Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica (Terza parte)

gen 30th, 2023 | Di | Categoria: Contributi

 

Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica (Terza parte)

 

Sulla Comunità nell’epoca liberal-democratica. Elementi di teoria politica comunitaria (TERZA PARTE) 

TERZA PARTE:

La ‘neutralità impossibile’ dello Stato costituzionale

Perché occuparsi della comunità nell’epoca liberal-democratica? Secondo la filosofia politica liberale le società libere e pluralistiche del nostro tempo sono tali in quanto perseguono e realizzano un obiettivo fondamentale: dare forma a uno spazio politico-giuridico nell’ambito del quale ciascun individuo (o gruppo di individui) vede riconosciuta e rispettata la propria “concezione del bene”, senza che lo Stato e le istituzioni pubbliche in genere pongano impedimenti all’una o all’altra concezione o ne favoriscano alcuna. È, questa, l’idea che definisce il “principio di neutralità” delle istituzioni pubbliche in uno Stato di diritto costituzionale, in una democrazia pluralistica, procedurale, laica, secolarizzata e “società aperta”. Questa pretesa liberale della “neutralità” dello Stato di diritto democratico: 1) esclude l’esistenza di una concezione etico-politica preferibile rispetto ad altre e che sia condivisa; 2) affida la regolazione della vita pubblica a un corpo di norme procedurali e neutre che garantiscono a ogni cittadino di perseguire la propria concezione di “vita buona”. La teoria politica del comunitarismo rigetta questa tesi e i suoi presupposti filosofici, politici e socio-antropologici per diversi motivi. Di seguito mi soffermo su quelli che ritengo i principali.

1. Il soggetto “incarnato” e contestualizzato

La concezione del soggetto elaborata dal comunitarismo contemporaneo muove da una presa di distanza da quella tipica del pensiero liberale. Nel paradigma liberale il soggetto è definito nel quadro di un individualismo astratto, formale, universalistico; il soggetto risulta come spogliato delle sue determinazioni e specificità derivanti dal suo contesto (storico, sociale, politico, culturale, personale). La teoria politica liberale si sviluppa sulla base di un concetto idealtipico di “soggetto decontestualizzato e astratto”; ciascun soggetto intrattiene relazioni sociali con gli altri al fine di realizzare sé stesso, perseguire il proprio piacere (felicità) e propri interessi (utilità). Orientamento all’edonismo, all’utilitarismo e alla sicurezza sono tratti primari che riassumono la cifra identitaria di questo soggetto: la società si forma, e con essa la rete delle relazioni sociali, sulla base di scelte di vita individuali, libere e razionali dettate da questi caratteri identitari del soggetto legati alla “natura umana”[1]. Ebbene, c’è qualcosa di male? Il punto principale non è questo, bensì: fino a quale punto le cose stanno così? Ad affinare il nostro sguardo sulla questione non giova considerarla da una prospettiva diversa e contrastante? Dato che la mia risposta alla seconda domanda è Sì, allora procedo di conseguenza. E lungo la strada, mi auguro, che possa diventare un po’ più chiara anche la risposta alla prima domanda.

Per i teorici (neo)comunitari un’esistenza, per così dire, pre-sociale del soggetto è semplicemente impensabile: gli individui trovano già “data”già là attorno a loro quella società che è costitutiva dei loro modi di essere al mondo e che modella le loro scelte possibili, nascono già dentro il tessuto delle relazioni e di questo tessuto si nutrono ben prima di qualsivoglia libera e razionale scelta. Michael Sandel, ad esempio, critica la concezione dell’unencumbered self del liberalismo su cui si è fondata l’idea liberale di libertà che ha poi trovato un punto di riferimento nella teoria morale di Rawls e nei suoi concetti-cardine di “posizione originaria” e “velo di ignoranza”[2]. È da questa concezione del “soggetto sgombrato e decontestualizzato” che scaturisce l’idea rawlsiana di libertà, che peraltro rimanda a quella “libertà dei moderni” messa a punto nel XIX secolo da Constant[3]: un’idea di libertà, rileva Sandel, che libera il soggetto di quella sorta di “ingombro” che sarebbero gli impegni che egli avrebbe nei confronti della sua comunità e che sono peculiari dei legami comunitari. Secondo Sandel questi impegni e legami, invece, precedono le libere scelte degli individui. Sandel è sostenitore di una concezione del “soggetto situato”, basata sul concetto di “comunità costitutiva”[4]: qui, il soggetto non è anteriore ai fini che egli persegue, dato che egli stesso è costituito dai suoi fini, i quali, a loro volta, soltanto in parte sono definiti dalle sue scelte. Per Sandel, infatti, il soggetto è “situato” e “incarnato”: il soggetto è (la sua identità è data da) tutto ciò che viene a costituirlo. Considerato in questa prospettiva, il soggetto fa uso della sua stessa ragione solo sulla base di ciò di cui egli è dotato, caso per caso, contesto per contesto. La comunità in cui il singolo soggetto conduce la sua vita non è solo o tanto un mezzo o un’arena tramite e dentro la quale l’individuo opera per soddisfare i suoi peculiari bisogni e i suoi interessi egoistici; la comunità, piuttosto, rappresenta il fondamento che nutre l’individuo e ciò che egli sceglie di perseguire. La comunità, in questo caso, è implicata non solo nella definizione degli interessi coltivati dai suoi membri, ma anche nel forgiare le loro stesse identità[5]. La formula “la vita comunitaria è costitutiva dell’individuo” rimanda, per scioglierla in un linguaggio più “concreto” e che guarda alla fenomenologia della vita sociale: a famiglia, quartiere, città o tribù, a gruppi amicali, a enclaves di stili di vita, a contesti economici e lavorativi, a sistemi educativi, a istituzioni politiche e giuridiche, insomma a tutta quella varietà di “fatti sociali” e costumi, pratiche e credenze che operano nella vita dell’individuo fin dall’infanzia e che fanno di ogni individuo ciò che egli è. La stessa ragione e la stessa consapevolezza e conoscenza di sé sono inseparabili dall’individuo-che-vive-con-gli-altri in determinati contesti. Visti sotto questa angolatura, sottolinea Sandel, gli individui non possono né devono essere considerati «come dei soggetti separati che hanno certe cose in comune», ma piuttosto «come dei membri di una collettività data, ciascuno dei quali ha suoi tratti particolari»[6].

