Teologia e filosofia per studenti della scuola dell’obbligo

gen 4th, 2023 | Di | Categoria: Teoria e critica

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Teologia e filosofia per studenti della scuola dell’obbligo

Considerazioni su Joseph Ratzinger, Umberto Eco, Vito Mancuso e Telmo Pievani

di Costanzo Preve

 

Umberto Eco ha concesso un’intervista al giornale tedesco Berliner Zeitung del 19/9/2011. Cito dal virgolettato riportato da “Repubblica”, 20/9/2011. Afferma Eco:

“Ratzinger non è un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane, e nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole. In sei mesi, potrei organizzare io stesso un seminario sul tema del relativismo. Si può stare certi che alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto XVI, come se fossero una posizione unitaria, è estremamente naif”.

Ho conosciuto molti anni fa Umberto Eco in un seminario residenziale dei gesuiti all’Aloysianum di Gallarate. Era esattamente quello che sembra: un brillante e superficiale retore, che supplisce alla mancanza di profondità con un fuoco d’artificio di erudizione. Ma qui siamo alla vera e propria “boria dei dotti” di cui parla Vico (sia pure in un altro contesto), per cui persino Ratzinger è sottoposto alla correzione delle tesine con matita rossa e blu.

Ho superato purtroppo da tempo l’età della scuola dell’obbligo. Ma voglio dire la mia. Affronterò prima il tema della teologia, e poi quello della filosofia. Dico subito che per me Ratzinger è un filosofo di primo livello, del tutto indipendentemente dal suo ruolo di papa e dal fatto che personalmente non sono in alcun modo una pecorella del suo gregge.

La religione cristiana non consiste affatto in teologia, ma semplicemente in Fede, Speranza e Carità. Di tutte e tre queste dimensioni, tendo a mettere al primo posto la Carità, e so di essere in buona compagnia. La cosiddetta “teologia” è semplicemente l’applicazione alla fede religiosa della terminologia concettuale della filosofia greca classica (e Platone ed Aristotele in primo luogo), e non è a mio avviso assolutamente necessaria per la pratica religiosa. Esattamente come l’epistemologia per la scienza, che non ne ha nessunissimo bisogno e che va comunque avanti per conto suo, nello stesso identico modo la pratica religiosa, individuale o collettiva, va avanti da sola senza teologia.

Il bisogno di giustificare “teologicamente” la fede cristiana è un fatto storico emerso tra il XII ed il XIV secolo dopo Cristo in Europa occidentale (considero la patristica greca un caso diverso- lì non si trattava di giustificare, ma di comprendere meglio), come risposta ai nuovi bisogni culturali della civiltà comunale. Da allora si assiste a due processi culturali paralleli, che a volte si intrecciano, ma che bisogna tenere ben distinti. Da un lato, la pratica religiosa comunitaria è erosa dalla secolarizzazione individualistica, e questo viene impropriamente chiamato “eclissi del sacro nella società moderna”. Dall’altro, ed in modo assolutamente indipendente, l’argomentazione teologica viene erosa dalla critica scientifica di origine illuministica. I due processi sono del tutto distinti, ma i confusionari non riescono a distinguerli.

Esaminiamo ora il secondo processo, spesso impropriamente connotato come “laicismo razionalista”. Se per laicismo (ma sarebbe meglio dire laicità) si intende la separazione tra diritto pieno alla cittadinanza politica costituzionale e qualunque pratica religiosa ( professione di ateismo razionalistico), allora io stesso, che aborro il laicismo filosofico come fondamentalismo illuministico astratto mascherato, sono pienamente e convintamente laico. Ma non è questo il laicismo di Eco. Per capirne meglio la natura sono costretto ad aprire una parentesi filosofica apposita.

