Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica (Quarta e ultima parte)

gen 30th, 2023 | Di | Categoria: Contributi

 

Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica (Quarta e ultima parte)

 

Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica. Elementi di teoria politica comunitaria (QUARTA E ULTIMA PARTE) 

QUARTA E ULTIMA PARTE

Modernità e democrazia. Lanternini, lanternoni e caverne. 

Una conclusione

 

  1. Premessa

Storicamente, la tradizione politica liberale, da quando si è affermata, è sempre stata in tensione con quella democratica, pure quando le due tradizioni si sono incontrate e sposate, generando le società e i regimi politici degli ultimi due-tre secoli che, sebbene molto mutati continuiamo a chiamare con un singolo e medesimo nome: democrazia[1]. Le ragioni di tale tensione sono state molteplici e differenti, ma una cruciale, e forse mai seriamente analizzata, attiene al tema della comunità di cui qui mi sto occupando. Del resto il pensiero politico liberale ha abbracciato quello democratico nello stesso momento in cui, in nome della modernità politica ha negato salienza e dignità democratica alla dimensione comunitaria del vivere individuale, collettivo e pubblico, affossando così il “senso di comunità” insieme alla società retrograda dell’ancien règime. Cerchiamo di evidenziare qualche importante frammento teorico-politico di questa vicenda, per poi approfondire alcuni aspetti della questione, tenendo presente quanto già messo in rilevo nelle precedenti tre parti di questo saggio.[2]

 

  1. Uno scambio infelice e i suoi effetti perversi che presentano il conto

Ricorrendo a una formula di sintesi macro-storica, e lasciando sullo sfondo sfumature e articolazioni, possiamo dire che il programma del liberalismo è stato quello di scambiare la “società calda” delle vecchie tradizionali comunità con la “società fredda”[3] degli individui[4], burocratizzata e retta da modelli di relazione sociale formalizzati attraverso istituzioni, codici, ruoli, siano questi di natura giuridica, economica, politica o latamente sociale.

La promessa associata a tale riorganizzazione mentale e materiale della società era di accrescere la libertà e il benessere dei cittadini. Si può discutere del grado in cui questa promessa sia stata effettivamente mantenuta, ma è difficile sostenere che non lo sia stata affatto: liberté e égalité sono stati i valori-guida degli ultimi due secoli di storia delle società occidentali e hanno dato risultati pratici talora apprezzabili, anche grazie al contributo di altri programmi politico-sociali (primi fra tutti quelli del socialismo e del cristianesimo). Per l’ideologia liberale l’emergere della modernità e dei suoi benefici è associato al “tramonto del fatto comunitario”: la modernità porta con sé modelli di relazione sociale di tipo più volontaristico e contrattualistico, basati sull’individualismo e sulla razionalità delle scelte; essa procede parallelamente al declino dei legami comunitari della società tradizionale di vecchio regime. Nell’ottica liberale, la comunità è presentata come un “fenomeno residuale”: una “sopravvivenza conservatrice”, la testimonianza di un’epoca passata, una “nostalgia romantica e utopistica” (il sogno di un’“età dell’oro” o di una “vita semplice e autentica”), un’invocazione di quelle forme di vita collettiviste in ultimo definitivamente compromesse con il fallimento dei regimi del “socialismo reale”. Con la rinuncia liberale al “senso di comunità”, la società che si è afferma con la modernità non è però riuscita a salvaguardare un terzo valore-guida che pure qualificava le ideologie e le motivazioni politiche democratico-rivoluzionarie sviluppatesi in seno alla società moderna: ossia, quella fraternité tanto sbandierata dalla Rivoluzione francese, evento simbolico non di certo secondario della modernità politica, comunque la si voglia giudicare.

L’attenzione al “senso di comunità” va collocata in questo quadro, con riferimento alla diagnosi che da qui si proietta sulle società liberal-democratiche del nostro tempo. Dal punto di vista politico (sensu lato), la visione comunitaria propone, a mio modo di vedere, alcune principali revisioni dei principi che orientano e pretendono di legittimare il funzionamento delle nostre società. Revisioni che provo a riassumere come segue.

1) Una contestualizzazione della cultura dei diritti, individuali e universali, abbinata a una subordinazione-commisurazione dei diritti (pretesi dagli individui) all’obbligazione politica nei confronti dei contesti comunitari, del “vivere con gli altri” e della “convivenza tra diversi”;. In questo caso, l’obbligazione politica è finalizzata a soddisfare quei doveri di cittadinanza da cui trae alimento la democrazia moderna.

2) Un contenimento della tendenza espansiva della logica di mercato, tanto in campo economico quanto in altri ambiti della vita sociale, al fine di frenare la trasformazione dell’economia di mercato in una totalizzante società di mercato.

3) Una relativizzazione del primato della razionalità economica, utilitaristica e strumentale, a favore di altri valori, e di altre logiche razionali/ragionevoli dell’agire umano e sociale[5].

4) Una correzione e uno stemperamento delle diseguaglianze moderne prodotte dal mercato liberale e dagli stessi interventi da parte dello Stato e delle sue burocrazie, correzione e stemperamento orientati a valorizzare il solidarismo civico o associativo e il correlato “spirito comunitario”.