La sottolineatura della “particolarità” di ciascun singolo individuo consente a Sandel di respingere la più classica delle obiezioni liberali, la quale punta l’indice contro l’omogeneità di una comunità che determina soggetti “identici”: un mostro morale, certo, ma anche un “oggetto inesistente”. La sottolineatura della particolarità di ciascun singolo individuo, d’altra parte, non preclude, invece, la possibilità di tenere fermo quello che è forse il punto decisivo della filosofia politica comunitaria e sul quale confluiscono gli argomenti di Sandel in tema di natura del self: «se noi siamo in parte definiti dalle comunità di cui facciamo parte, allora noi dobbiamo ugualmente trovarci coinvolti negli obiettivi e nei fini che caratterizzano queste comunità»[7]. Questo argomento apre al problema dei vincoli di obbligazione politica degli individui nei confronti della comunità di cui essi sono membri appartenenti, problema sul quale tornerò più avanti.

Un altro contributo importante per la concezione comunitaria del sé (o soggetto) viene da Alisdair MacIntyre e dalla sua critica del soggetto autonomo ed «emotivista» (come egli lo chiama) tipico del pensiero liberale. Per il filosofo scozzese-americano, questo soggetto figlio della modernità e del mondo democratizzato, oltre a essere astratto, disancorato e “vuoto di determinazioni”, o meglio: proprio in quanto tale, un simile soggetto risulta moralmente non-razionale: «Questo io democratizzato, che non ha alcun contenuto sociale necessario e alcuna identità sociale necessaria…, può dunque essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista, perché in sé e per sé non è nulla (…) Qualunque siano i criteri, i principi, le fedeltà a determinati valori che l’io emotivista può professare, essi devono essere intesi come espressioni, atteggiamenti, preferenze e scelte non governati a loro volta da alcun criterio, principio o valore, poiché al contrario stanno alla base di questi ultimi e li precedono. Ma da ciò consegue che il passaggio dell’io emotivista da una posizione morale all’altra non può costituire una storia razionale»[8].

La deriva a-razionale (se non irrazionale) di questo soggetto della modernità illuministica e liberale lascia intendere un mondo, sul piano collettivo e politico-culturale, dominato da un relativismo dei valori in cui qualunque posizione o preferenza può essere giustificata in sé stessa, da ciascuno e per ciascuno, poiché è nella libertà stessa del soggetto moderno-liberale, nelle scelte che egli compie, che i valori trovano la loro auto-fondazione. Per la teoria (neo)comunitaria questo rappresenta un ulteriore aspetto che induce alla critica del soggetto universalistico e decontestualizzato esaltato dall’universo illuministico-liberale. A questo tipo di soggetto Mac Intyre oppone il modello antitetico del “soggetto particolaristico” tipico dell’universo omerico-eroico: un soggetto, cioè, definito dai suoi contesti e legami comunitari, e responsabile verso la comunità di appartenenza. Da questo contrasto tra tradizioni storiche relativamente al modo di concepire il soggetto, Mac Intyre non trae motivo di apologia del tradizionalismo pre-moderno, bensì approda a una prospettiva tesa a tenere in vita ragioni e argomenti alternativi rispetto a quelli liberali in tema di soggetto: ragioni e argomenti sulla base dei quali prendere distanza dal relativismo morale alimentato dal liberalismo e dalla propensione di quest’ultimo verso l’ingiudicabilità morale di ogni tradizione. A questo riguardo, come sottolinea Mac Intyre, entra in gioco la questione dell’universalismo liberale e del suo carattere equivoco: un aspetto, questo, che lo rende ben poco in accordo con quell’ingiudicabilità e il relativismo morali perorati dal pensiero liberale-illuminista convenzionale, tanto che per quest’ultimo l’ingiudicabilità e il relativismo morale, in fondo, sono fatti valere per tutte le tradizioni e civiltà storiche eccetto quella liberale-modernista (che, invece, tende a essere assolutizzata).