Il laicismo, che personalmente preferisco definire come “fondamentalismo illuministico”, si presenta come l’unico e vero discorso filosofico della modernità (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1987). Habermas connota la modernità come abbandono della pretesa metafisica della conoscenza e della valutazione della totalità, ed è chiaro che qui siamo di fronte a un parricidio nei confronti del suo maestro Adorno, tanto migliore di lui (valutazione mia, CP). In questo modo Kant diventa il primo e anche l’ultimo vero autore moderno, mentre sia Hegel che Marx vengono esplicitamente connotati come “pre-moderni”, e cioè come metafisici secolarizzati della totalità.

Devo personalmente ringraziare Habermas per la sua chiarezza, perché leggendo il suo saggio ho finalmente capito che non solo personalmente non ero “moderno”, ma non mi sarebbe mai più importato nulla essere considerato tale. Vale invece la pena individuare il nucleo di questa modernità laica, e diagnosticarne la povertà.

La radice filosofica di questa “modernità” sta nella riduzione del problema della verità a quello della certezza del soggetto, o meglio alle modalità gnoseologiche del suo accertamento. Correttamente Lukács scrisse che la gnoseologia è la teologia dei tempi moderni e della società capitalistica.

A partire dal Cogito di Cartesio fino all’Io penso di Kant si svolge un processo effettivamente “moderno” che riduce integralmente il problema della verità della totalità in certezza epistemologica del soggetto, un soggetto (non dimentichiamolo) de-storicizzato e de-socializzato. In questa concezione la ri-storicizzazione e ri-socializzazione del soggetto, operata da Vico, Fichte, Hegel e Marx viene paradossalmente considerata pre-moderna e non moderna. Ma non siamo che all’anticamera della comprensione del problema.

La chiave del moderno relativismo laicista si trova a mio avviso in Max Weber, il “Marx della borghesia”, un neo-kantiano senza coscienza infelice ma consapevole della “gabbia d’acciaio” in cui il capitalismo stava rinchiudendo gli uomini.

Come ha osservato una acuta interprete francese, l’esito relativista di Max Weber (il relativismo dei valori portato dal disincanto del mondo) è in realtà ambiguo, perché Max Weber è un comparatista relativista (tutte le religioni e le civiltà sono “valorialmente” egualmente vicine a Dio, e cioè al nulla) ed un epistemologo assolutista, perché la civiltà occidentale è considerata superiore a tutte le altre proprio in nome del razionalismo proceduralistico, il cui esito è appunto il relativismo dei valori e il disincanto del mondo.

Vediamo allora dove sta la volgarità arrogante di Umberto Eco quando scrive che il modo di affrontare il relativismo di Ratzinger è inferiore a quello di uno studente della scuola dell’obbligo. In quanto “ismo” è naturale che il relativismo contenga almeno venti differenti varianti storiche e teoriche, e qualunque professore universitario (e liceale) è in grado di enumerarle e distinguerle dottamente. Ma questo avviene per qualunque “ismo” (idealismo, positivismo, storicismo, eccetera). Gli “ismi” sono classi di elementi distinti. Nello stesso tempo gli “ismi” sono astrattamente e concettualmente unificabili. Ad esempio Hegel è idealista, Feuerbach materialista e Weber storicista.

Nello stesso tempo il relativismo moderno (non parlo qui dei sofisti greci, per cui il discorso dovrebbe essere diverso) si basa su due fondamenti estremamente unitari. In primo luogo, sulla riduzione integrale del vecchio problema “metafisico” della verità nel nuovo problema epistemologico della corretta certezza (verificabile e falsificabile) di un soggetto preventivamente destoricizzato e de socializzato ( da Cartesio a Kant), che permette di “squalificare” e di delegittimare come “anti-moderni” tutti coloro che parlano di verità (o falsità) della totalità espressiva (Habermas su Hegel e Marx).

In secondo luogo, sulla mescolanza di relativismo comparatista e di epistemologia assolutista (solo il razionalismo occidentale viene legittimato, in quanto anti-metafisico), con le note conseguenze in termini di arroganza e di “burbanza” (Eco).

