistenza stessa di una politica imperiale americana, dando per acquisita l’unificazione politica del mondo e  declassando a “operazioni di polizia” i conflitti Nord-Sud); limitazione della opposizione alle politiche ordoliberiste della Unione Europea a trazione tedesca a un blando europeismo critico, che ignora le conseguenze della deindustrializzazione dell’Italia e della sua integrazione in posizione subordinata in filiere controllate dall’estero, per tacere dello smantellamento delle industrie pubbliche, dei tagli alla spesa sociale, ai salari e alle pensioni, ecc..

Credo infine che l’effetto più grave di questa chiusura dell’orizzonte politico-culturale delle sinistre occidentali nel cerchio di un ottuso e autoreferenziale eurocentrismo consista nell’incapacità di rispondere al seguente interrogativo: perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite non sono avvenute in Paesi industrialmente avanzati (cioè nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive secondo la dogmatica kautskyana della II Internazionale), bensì in Paesi economicamente “arretrati” (negli anelli più deboli della catena, secondo la formula “eretica” di Lenin)? E ancora (e a mio avviso è questo l’interrogativo più importante ai fini della nostra discussione): perché ne sono state protagoniste le larghe masse contadine, assieme ad esigui nuclei di classe operaia in formazione e a sezioni della piccola borghesia urbana? Per rispondere, dobbiamo tornare alle questioni di metodo discusse in precedenza.

Nell’ultimo decennio di vita, Marx assunse posizioni che appaiono oggi quanto meno scomode per i suoi esegeti dogmatici e dottrinari. In primo luogo, commentando la recensione che il traduttore russo del Capitale aveva dedicato alla sua opera fondamentale, scrisse ironicamente che costui gli aveva fatto allo stesso tempo troppo onore e troppo torto, scambiando il suo lavoro per un tentativo di descrivere le leggi universali di sviluppo della storia. Questo perché, dal suo punto di vista, non esiste alcuna necessità immanente che governi come una ferrea legge di sviluppo il cammino della storia, bensì un avanzare complesso e contraddittorio della stessa, che può essere compreso solo attraverso l’analisi dei  contesti concreti – spesso contingenti – che di volta in volta ne determinano l’esito. Ciò significa, fra le altre cose, che Marx non ha mai teorizzato l’esistenza di una successione necessaria di fasi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo) che tutte le società dovrebbero necessariamente attraversare. Tanto è vero che, nella famosa lettera a Vera Zasulic , arrivò ad ammettere che, in determinate circostanze nazionali e internazionali, la comunità contadina originaria russa, l’obščina, avrebbe potuto funzionare come nucleo di un balzo diretto al socialismo, senza passare sotto le forche caudine di una fase borghese-capitalistica.

Questa straordinaria elasticità mentale ha inspirato quei teorici marxisti latinoamericani  che hanno criticato la tesi comune a molti partiti comunisti del subcontinente, secondo cui le masse contadine di origine india, organizzate in forme comunitarie di comunismo primitivo, avrebbero potuto divenire parte attiva in un fronte rivoluzionario anticapitalista solo dopo essere passati attraverso la fase della piccola proprietà di tipo borghese. Una visione miope, incapace di cogliere la differenza fra il feudalesimo europeo e il comunitarismo contadino latinoamericano, e quindi di sfruttare il potenziale rivoluzionario di quest’ultimo. Ragionando sulla rivoluzione boliviana, e sul ruolo strategico svoltovi dalle comunità campesindie, l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera ha dato un  contributo importante all’allargamento del concetto di classe antagonista, estendendolo a quelle forme comunitarie che, ove costrette a lottare contro i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, possono acquisire una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e universalizzante di quello originario (il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane è non a caso una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità andine).  Questa “etnicizzazione” dello scontro di classe ha fra l’altro fatto sì che gli organismi di democrazia diretta e partecipativa, tipiche delle comunità andine tradizionali, abbiano svolto un ruolo centrale nell’aggregazione del blocco sociale rivoluzionario.