In un passaggio che merita di essere citato per esteso e letto con attenzione, Mac Intyre osserva infatti che: «il fatto che l’io debba trovare la propria identità morale in e attraverso l’appartenenza a comunità quali la famiglia, il vicinato, la città o la tribù, non implica che egli debba accettare le limitazioni morali dovute alla natura particolare di tali forme di comunità. Senza queste particolarità morali da cui partire non ci sarebbe mai nessun punto da cui partire; ma la ricerca del bene, dell’universale, consiste appunto nel superamento di tali particolarità. Tuttavia, la particolarità non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata. L’idea di sfuggirle rifugiandosi in un regno di massime totalmente universali che appartengono all’uomo in quanto tale, sia nella sua forma kantiana del diciottesimo secolo sia in quella rappresentata da certe filosofie morali analitiche contemporanee, è un’illusione, e un’illusione che produce spiacevoli conseguenze»[9]. Qui Mac Intyre richiama la dialettica particolare-universale che dà forma e contenuto a un duplice legame: quello tra soggetto e soggetto e quello della “comunità-con-gli-altri” – insomma, i legami tra la comunità e i suoi membri. Mac Intyre concepisce tali legami in chiave “narrativa”: il soggetto è “incastrato” in una storia di vita che è quella della sua particolare comunità e che egli stesso contribuisce a creare, secondo un τέλος indissociabile dalla sua appartenenza specifica e secondo una narrazione aperta dove il contesto comunitario lascia spazio al soggetto e alla sua voce[10]. Questo legame narrativo tra soggetto e comunità è indice di una vita-con-gli-altri e di quanto la vita che fluisce in questo intreccio di legami sia una “storia con-divisa”, ma non necessariamente monolitica, né omogenea o identica per tutti.

Con Charles Taylor muta la strategia argomentativa, ma non la ratio della critica rivolta alla tradizione liberale. La critica tayloriana è diretta contro quella che il filosofo canadese definisce concezione atomista del soggetto e che regge l’ontologia sociale della teoria liberale e della sua idea di modernità. Secondo Taylor l’atomismo qualifica una concezione della società che vede questa costituita da individui che agiscono per realizzare dei fini che sono essenzialmente individuali[11]. Nell’ottica liberale i fini perseguiti implicano sempre, almeno in prima istanza, il raggiungimento di beni individuali: anche quando l’azione che li persegue è di tipo collettivo, il suo successo è misurato alla luce della capacità dell’azione collettiva di massimizzare i benefici (o di minimizzare i danni) individuali di ciascuno, ovvero la riuscita della mobilitazione collettiva dipende dalla sua promessa di risultati in grado di soddisfare le aspettative dei singoli chiamati all’azione. Da qui, ad esempio, il noto “paradosso di Arrow”[12], assurto a odierna pietra angolare della concezione liberale della razionalità e dell’impossibilità della razionalità collettiva, sulle cui basi si dà spiegazione dei diffusi comportamenti di free-riding. Da qui, inoltre, su un altro versante, anche l’enfasi sulla tutela dei diritti individuali, tipica delle dottrine politiche liberali.  L’ontologia sociale della modernità liberale, però, trascura o sottovaluta ciò che per i suoi critici si rivela essere un dato di fatto tutt’altro che banale: gli individui dipendono dalla società e la loro stessa autonomia, o libertà, nasce, si sviluppa, si definisce e si fruisce in contesti storici che li avvolgono, e cioè sulla base di precondizioni sociali, culturali, politiche, economiche che tali contesti alimentano. Non siamo lontani dalla famosa e icastica osservazione di Marx, secondo cui «Gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé»[13]

La “separatezza liberale” dell’individuo (e della sua dotazione di razionalità, di preferenze e di diritti individuali) dalla comunità di vita o di appartenenza dei soggetti, per un verso, trasforma il soggetto in un puro essere formale, razionale, universale e astratto, un tipo di soggetto che, invero, non si incontra mai e che non esiste nella storia. Per l’altro verso, tale separatezza liberale induce a trascurare, minimizzare o screditare il tema qui in questione, ritenendolo un elemento inessenziale per la sopravvivenza o la buona qualità dei contesti di vita collettivi. Per Taylor tali contesti di vita sono degli “universi di significati” con-divisi tra individui-che-convivono. È con riferimento a un determinato universo di significati che, volta a volta, viene definito, conservato o mutato l’ordine sociale degli uomini-animali sociali. Così ancorata, la “con-vivenza tra diversi” cerca di porre un argine al rischio di caos o di anomia sociale, che rappresentano l’altra faccia dell’identità “svincolata dagli altri” di ciascun singolo individuo[14]. In fondo, Taylor si propone una teoria politica che dia conto della legittimità, dell’opportunità o della necessità di recuperare alla società moderna e liberale-democratica del nostro tempo un tessuto morale e di legami e doveri tra gli individui che con-vivono in contesti spazio-temporali distinti: un tessuto morale che non si esaurisce negli schemi dell’utilitarismo individualistico-liberale. È in questo senso che il tessuto morale viene a configurarsi come universo di significati che definiscono, mantengono o modificano l’“ordine sociale”, che pongono un argine ai rischi di caos o di anomia sociale, e che rappresentano l’altra faccia dell’“identità sfrenata” di ciascun singolo individuo.

