Appunti preliminari per una politica possibile. La centralità dell’ideologia

gen 18th, 2023 | Di | Categoria: Idee e proposte

 

 

Appunti preliminari per una politica possibile. La centralità dell’ideologia

 

La prassi emancipatrice o è anticapitalista oppure non è. Se ne era accorto Marx precocemente quando già nella Questione ebraica, autentica perla della sua produzione giovanile, attraverso Bauer attacca l’uguaglianza solo formale che lo Stato borghese promette ad un cittadino astrattamente inteso. Anzi, arriva a dire che il vero Stato cristiano è lo Stato ateo, in quanto porta a compimento l’emancipazione solo politica (ovvero l’emancipazione su un piano solo “astratto” inaugurata dal cristianesimo). Per cui il nucleo della questione, per Marx, diverrà negli anni seguenti il rimuovere la strutturale «appropriazione privata del plusvalore socialmente prodotto», che poteva trovare nello Stato pur democratizzato una ricomposizione solo apparente. Dunque, detto in sintesi: se non si interviene sul «modo capitalistico della produzione» non si dà uguaglianza sostanziale ma esclusivamente formale, buona al limite per le aule di tribunale.

Ora, alla luce delle determinazioni poste da Marx, la circostanza che di capitalismo nel presente in pratica non si parli più, di per sé fa problema ed esige una “decostruzione”. Escluso che alla lunga il capitalismo si sia rivelato il migliore dei mondi possibili, casomai il contrario, l’interdetto che lo investe, specie a “sinistra”, dovrà ricevere un altro ordine di spiegazione. In realtà, riguarda la circostanza di averlo introiettato, questo paradigma economico, come legge naturale e necessaria. I principi della domanda e dell’offerta, assieme alla competizione, alla lunga sono stati assunti come un apriori storico a sé stante: condizione di possibilità per ogni altro agire pratico o produzione simbolica, individuale e collettiva, senza che a sua volta, in quanto apriori, possa essere messo in discussione.

Quello che abbiamo sommariamente descritto è la parabola vincente di una ideologia, quella neoliberista, che nel realizzarsi si è fatta senso comune diffuso. Si tratta di questo: un punto di vista soggettivo sul mondo con una pretesa di oggettività che si è riusciti a far passare come tale. Con la conseguenza che tutti gli altri discorsi sono stati via via squalificati e ritenuti per l’appunto “ideologici”, dall’alto di una presunta oggettività conquistata. Per una trattazione del tema si rimanda al recente e illuminante saggio di Carlo Galli, Ideologia (2022)[1]. Certo, l’assimilazione del lato oggettivo, a dispetto della radice soggettiva, è tipica del funzionamento di ogni ideologia, ma nel caso del neoliberismo ha raggiunto, complice l’elettronica, esiti parossistici. Noi solo oggettivi e universali, tutti gli altri soggettivi e particolari.

Così, ci si è ritrovati con la desertificazione, negli ultimi quarant’anni ed oltre, di ogni discorso critico intorno a questo aberrante modello sociale. Che la sinistra politica tutta lo abbia adottato, quel modello, è indice dell’assimilazione anche da parte di quel campo di un criterio di verità che si è identificato coi detentori dei rapporti di forza. Pertanto, è diventato bene, buono e giusto il mercato, che si è esteso ed intensificato con l’ausilio delle tecnologie acefale al servizio del profitto. Questo ha anche significato, nell’affrontare tematiche pur spinose quali le disuguaglianze e la questione ambientale, precludersi lo scavo, non andando alla radice del problema. È come girare a vuoto, perché ci si muove entro coordinate ideologiche, per l’appunto, fissate da altri.

A rigore, questo non dovrebbe neppure essere un tema di esclusiva pertinenza della “sinistra”: la disgregazione sociale, la scomparsa del welfare, la lenta ma inesorabile erosione della classe media, che sempre di più sta sprofondando nella povertà, dovrebbero essere temi politicamente trasversali. Certo, la tradizione di “sinistra” ha nel proprio DNA autori che forniscono inquadramenti filosofici privilegiati per pensare e comprendere questi processi (Marx, Lukács, Gramsci); ma questi processi di disumanizzazione crescente non dovrebbero risultare indifferenti a nessuna identità politica. In realtà, a destra queste cose appaiono sfruttabili solo sul piano elettorale, visto che la piattaforma politica messa in campo in occasione delle ultime elezioni appare essenzialmente un’articolazione del risentimento prodotto dalle conseguenze del tardo capitalismo. Insomma, la destra si ferma cinicamente al livello emotivo e non incentiva in alcun modo ragionamenti sulle cause ultime, sulle decisioni prese dentro e soprattutto fuori la politica che determinano lo stato di cose esistente.

Non ci possiamo stupire di questo: le “destre” storicamente non hanno mai privilegiato la comprensione e l’articolazione della realtà, ma piuttosto sentimenti, azione e, talvolta, violenza. Tutte ugualmente volte al mantenimento dei rapporti di forza esistenti. Diverso era stato il percorso a sinistra, come documentato dalla complessa vicenda del PCI, il più grande partito comunista d’occidente. A partire dai suoi strettissimi rapporti con la filosofia e più in generale con la cultura. Al fondo c’era l’idea che per non legittimare indirettamente l’oppressione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – l’ideologia in senso deteriore – occorreva munirsi di efficaci strumenti concettuali e categoriali per una realistica comprensione del reale, delle condizioni oggettive di funzionamento che ne permettono la sussistenza e la riproduzione, delle contraddizioni che lo trasformano. Una sinistra che non sa, non dice, non pensa che la disgregazione sociale e la crisi culturale abbiano origini da ricercare nei processi socioeconomici è condannata all’inefficacia.

Nel presente, per essere efficace, una proposta politica deve essere in grado di intercettare e dare significato anche agli stati emotivi prodotti dai processi sociali, come talune vette del marxismo occidentale hanno dimostrato di saper fare (Lukács, Bloch). Una politica che si limita nella migliore delle ipotesi all’assistenzialismo, senza possedere una visione del mondo, che sia in grado di dare senso, di leggere la complessità sociale del contemporaneo, si autocondanna all’insignificanza. Una prassi che non ha il coraggio di pensare, di sperimentare, di lavorare nella direzione di costruire modi alternativi di lavoro, di produzione dei beni, di educazione, di formazione, di intrattenimento, di produzione culturale, si condanna all’impotenza. La perdita secca di consensi elettorali riscontrata a sinistra non è che la certificazione della perdita di un ruolo sociale a favore delle destre. Queste ultime si sono mostrate più in grado di dare voce e megafono alla sofferenza del corpo sociale; ma sono ben lungi dal volerne aggredire le cause, anzi pronte a riprodurle, aggiungendone magari di nuove e ancor più devastanti.


[1] C. Galli in particolare sottolinea 3 componenti: illuminazione, propaganda, cultura. Se l’illuminazione svolge una funzione critica con pretesa di oggettività, in virtù di una chiarificazione della realtà, se la propaganda vuole portare più persone possibili all’interno del punto di vista ideologico, la cultura è la cappa di oggettività con cui l’ideologia ricopre il mondo nel momento della sua vittoria. È qui che si dà come natura, ed è qui che ci troviamo oggi.

La Fionda

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