Ancora più densa di insegnamenti si presenta la rivoluzione cinese, della quale le masse contadine sono state di gran lunga il protagonista principale, laddove la classe operaia cinese – numericamente inferiore all’1% della popolazione all’inizio del processo rivoluzionario – appare tutt’oggi minoritaria, malgrado i giganteschi processi di industrializzazione e di inurbazione che il Paese ha vissuto negli ultimi decenni (basti dire che gli operai sono poco più del 13% degli attuali iscritti al PCC, superati da tecnici, lavoratori del terziario e dei servizi, mentre i contadini, pur ridimensionati,  sono ancora maggioranza relativa). Ciò significa che dobbiamo rimpiazzare il proletariato in quanto soggetto privilegiato di un processo di trasformazione socialista? Evidentemente no, ma significa: 1) che dobbiamo ridefinirne e estenderne i confini (vedi gli spunti contenuti nella prima parte); 2) che dobbiamo immaginare la costruzione di un blocco sociale rivoluzionario non nei termini di una rete di alleanze tattiche, strumentali, bensì come integrazione di una serie di soggetti sociali in un popolo unito da un comune progetto politico anticapitalista, un blocco in cui non necessariamente la classe operaia deve sempre rappresentare, in ogni e qualsiasi concreta contingenza storica, l’avanguardia; 3) che occorre riproporre in tutta la sua pregnanza la distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé, nonché la concezione leninista del partito quale unica organizzazione politica in grado di incarnare gli interessi generali (e non meramente corporativi) della classe per sé, al di là della composizione statistica del partito stesso e del corpo sociale in cui esso si trova di volta in volta a operare.

Che altro aggiungere? Sull’atteggiamento delle sinistre occidentali che, di fronte alle rivoluzioni “eretiche” avvenute al di fuori del loro universo storico, geografico e culturale, reagiscono negandone il carattere socialista e parlando di capitalismo di stato e autoritarismo, ho già scritto altrove né intendo qui ritornare sul tema. Chiudo perciò riassumendo le osservazioni di metodo fin qui svolte e aggiungendo quali obiettivi dovrebbero a mio avviso  suggerire a una forza rivoluzionaria. Credo che tutto quanto ho sostenuto possa essere sintetizzato in due tesi di fondo. La prima consiste nell’affermare che la ridefinizione-aggiornamento del concetto di classe in sé alla luce dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico, mentre è decisiva ai fini della comprensione delle nuove modalità di sfruttamento della forza lavoro, non offre indicazioni immediate sull’identità della classe per sé. Detto altrimenti: composizione di classe socioeconomica e sociopolitica non coincidono necessariamente, e i soggetti in grado di elevarsi dalla lotta economica alla lotta politica sono riconoscibili solo analizzando, di volta in volta, la composizione sociopolitica. La seconda tesi rinvia alla necessità di inquadrare il conflitto di classe nel contesto mondiale, declinandolo come conflitto fra nazioni dominanti e nazioni dominate, il che implica rilanciare e aggiornare le teorie leniniste sull’imperialismo.

Queste tesi si integrano e influenzano reciprocamente, come l’esperienza delle rivoluzioni socialiste avvenute nei Paesi periferici e semiperiferici ampiamente dimostra. Queste esperienze si sono infatti avvalse di due poderose leve storiche: la volontà di riscatto nazionale dei popoli asserviti, oppressi e sfruttati dalle potenze imperialiste occidentali, e la volontà di resistenza alla penetrazione dei rapporti di produzione capitalistici da parte di larghe masse contadine che, perlopiù, non erano passate attraverso una fase feudale di tipo occidentale, per cui conservavano consistenti memorie di culture comunitarie e relazioni economiche di natura precapitalistica. Queste due leve hanno assunto il carattere di lotta anticapitalista laddove il processo rivoluzionario ha potuto contare su partiti comunisti radicati in minoranze sociali di operai e intellettuali. Partiti che hanno conquistato l’egemonia convincendo le larghe masse popolari che solo il socialismo poteva realizzarne le speranze di indipendenza nazionale e di libertà dallo sfruttamento imperialistico.