2. Il senso di comunità e la “vita con gli altri”

La visione olistica propria del comunitarismo prende certamente le distanze da quel liberalismo che pensa l’individuo nella sua autonomia (culturale, politica, morale) dai suoi contesti di vita. Ma non per questo esso profila un “imprigionamento” o un’integrazione totale dell’individuo nel suo contesto sociale. Se sull’individuo pesano delle catene, queste, per così dire, possono essere anche catene lunghe e flessibili, resta però che è miopia quella di chi non le vede o ne finge l’inesistenza, come è il caso di certi proclami liberali. D’altra parte, tra la concezione di un liberale come Rawls[15] e quella di un comunitario come Sandel non si registra è una contrapposizione netta, quanto piuttosto una differenza di accenti e di priorità nel delineare il rapporto tra la libertà degli individui e i vincoli di comunità[16]. Semplificando un po’ argomentazioni complesse, potremmo formulare la questione nei seguenti termini. Il liberalismo di un Rawls dà per scontato il fatto che il soggetto sia forgiato dalla comunità; il cuore delle sue argomentazioni è volto perciò a mettere a fuoco la rilevanza dell’autonomia o dell’identità dei singoli individui, e quindi a coltivare tale rilevanza per evitare il rischio di una perdita della libertà e della soggettività di ciascuno. Al contrario, il comunitarismo di un Sandel dà per acquisito il fatto che nella modernità il soggetto sia emancipato dalla condizione di passiva dipendenza dalla comunità e che egli sia capace di uno sguardo critico o “distanziante” verso i suoi contesti di vita, tanto che l’autoriflessività è considerata una sua caratteristica qualificante[17]:  in questo quadro ciò che allora reclama considerazione sono proprio i vincoli di appartenenza, la salienza e il significato dei legami di comunità, ciò affinché si possa, da un lato, meglio comprendere la modernità come condizione umana; dall’altro lato, affinché diventi possibile porre rimedio al “disagio della modernità”, a richiedere di essere riconosciuti e valorizzati sono proprio tali legami. Per il comunitarismo il rischio insito nella condizione moderna non sta tanto nella perdita di autonomia del soggetto, quanto nel dissolvimento dei legami di comunità, un dissolvimento da cui traggono origine le condizioni di anomia sociale e di “solitudine del cittadino”[18]. In questa prospettiva, la comunità non è una semplice “riunione di individui”, ma un gruppo definito da fini ed esperienze del “vivere con gli altri” e del “con-dividere la comunità”: «La comunità … costituisce un bene intrinseco per tutti quelli che ne fanno parte… sia come una generalizzazione psicologica descrittiva (gli esseri umani hanno bisogno di appartenere ad una comunità), sia come una generalizzazione normativa (la comunità è un bene oggettivo per gli esseri umani[19]. Per dirlo con una formula, la comunità rimanda a “valori di gruppo” e non tanto a una “coincidenza di preferenze individuali”[20].

Il limite del liberalismo, dal punto di vista del comunitarismo, consiste nella tendenza a ridurre l’associazione politica a bene strumentale, là dove invece la partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità rappresenta un bene in sé, un elemento costitutivo della “vita buona”. A fronte di questa svalutazione liberale del significato politico della vita comunitaria, il comunitarismo ripropone il valore della comunità. Sandel, in particolare, distingue tre modi di concepire la comunità e quindi tre tipi possibili di comunitarismo: quello “strumentale”, quello “sentimentale” e quello “costitutivo”[21]. Il primo tipo si limita a enfatizzare la rilevanza dell’altruismo come strumento nelle relazioni sociali. Il secondo tipo apprezza le pratiche altruistiche intese come occasioni di accrescimento della coesione sociale, che sviluppano sentimenti di solidarietà, che favoriscono la produzione di benefici collettivi e che potenziano la distribuzione di tali benefici tra i membri della collettività. Queste due prime modalità di intendere la comunità possono facilmente accordarsi con la teoria politica liberale. Non è così, invece, per la terza e ultima modalità del comunitarismo, ossia quella imperniata sulla “comunità costitutiva”. Definire costitutiva la comunità significa ritenere che il soggetto non può essere concettualizzato se non in riferimento a un contesto di relazioni, ove il senso di comunità alimenta pratiche e valori che costituiscono l’individuo come persona: «L’idea fondamentale è … che l’io è scoperto molto più che scelto»[22]. In questo caso, la comunità è concepita, più e prima di quanto lo sia l’individuo, come un sistema di desideri e di bisogni: «Le diverse comunità … possono essere viste come dei ‘sistemi di desideri’», i quali delineano «un ordine o una struttura di valori, almeno in parte condivisi, costitutivi di un’identità o di una forma di vita comune»[23].

L’idea di “comunità costitutiva” è, in definitiva, l’elemento su cui poggia la stessa concezione dell’encumbered self, del soggetto “situato e pieno”. Affermare che la comunità è costitutiva, per Sandel significa anche negare che essa possa essere considerata come una delle varie opzioni disponibili per il “soggetto razionale” che opera nella “posizione originaria” come riformulata dal liberale Rawls. Come specificano Taylor e Mac Intyre, la razionalità, la responsabilità e l’autonomia morale del soggetto, che Rawls colloca in quella sfera formale e universale che è la “posizione originaria”[24], sono attributi che un soggetto deriva necessariamente dall’appartenenza alla sua comunità: ossia, dal fatto di vivere in un determinato contesto, in una data epoca e cultura, così come dalla collocazione del soggetto in una data vita di comunità, di cui egli, a sua volta, incorpora, esprime e riplasma i valori e gli orientamenti[25]. È nella “vita con gli altri” (comunitaria) che l’individuo riconosce se stesso, chiede di essere riconosciuto e viene o meno riconosciuto dagli altri, rispondendo così al bisogno umano di riconoscimento e alla domanda di reciprocità del riconoscimento intra-comunitario ed inter-comunitario[26].

3. Legami di comunità come virtù di cittadinanza

La modernità è l’epoca dei diritti dell’individuo[27], i quali trovano plastica espressione nel diritto di voto individuale[28]. Le teorie politiche liberali hanno sottolineato il carattere incondizionato e inalienabile dei diritti individuali dell’uomo. Secondo la tradizione moderna-liberale dei diritti di cittadinanza, i cittadini reclamano il riconoscimento dei loro diritti nei confronti dello Stato di appartenenza. Il rilievo primario attribuito ai diritti si afferma sullo sfondo di una cultura politica che tende ad alimentare, in maniera ora implicita ora esplicita, una scissione fra i diritti e i doveri. Una simile separazione risulta però alquanto stravagante, dato che i diritti, per così dire, non cadono gratuitamente dal cielo: affinché essi possano esistere e se ne possa godere, i diritti hanno bisogno di essere coltivati e nutriti. In fondo i diritti non sono altro che l’altra faccia dei doveri di cittadinanza, tant’è che nella tradizione classica era persino difficile distinguere tra titolarità di diritti e titolarità di doveri[29].