E’ un peccato, perché non mi sogno affatto di negare il nucleo di razionalità del pensiero scientifico e di quello laicista. Prendiamo ad esempio l’ultimo libro di Telmo Pievani (cfr. La vita inaspettata, Cortina editore 2010). Pievani difende l’evoluzionismo darwiniano, dandogli una nota fortemente contingentistica e casualistica, ed illustra “il fascino di una evoluzione che non ci aveva previsto”.

Come confutazione del cosiddetto “disegno intelligente” (indipendentemente dal fatto che Ratzinger lo difenda esplicitamente o lo adombri solo cautamente, come è da parte sua opportuno fare) il libro di Telmo Pievani è ottimo, e assolutamente convincente. Dirò di più: per quanto ne posso capire, Pievani ha assolutamente ragione. Ma dovrebbe fermarsi qui. Ed invece non si ferma, perché deve assolutamente comunicarci il suo assolutismo metafisico, che è una metafisica della contingenza assoluta. Pievani deve ad ogni costo seguire la linea degli agnostici ed atei razionalisti (Odifreddi, Turchetto, eccetera), criticare le pretese conoscitive della filosofia e le pretese etico-comunitarie della religione.

Se rispettasse un poco di più la filosofia classica (e non quella caricatura chiamata epistemologia, inutile a sé e agli altri) conoscerebbe Aristotele, e saprebbe che un conto è la contingenza e la casualità (katà to dynatòn), ed un conto l’essente-in-possibilità, e cioè in potenzialità (dynamei on), e che la natura seguirà forse il primo principio, ma la civiltà umana processuale ed autocosciente il secondo. E allora la richiesta fatta alla riflessione etica e filosofica di basarsi sul “sapere scientifico” resta ambigua e fuorviante.

Se il sapere scientifico, che un tempo era il sapere del necessitarismo deterministico basato sul modello meccanicistico della fisica seicentesca, ed oggi è invece il sapere dell’accettazione della casualità e della contingenza (katà to dynatòn), come è possibile che ci si possa fondare sopra il sapere etico e filosofico, che è invece un sapere delle possibilità processuali progettate e volute dal genere umano (dynamei on)?

A questo porta il riduzionismo scientistico e la polemica (sia pure più che fondata) contro l’antropomorfismo ingenuo del disegno intelligente (di cui una variante ben difesa, ma molto meno convincente della contingenza di Pievani, può essere letta in Michael Georgiev, Charles Darwin oltre le colonne d’Ercole, Gribaudi, Milano 2009). Non fa mai male sentire anche l’altra campana.

In epoca di individualismo assoluto e di rottura di ogni comunitarismo è ovvio che anche la teologia assuma la forma del fai-da-te. Un esempio di questo è il recente saggio di Vito Mancuso (cfr. Io e Dio, Garzanti, Milano 2011). Già il titolo dice tutto. Il fatto di mettere prima l’Io (l’io coscienziale e singolo, non certo l’Io fichtiano come metafora della prassi unificata dell’intera umanità), e soltanto poi Dio, e cioè l’Universale, non deve essere inteso come un empirico difetto narcisistico dell’individuo Mancuso, ma un segno dello spirito del tempo (Zeitgeist), che parte sempre dall’ombelico del soggetto individuale, e che crede (erroneamente) che partendo dall’ombelico si arrivi meglio al cervello ed al cuore.

La concezione di Mancuso di Dio come “sorgente e porto dell’essere-energia”, a metà fra Teilhard de Chardin ed uno sciamano siberiano, fa rimpiangere la vecchia concezione tomistica classica. Mancuso vuole continuare ad essere cattolico, quando ormai più nessuna Inquisizione lo obbligherebbe a farlo, e manifesta così il carattere opportunistico della cultura mediatica di oggi, che vuole essere insieme eversiva e conformistica. E’ interessante la reazione dei cosiddetti “laici” italiani, in realtà fondamentalisti illuministici di centro-sinistra. Gustavo Zagrebelsky (cfr. “Repubblica”, 9/9/2011) saluta l’avvento di una nuova teologia fondata sul prima della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza.