Le due tesi sopra enunciate valgono anche nei Paesi che appartengono ai centri capitalisti metropolitani? Sì, ma con gli opportuni adeguamenti. Partiamo dalla prima: nel contesto occidentale, la disarticolazione del proletariato in frammenti separati da confini generazionali, di genere, regionali, di status economico e contrattuale, ecc. dovuta a decenni di ristrutturazione tecnologica, finanziarizzazione, decentramento produttivo, nonché di progressiva perdita di rappresentanza sindacale e politica, ha raggiunto livelli tali per cui il compito prioritario di un partito comunista consiste nel ri-costruire l’unità di classe. In un certo senso si potrebbe dire che, data l’attuale debolezza del movimento comunista, ricostruire il partito di classe e ricostruire la classe sono parte di un unico processo. Da quanto sostenuto in precedenza deriva che l’analisi della composizione socioeconomica, della classe in sé è, sotto tale aspetto, meno rilevante dell’analisi della composizione sociopolitica, il che, detto in parole povere, significa che l’attenzione e le energie vanno indirizzate in primo luogo nell’individuazione degli “anelli deboli” di questa nuova nebulosa del lavoro (cioè quei settori sociali che, per cause non definibili a priori, manifestano maggiore spirito combattivo), nell’organizzarli e nel convertirli in avanguardia rivoluzionaria. Anche il compito di allargare l’egemonia di tale avanguardia su un più ampio blocco sociale assume carattere inedito: oggi non si tratta tanto – almeno in una prima fase – di costruire alleanze con altre classi sociali, ma di proseguire e rafforzare il processo di ri-costruzione della classe proletaria. Da questo punto di vista, esiste una qualche analogia con quanto sostenuto dal filosofo argentino Ernesto Laclau, laddove costui parla di “costruzione di un popolo”, riferendosi alla capacità di saldare una serie di rivendicazioni eterogenee in un’unica “catena equivalenziale”. Con la differenza che, per chi vuole mantenere un punto di vista classista, i confini del popolo in questione non possono essere estesi indefinitamente (vedi il discorso sull’integrazione nel blocco dominante di un ampio strato di quadri e rentier, accennato nella prima parte).

Quanto alla seconda tesi, relativa al conflitto geopolitico come conflitto di classe, è chiaro che da noi pesa meno di quanto abbia pesato nelle rivoluzioni dei Paesi ex coloniali, ma la sua importanza è tutt’altro che irrilevante. Basti pensare alle contraddizioni che l’integrazione dell’Italia nella Ue ha generato per il nostro Paese: smantellamento dell’industria di Stato, tagli drammatici al welfare e alla spesa pubblica, de industrializzazione, aumento della disoccupazione, annullamento dei diritti del lavoro, crescenti disuguaglianze e aggravamento delle differenze fra Nord e Sud, fra regioni ricche e regioni povere. Insomma: il conflitto di classe si inscrive potentemente nello spazio, sia all’interno che verso l’esterno dei confini nazionali. All’interno lo vediamo, fra le altre cose, con i processi di gentrificazione dei centri delle grandi città, e con la conseguente espulsione delle classi lavoratrici verso le periferie, e ancor più lo vediamo con la desertificazione produttiva, sociale e culturale del Meridione che va ad accrescere le fila di quello che Nicola Zitara chiamava “proletariato esterno”. Nei rapporti con l’esterno lo vediamo con la rabbia popolare generata dalle politiche economiche imposte dai principi ordoliberali dell’Europa a trazione tedesca. Una rabbia che si estende a settori di piccola e media imprenditoria e gonfia le vele dei populismi di destra, il che dovrebbe farci capire – con buona pace delle sinistre cosmopolite – come il tema della sovranità nazionale e popolare non sia appannaggio esclusivo delle rivoluzioni cinese, vietnamita e cubana ma possa giocare un ruolo strategico anche in Paesi come il nostro.

 

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