Sotto quest’ultimo profilo, il comunitarismo ripropone, a suo modo, il tema dell’obbligazione politica e mette in rilievo, in particolare, come la teoria politica liberale faccia fatica a dare conto della natura e del significato collettivi che qualificano non solo i doveri e gli “impegni con gli altri”, ma anche a dare conto dei “diritti di gruppo”, ossia diritti di appannaggio di collettività, culture o comunità[30]. Così, nella concezione liberale ortodossa, i doveri degli individui e i suoi “impegni con gli altri”, quando non vengono semplicemente negati, finiscono per essere solitamente configurati in termini di scelte volontarie, dipendenti da libero consenso ovvero in termini di impegni contrattuali o di stampo utilitaristico. Dalla prospettiva comunitaria, invece, i diritti non sono degli attributi astratti e universali ancorati alla “natura umana”, ma piuttosto il frutto di esperienze storiche di specifici contesti, il prodotto di distinte configurazioni del “vivere insieme”, l’espressione politica e giuridica di specifiche culture con a capo collettività che (secondo tendenze loro peculiari) organizzano e conferiscono significato al “con-vivere con gli altri”. Ad esempio, il diritto individuale a parlare la propria lingua è inseparabile dal diritto collettivo all’esistenza di un gruppo che pratica quella lingua[31]. In questo senso, la disponibilità di diritti individuali discende da quello che nella teoria politica comunitaria viene definito il debito degli individui nei confronti della loro comunità storica: un debito che gli individui sono chiamati a corrispondere assolvendo ai loro “doveri di appartenenza” o di convivenza, poiché è solo tramite questo assolvimento che la vita collettiva di cui gli individui sono parte può essere mantenuta in vita e così dispensare quei diritti che essa definisce, pone in essere e fa circolare, e di cui godono gli individui compartecipi della “vita in società”[32].

Da questa concezione dei diritti, il comunitarismo trae motivo per ritenere che il liberalismo finisce per suscitare una politica inflazionistica dei diritti, alla luce della quale le rivendicazioni di diritti diventano aspettative e pretese tese alla massimizzazione di interessi e piaceri egoistici di ciascuno, anche a scapito di quelli altrui, mentre, da parte sua, l’amministrazione dei diritti e del diritto-giustizia si propone come un surrogato di virtù comunitarie che difettano.  Così, nell’universo liberale la giustizia si rinchiude e si risolve in un formalismo giuridico che tende a estraniarsi dai “mondi di vita”, sottraendosi al tessuto delle peculiarità di cultura e di costumi, di pratiche, valori e lingua: un tessuto convissuto del “con-vivere con gli altri”, nel contesto relazionale di una data comunità.

Queste tendenze di matrice liberale, secondo i comunitari, espongono la società a una deriva modernista dei diritti e delle libertà, la quale porta a perdere di vista la stella polare della “buona vita” e del “bene comune” su cui si giustificano i diritti e i doveri degli individui volta a volta pretesi e riconosciuti in ciascun contesto di vita e di senso. La stoffa morale della vita sociale che gli Antichi tessevano (almeno idealmente, sul piano normativo) attraverso l’esercizio delle virtù pubbliche si assottiglia. Con il tramonto della Res publica Christiana, la Sittlichkeit hegeliana cede il passo alla Moralität kantiana: la “sostanza etica” della comunità viene erosa e le obbligazioni di origine comunitaria vengono sostituite dalle obbligazioni volontarie, disponibili a ogni individuo in quanto essere astrattamente libero e razionale. La stessa tolleranza verso gli altri tende a scolorirsi in indifferenza o conformismo, vere maschere di un egoismo dissimulato e tenuto al guinzaglio che esibiscono una tolleranza equivoca, che (1) “non prende sul serio” il sistema di valori e di credenze dei contesti di vita e di cultura altrui e che (2) non fa i conti con l’esistenza della pluralità dei “mondi di vita”, delle esperienze pratiche e valoriali, né (3), tanto meno, con la difficile traducibilità di un mondo nell’altro, né (4) con la difficile traducibilità della varietà di questi mondi in un unico sistema universale[33]. Questo tipo di tolleranza malintesa può inoltre ingenerare atteggiamenti di indifferenza verso le scelte pubbliche quando queste non toccano da vicino gli interessi particolari di ciascuno,  mentre invece la stessa protezione dei propri diritti individuali dipende dal mantenimento di quel tessuto morale e politico-culturale che funge da “sacra volta” di una società[34], che ciascuno dovrebbe difendere da scelte pubbliche che discriminano o minacciano di discriminare altri membri della “con-vivenza con gli altri”, a partire da quelli in condizioni di minoranza o di debolezza.

Da tutto questo discende la priorità assegnata dal comunitarismo ai doveri di cittadinanza e agli “impegni della con-vivenza con gli altri[35]. Questi obblighi, sottolinea Sandel, «oltrepassano quelli che io posso contrarre in modo volontario e gli stessi ‘doveri naturali’ rispetto agli esseri umani in quanto tali»[36].