Non è un caso. Per i vari Zagrebelsky l’obbedienza deve essere riservata all’economia (sfida della globalizzazione, giudizio dei mercati, vincolo del debito, dittatura delle agenzie di rating, eccetera), mentre l’ambito del costume e delle religioni deve essere invece interamente liberalizzato (la “modernità” secondo Eugenio Scalfari). Ora, se c’è qualcosa in cui le chiese organizzate possono ancora servire a qualcosa, è proprio sul livello dell’obbedienza, diretto a quel 95% degli essere umani che non intendono ascoltare il linguaggio del dialogo filosofico veritativo razionale (in accordo con Platone e Hegel, chiamo “retori” e non filosofi i negatori della verità). Gian Enrico Rusconi (cfr. “La Stampa”, 18/9/2011) non si accontenta del primato della coscienza (traduzione: del primato dell’arbitrio del volere scambiato per libertà), ma vorrebbe di più, e cioè il “riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico” (sic!). Questo mi ricorda i funzionari staliniani, che erano disposti a tollerare il cristianesimo purchè “riconoscesse” la scientificità dell’ateismo, il materialismo dialettico e l’inesistenza di Dio “scientificamente dimostrata”.

Benchè Zagrevelsky sia più sobrio di Rusconi, entrambi non contestano l’imposizione individualistico-coscienziale (e cioè l’Io e Dio, con Io davanti e Dio dopo) di Mancuso. Per i “laici” lo spazio pubblico deve essere infatti riservato interamente al “laicismo” (nel senso di relativismo e nichilismo, che non è solo quello di Ratzinger, ma è quello di Nietzsche e di Weber), mentre la religione come fatto pubblico può essere “tollerata” come forma arcaica di Gay Pride e di sfilata femminista.

A differenza di Mancuso, non voglio fare il teologo dilettante fai-da-te. Nulla sarebbe più facile. Io non credo nel Dio di Ratzinger, ma nel modo in cui impostano la questione Spinoza e Hegel (migliore del modo “materialistico” in cui imposta il pur ammirevole Feuerbach ed il volenteroso Marx). Ammiro molto la risposta data da Hegel al suo studente Heine, che gli faceva l’apologia della premiazione dei buoni e della punizione dei cattivi nell’aldilà. Hegel lo guardò freddamente e gli disse: “Perché, Lei ha bisogno di una mancia per assistere la sua signora madre malata e per non avvelenare il suo signor fratello maggiore?”.

E con questo, l’essenziale della teologia è detto.

Passiamo alla filosofia, in cui non sono più uno studente della scuola dell’obbligo, ma un competente specialista. Ho già affermato che la riduzione del molteplice (le varie forme storiche e teoriche di relativismo) all’unità (il concetto unitario di relativismo) è assolutamente giustificata, ed è del resto moneta corrente di tutti i filosofi di professione. In quanto storico della filosofia, so perfettamente che vi sono profonde ragioni per essere relativisti (Weber) e nichilisti (Nietzsche in quanto porta girevole sia per il Superuomo che per l’Oltreuomo). Ma vi sono a mio avviso ragioni più profonde per non esserlo, da Spinoza a Vico, da Fichte a Hegel, da Marx a Lukàcs.

Ho scritto in proposito migliaia di pagine, che non posso certo riassumere qui. Semplicemente, non si cada nel “gioco delle tre carte”, strumento per spillare soldi ai babbioni negli atri delle stazioni ferroviarie, per cui le rispettabili opinioni relativistiche e nichilistiche vengono fatte passare per esito obbligato della scienza moderna (Pievani) e della visione laica del mondo (Zagrebelsky e Rusconi). Una volta fatta cadere questa “boria dei dotti” e questa coazione a ripetere del professore universitario che corregge le tesi, tutto poi può essere liberamente detto ed argomentato.