Insomma, i diritti e la libertà di scelta di ciascuno riposano sui doveri, sui legami e sugli impegni di reciprocità comunitaria di individui situati in relazioni di “convivenza con gli altri”.

 

  1. La “neutralità impossibile” dello Stato di diritto costituzionale e della democrazia procedurale

Secondo la filosofia politica liberale le società libere e pluralistiche del nostro tempo sono tali in quanto perseguono e realizzano un obiettivo fondamentale: dare forma a uno spazio politico-giuridico nell’ambito del quale ciascun individuo (o gruppo di individui) vede riconosciuta e rispettata la propria “concezione del bene”, senza che lo Stato e le istituzioni pubbliche in genere pongano impedimenti all’una o all’altra concezione o ne favoriscano alcuna. È, questa, l’idea che definisce il “principio di neutralità” delle istituzioni pubbliche che governano la società moderna della libertà e dell’eguaglianza, e che è stata variamente declinata dai pensatori liberali (ad esempio, in termini di laicità dello Stato o della democrazia; Stato di diritto secolarizzato e costituzionale; pluralismo democratico; democrazia procedurale; “società aperta”). Questa pretesa liberale della “neutralità” dello Stato di diritto democratico è nota come la tesi del primato del “giusto” sul “bene”. Tale tesi, da un lato, esclude l’esistenza di una concezione etico-politica preferibile rispetto ad altre e che sia condivisa tra i soggetti del pluralismo liberale-democratico; dall’altro, porta ad affidare la regolazione della vita pubblica a un corpo di norme procedurali le quali operano e si legittimano sulla base del principio secondo cui ciascuno soggetto deve essere libero di perseguire la propria concezione di “vita buona”.

La teoria politica del comunitarismo rigetta questa tesi almeno per due principali ordini di motivi: 1) perché, se fondata, una tale idea sarebbe disastrosa nelle sue conseguenze, data la sua insufficienza a creare quel senso di coesione necessario alla vitalità della politica democratica e della solidarietà civile, ovvero perché uno Stato laico-neutrale nella misura in cui riuscisse a realizzare un simile obiettivo si rivelerebbe incapace di riprodurre quelle “risorse di senso” (o valoriali) sulle quali esso stesso ha trovato il suo fondamento storico  e di legittimazione politico-culturale[37]; 2) perché tale idea liberale si mostra illusoria o falsa, nella misura in cui essa finisce per nascondere la preferenza che uno Stato sedicente neutrale finisce implicitamente, e inevitabilmente per conferire a una data e particolare concezione del bene[38]: in particolare quando, con atti legislativi o giurisdizionali, traduce nella vita quotidiana, “fa vivere” e applica (interpretando) il principio (astratto-formale) di neutralità o le stesse norme costituzionali (generali).

A questo riguardo, nello svolgere la sua critica Mac Intyre, ad esempio, cita due concezioni liberali di giustizia, aventi entrambe pretesa di neutralità: quella di Nozick e quella di Rawls. Queste due concezioni, sostiene MacIntyre, si negano l’un l’altra le rispettive pretese di neutralità, dato che i principi da cui ciascuna di esse fa discendere la propria neutralità sono resi impossibili dalle condizioni di neutralità poste dai principi fatti valere dall’altra[39]: nemmeno dentro i confini del pensiero liberale, vien da dire, si riesce a stabilire e a condividere quali siano le condizioni di una posizione neutrale. Da questo confronto, MacIntyre conclude come le due concezioni liberali siano tra loro incommensurabili, rivelando quanto esse, mentre accampino pretese di neutralità, rimandino in effetti a visioni generali e differenti della società e del “bene”, e di fatto ciascuna finisce per privilegiare un particolare orientamento o gruppo sociale: un fallimento della pretesa di neutralità, questo, che ha origine nell’ambito della stessa tradizione politica liberale.

Secondo Mac Intyre, una moralità razionale della vita collettiva non può quindi essere basata sul principio di una neutralità universalistica, che risulta impossibile; essa invece trova radicamento nella particolarità delle forme di vita e di cultura. Ciò, in primo luogo, perché la moralità è socialmente “particolarizzata”: le regole della moralità sono sempre prodotte e apprese (e quindi vengono ad esistere) in forme socialmente specifiche e particolarizzate; in secondo luogo, perché i “beni” (diritti inclusi) che sono oggetto della moralità sono “particolarizzati” anch’essi: ossia, esistono e se ne gode in quanto contestualizzati nell’ambito di relazioni sociali definite e particolari. Tra tutti questi beni, sottolinea Mac Intyre (in un passo che riporto per esteso), centrale è «il godimento di un particolare genere di vita sociale, vissuta attraverso un particolare insieme di relazioni sociali, e quindi ciò di cui godo è il bene di questa particolare vita sociale cui partecipo e la godo per come essa è. Può anche darsi… che trarrei beneficio in maniera eguale da altre forme di vita sociale in altre comunità, ma questa verità ipotetica non diminuisce in alcun modo l’importanza della tesi che i miei beni in pratica li incontro qui, fra queste persone particolari, in queste relazioni particolari. (…) Quindi l’astratta tesi generale secondo cui regole di un certo tipo sono giustificate tramite il loro produrre e costituire beni di un certo tipo è vera solo se questi, e questi, e questi insiemi particolari di regole, incarnate nelle pratiche di queste e queste, e queste comunità particolari, producono o costituiscono questi, e questi, e questi beni particolari a partire da certi individui specifici»[40]. Oltretutto, tanto la moralità quanto i beni contestualizzati in una data comunità, come nota Taylor, non sono concepiti in termini di convergenza di interessi o valori individuali, ma sono il riflesso di un “noi” comunitario costitutivo di beni autenticamente comuni.

Un’importante implicazione della tesi comunitaria sull’“impossibile neutralità” delle istituzioni politiche e giuridiche è l’idea secondo cui un sistema politico-giuridico è strettamente legato alla sua comunità storica e morale, e suo compito è preservarla e nutrirla[41]. In questo raccordo stringente tra istituzioni politico-giuridiche e vita comunitaria è implicito anche il rifiuto della riduzione della politica (intesa come sfera che presiede all’“assegnazione autoritativa dei valori, validi erga omnes, in una società)[42] a sola procedura. È Sandel, in particolare, ad aver formulato la critica più chiara a quella che egli chiama “repubblica procedurale” e alla quale contrappone un modello comunitario di repubblica democratica caratterizzato da immediatezza e trasparenza relazionali, la cui vita pubblica è regolata anche attraverso regole collocate “al di qua del diritto (positivo)”[43]. Una repubblica puramente procedurale, e che legittima solo in virtù delle regole e del metodo decisionale-legislativo il suo regime politico democratico-liberale, secondo Sandel, in realtà non riesce ad attenersi al principio di neutralità rispetto alle concezioni del bene e della “vita buona”.

La manifestazione più evidente di questo fallimento viene riscontrata nei casi in cui le istituzioni pubbliche (un’assemblea legislativa o, soprattutto, un tribunale, una Corte Costituzionale o Corte Suprema come nel caso degli Stati Uniti) sono chiamate a pronunciarsi su questioni politicamente controverse, sulle quali la società mostra, a un tempo, ipersensibilità morale e profonde divisioni culturali (tipici nel dibattito statunitense, ma anche altrove, sono i casi dell’aborto, dell’omosessualità, dell’eutanasia, ma anche quelli relativi all’uso della violenza, alle limitazioni delle libertà o alle questioni di natura identitaria o variamente religiosa o attinente a forme di pensiero o credo laici). In casi del genere, sottolinea Sandel, decisioni o sentenze, che pure si dicono e si auto-legittimano come rigorosamente ispirati al principio di neutralità delle istituzioni pubbliche rispetto alla pluralità delle concezioni del bene o della vita buona che si vogliono riservate alla libera scelta individuale-privata di ciascuno, tali decisioni o sentenze, argomenta Sandel, inevitabilmente rispecchiano, almeno in una qualche misura, un giudizio sostanziale  sulla preferibilità morale di una piuttosto che un’altra concezione del bene e della buona vita[44]. Per riprendere un caso messo a fuoco dallo stesso Sandel, nel pronunciamento della Corte Suprema di una sentenza pro-abortiva che affida alla madre la possibilità di scelta se abortire o meno è implicito un giudizio di merito su ciò che è considerato vita umana e ciò che non lo è: nella fattispecie la Corte afferma che «i feti sono, nel senso morale pertinente, diversi dai neonati»; di conseguenza la Corte, piuttosto che astenersi neutralmente da qualsivoglia teoria sull’inizio della vita, ne adotta una propria e particolare[45].

In definitiva, vista in questa chiave, nemmeno una “repubblica procedurale” è davvero imperniata sul principio della “neutralità”: «come è illustrata dai casi dell’aborto e della sodomia, il tentativo di mettere tra parentesi le questioni morali si imbatte in difficoltà sue proprie»[46]. Il modo in cui si cerca di superare o trattare tali difficoltà resta inesorabilmente legato a contesti politico-culturali particolari: a principi, valori e norme che si formano, trovano applicazione o si modificano, in un senso o in un altro, dentro gli orizzonti di significato spazio-temporali della “vita degli individui con gli altri”.

 

NOTE

N.d.A.: La Prima parte di questo saggio è stata pubblicata su questo sito il 10 novembre 2022; la Seconda parte il 18 novembre 2022.

[1] Questo argomento, esteso in generale all’idea occidentale di natura umana, ha trovato una sintetica formulazione e una critica sul versante antropologico in: Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Eléuthera, Milano, 2010.

[2] Vedi J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982 (ed. or. 1975).

[3] Vedi B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1820),

[4] Su questo concetto tornerò più avanti.

[5] Vedi M. Sandel, The Procedural Republic and the Uncumbered Self, in “Political Theory”, 1, 1984,

[6] M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1092, p. 143.

[7] M. Sandel, Liberalism and its Critics, New York University Press, New York, 1984, pp. 204-05.

[8] A. Mac Intyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano, 1988 (ed. or. 1981), pp. 47-48.

[9] A. Mac Intyre, Dopo la virtù, cit., p. 264.

[10] Vedi anche A. de Benoist, Identità e comunità, Guida, Napoli, 2005.

[11] Vedi Ch. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers, vol. II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1985, pp. 187-210.

[12] Vedi K. Arrow, Scelte sociali e valori individuali, Etas, Milano, 2003 (ed. or. 1951). Vedi anche M. Olson, Logica dell’azione collettiva, Feltrinelli, Milano, 1983 (ed. or. 1965). La logica di questo paradosso è stata anticipata da Condorcet, matematico e filosofo del XVIII secolo: Maquis de Condorcet, Essai sur l’application de l’analyse de la probabilité des decisions rendues à la pluralité des voix, pubblicato nel 1875.