Due parole su Ratzinger. Per giudicarlo come teologo, bisogna prima tener conto del fatto che non si chiama soltanto Joseph, ma Benedetto XVI. In proposito, weberiani come Eco, Zagrebelsky e Rusconi dovranno pur sempre ammettere che, oltre all’etica delle opinioni, che pertiene a Ratzinger, egli deve anche ispirarsi all’etica della responsabilità, che invece pertiene a Benedetto XVI. Se io diventassi papa (mai dubitare della Divina Provvidenza!) non potrei certamente contestare il (ridicolo) sangue di San Gennaro o proclamare che nessuna vergine può essere madre di Gesù o che la sindone di Torino è una falso medioevale.

Perché portare sconcerto tra i fedeli, che chiedono soprattutto solidarietà e comunità? Quando vedo individui presuntuosi e isolati (Flores d’Arcais, Marcello Pera, eccetera) parlare da pari a pari con Benedetto XVI, come se fossero tutti pensionati al bar con gli amici, sono preso da un senso di ridicolo. Come filosofo, anche lo scrivente si sente eguale a Ratzinger, e così deve essere, perché la filosofia (ce lo ha insegnato l’ateniese Socrate) non conosce gerarchie o auctoritates, ma solo libere argomentazioni. Ma io non sono eguale a Benedetto XVI, per il semplice e noto fatto (che però sfugge in genere ai laici, scientisti o esistenzialisti, neokantiani o positivisti, eccetera) che egli è carico di una responsabilità. Su questa base deve anche allora essere giudicato sia come teologo che come filosofo. A differenza di Umberto Eco, lo giudico un teologo ed un filosofo di alto livello, e cerco di spiegarne brevemente il perché.

Come teologo, non posso certo pretendere che dia del Cristo una interpretazione “materialistica” fondata sulla teoria dei modi di produzione (Fernando Belo, Massimo Bontempelli prima maniera de “Il senso della storia antica”, Trevisini), oppure riduca Gesù a zelota armato crocifisso perché accusato di insurrezione (vedi cartiglio INRI, riservato esclusivamente agli zeloti armati del tempo). E’ evidente che il suo Gesù non può essere demitizzato e storicizzato oltre un certo punto. Si tratta di un Gesù serio e credibile, cui personalmente non “credo”, ma che nello stesso tempo evito di ridurre a “Io (Costanzo Preve) e il Gesù di Ratzinger” sulla base della centralità del mio pur rispettabile ombelico. Ritengo anche molto razionale ricorrere alla concezione di Tommaso d’Aquino, che mi sembra stabile molto più di quanto lo sia la teologia universitaria liberale di Hans Küng, per non parlare di Mancuso (two theologians in a boat, to say nothing of the dog).

Come filosofo, Ratzinger riprende la concezione normativa della natura umana di Aristotele e più in generale dei greci. Bene, non so che cosa abbia in testa Umberto Eco, ma penso che si tratti di un’ottima filosofia. Un mio fraterno amico, Luca Grecchi, ha costruito sul recupero dei greci una concezione umanistica della filosofia, e questo senza essere affatto un “credente” nel senso di Ratzinger (si vedano le due notevoli interviste a Enrico Berti e a Carmelo Vigna). Certo, Ratzinger non può certo aderire alla filosofia secolarizzata della storia di Fichte, Hegel e Marx, e questo perché quest’ultima a mio avviso è del tutto incompatibile con una teologia del monoteismo cristiano rivelato e con una interpretazione “letterale” della Trinità secondo il concilio di Nicea. E non vedo perché lo si debba pretendere.

La superiorità e l’inferiorità di una filosofia non possono essere “sostenute” in assoluto, ma solo in rapporto al “proprio tempo appreso nel pensiero” (Hegel). Sarebbe quindi improprio paragonare Ratzinger a Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Hegel o Marx. Ma se collochiamo Ratzinger nel tempo in cui stiamo vivendo (una dürftige Zeit, un tempo della miseria) la superiorità di Ratzinger sulla spocchia autoreferenziale dei dotti universitari boriosi alla Eco è addirittura tennistica.

Torino, settembre 2011

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