[13] K. Marx, Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1964 (ed. or. 1852). L’argomento di Marx non significa altro che: «ciascun essere umano vive all’interno di un dato modello culturale e interpreta l’esperienza in base al mondo di forme assuntive che ha acquisito» (U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962, 144). A dare un’impronta importante all’elaborazione e all’articolazione filosofica di questa visione nel corso del Novecento hanno concorso, ad esempio, Heidegger, Cassirer, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche.

[14] Vedi G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La cultura della cittadinanza oltre lo Stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.

[15] Vedi in particolare J.Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1993.

[16] Vedi A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992.

[17] A questo riguardo vedi ad esempio A. Touraine, Critique de la modernité, Fayard, Parigi, 1992.

[18] Vedi Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000; Id., Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2001; C. Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001.

[19] A. de Benoit, Identità e comunità, Guida, Napoli, 2005, p. 115.

[20] Vedi R. Mangaberia Unger, Knowledge and Politics, Free Press, New York, 1975.

[21] Vedi M. Sandel, Liberalism and its Critics, New York University Press, New York, 1981.

[22] A. de Benoit, Identità e comunità, cit., p. 113.

[23] M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982, p.167.

[24] “Posizione originaria”, ricordiamo, che per Rawls è qualificata dal “velo di ignoranza” del soggetto riguardo alle proprie specifiche situazione e condizioni di vita.

[25] Vedi Ch. Taylor, Atomism, cit.; A. Mac Intyre, Dopo la virtù, cit.

[26] Sul concetto di riconoscimento, cardine della filosofia dello spirito hegeliana, vedi in particolare A. Honneth, Riconoscimento. Storia di un’idea europea, Feltrinelli, Milano, 2009.

[27] Vedi N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.

[28] Su questo vedi, ad esempio, R. Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe, Laterza, Roma-Bari, 1969; Id., Re o popolo, Feltrinelli, Milano, 1980.

[29] Vedi G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La cultura della cittadinanza oltre lo Stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.

[30] La dottrina liberale standard, piuttosto, riconosce i diritti individuali dei singoli membri di un gruppo o di una minoranza culturale/ideologica, e non già i “diritti collettivi” del gruppo. Su questo versante si colloca il tema del riconoscimento dell’identità collettiva altrui e della lotta per il riconoscimento. In proposito vedi ad esempio Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993; con riferimento al movimento operaio: C. Crouch, A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa. Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, Etas, Milano, 1977. Sui diritti di gruppo e l’imbarazzata difficoltà nei loro confronti da parte del liberalismo vedi ad esempio B. Ackerman, La cittadinanza culturale, il Mulino, Bologna, 1999. Vedi anche A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993. Un interessante punto di vista, a questo riguardo, ci è offerto dal tema della coniugazione tra modernità, pluralismo e religioni: vedi P.L. Berger, I molti altari della modernità, EMI, Bologna, 2017.

[31] Vedi ad esempio A. de Benoit, Identità e comunità, cit.

[32] Vedi A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit; Ch. Taylor, Atomism, cit.

[33] Vedi M. Walzer, Sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari, 1998; Id., Due specie di universalismo, in “MicroMega. Almanacco di filosofia”, 1, 1991.

[34] Vedi P. L. Berger, La sacra volta, SugarCo, Milano, 1984 (ed.or.1967).

[35] Vedi A. Etzioni, The Spirit of Community, Crown, New York, 1993; Id. Nuovi comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna Editrice, Casalecchio (Bo),1998; Ph. Selznick, La comunità democratica, Edizioni Lavoro, Roma, 1999.

[36] M. Sandel, The Procedural Republic and the Uncumbered Self, in “Political Theory”, febbraio 1984, p. 91.

[37] «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire». Così recita il noto e dibattutissimo “paradosso di Böckenförde. Vedi E.-W. Böckenförde, La formazione dello Sato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia, 2006, p.68 (ed.or. 1967).

[38] Vedi A. de Benoit, Identità e comunità, cit.; Ph. Selznick, Il compito incompiuto di Dworkin, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.

[39] Da un lato, la concezione liberale della neutralità formulata da Robert Nozick è basata sui principi di «giusta acquisizione» e di «titolo valido» i quali pongo forti limiti alle possibilità di redistribuzione. Dall’altro lato, la concezione della neutralità teorizzata da John Rawls si basa proprio sul principio di «giusta redistribuzione”, il quale, a sua volta, comporta seri limiti alla giusta acquisizione e al titolo valido. Vedi R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981; J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, cit.; una serie di contributi raccolti in A. Ferrara (cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.

[40] Mac Intyre, Il patriottismo è una virtù, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.

[41] Vedi Ph. Zelznick, Il compito incompiuto di Dworkin, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.; Id., La comunità democratica, cit.

[42] La formula è mutuata da David Easton, influente politologo della seconda metà del secolo scorso: D. Easton, Il sistema politico, Edizioni di Comunità, Milano, 1973 (ed. or. 1953). La formula declina a suo modo il paradigma della “democrazia come metodo” (J. Schumpeter) e quello affine della “teoria economica della democrazia” (A. Downs).

[43] Vedi M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982; Id.; The Procedural Republic and the Uncumbered Self, cit.

[44] È qui evidente come la vita pubblica democratica si sottragga agli schemi teorico-politici del normativismo kelseniano e accosti a quelli del decisionismo schmittiano.

[45] M. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit, pp. 264-65. Sul tema vedi anche l’importante E.-W. Böckenförde, Dignità umana e bioetica, Morcelliana, Brescia, 2010 (ed. or. 2001 e 2003).

[46] M. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit, p. 273.

 

Gaspare Nevola

http://gasparenevola.net/2023/01/21/sulla-comunita-nellepoca-liberal-democratica-terza-parte/

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