5) Una presa di distanza dal primato della libertà formale, palesatasi nel corso del tempo sempre più insufficiente come valore etico essenziale per una società e, spesso, ormai diventata addirittura solo illusoria quando la società è ridotta a mercato e quando la società-mercato rende disponibili solo quelle scelte conformi ai o confermative dei suoi principi “mercatistici”, e così facendo riduce il campo della libertà e dei beni, eclissa le “opzioni alternative” e non massificate, premia i rapporti di forza “di mercato” che mortificano i gruppi e gli orientamenti più deboli, minoritari e marginalizzati, stigmatizzandoli come “minorati” e ferendo insieme alla loro dignità anche i tanto declamati valori dell’umanesimo.

6) Una valorizzazione del “senso di comunità” e della comunità come luogo vitale, denso di significati e simboli “della vita con gli altri”, come risorsa identitaria anche per le liberaldemocrazie del nostro tempo.

7) Una presa di coscienza del rilievo del “senso di comunità” in una fase storica, come la nostra, di profonda trasformazione dello Stato-nazione ovvero di quello spazio politico per eccellenza della democrazia. In un tempo che vede, ad esempio, un moltiplicarsi di gruppi e un “ad hochismo” delle appartenenze, una crescita di flussi migratori e di mobilità socio-territoriale “spaesanti”, così come uno sviluppo di reti comunicative e sociali sempre più fitte, ma chiuse, frammentate, separate e autoreferenziali, in questo tempo anche il “senso di comunità” richiede di essere rifocalizzato nei suoi contorni, dato che reclama significati o valenze differenti rispetto a quelle più tradizionali e ascrittive. Dentro questo contesto, anche lo Stato-nazione richiede un’apertura al “senso di comunità”, e ciò ripensando quel “senso di comunità di destino” a cui l’Unione Europea non può dare risposta e di cui parlava ad esempio l’intellettuale socialdemocratico Otto Bauer all’inizio del Novecento. Sotto questo profilo, un risanamento del “senso di comunità” viaggia insieme a un ri-modellamento in profondità dell’architettura politico-istituzionale dello Stato, secondo un impianto autonomistico, federale e solidale, e ciò tutelando l’eguaglianza nei diritti di cittadinanza di tutti i cittadini, tenendo insieme la pluralità di piccole comunità  e alimentando una “democrazia di prossimità” che ridia senso ed efficacia a una partecipazione politica oggi rinsecchita, frustrata ma anche socialmente piuttosto selettiva[6].

 

  1. Senso di comunità e smottamenti contemporanei nell’auto-percezione della modernità

Mettere a fuoco il tema del “senso di comunità” significa affrontare una questione classica della teoria politica di fronte agli afflati di cosmopolitismo o globalismo che riempiono i nostri giorni: perché gli uomini e le donne tendono a vivere vivono in gruppi organizzati, distinti e delimitati gli uni dagli altri anziché in un unico “gruppone umano”? Cosa tiene insieme ciascuno dei gruppi e perché persistono distinzioni tra i contesti (o forme) di vita collettiva caratterizzati da loro specifici universi di significato e da specifiche organizzazioni della “convivenza con gli altri e tra diversi”? Cosa significa dire che l’uomo è un “animale politico” (o essere sociale)? Quali implicazioni ha per i singoli individui e per la loro vita collettiva e pubblica? Il rifiuto critico delle soluzioni universaliste-astratte-formali con le quali viene identificata la modernità, prospettate segnatamente dalla tradizione illuminista-liberale, obbliga gli esponenti della teoria comunitaria, così come i cultori delle connesse pratiche sociali, a definire quale posto e valenza possa assumere il “senso di comunità” di fronte a quel pluralismo che rappresenta il Geistzeit della modernità democratico-liberale. La “comunità nella modernità” (la comunità “nella diversità” o “con la diversità”): è questa la sfida, concettuale e politica, rimossa nella nostra epoca.

Proposta come una forma possibile di completamento-superamento della modernità liberale, la comunità viene  in questo caso disancorata da quell’“arcaicità” a cui l’avevano legata e relegata le filosofie o le sociologie della “modernità” (al singolare)[7]: la comunità, cioè, non è più concepita necessariamente ed esclusivamente  come uno stadio (pregresso) dell’evoluzione storico-sociale, bensì come una forma (per così dire) permanente di vita collettiva, con la pregnanza del suo significato che cresce o deperisce nelle diverse epoche[8]. La categoria di comunità in questa accezione, esattamente come la categoria di “società”, identifica un tipo ideale[9] di vita associata, che permea in modo variabile ogni tipo di politia. L’idea di comunità viene così sganciata dalla sua tradizionale concezione diacronica, che la vede inesorabilmente tramontare di fronte all’evoluzione o progresso storico-culturale dettati dalla modernità.

A sollecitare una tale riconsiderazione dell’idea di comunità ha contribuito l’incrinarsi nel corso del Novecento di (almeno) tre principali cardini della modernità, il cui precipitato è un mutamento di natura filosofico-culturale, di profilo scientifico, etico e politico che (bene o male) è approdato nel XXI secolo, modificando in certa misura l’auto-percezione della modernità.

1) L’ideologia del progresso non ha mantenuto le sue promesse, spiazzata da totalitarismi, violenza, genocidi, dalla scoperta dei limiti (ambientali, sociali, economici) dello sviluppo materiale, dal persistere delle condizioni di miseria materiale e immateriale, dalla dinamica della povertà “assoluta” e “relativa”, e dal mancato sviluppo in vaste aree del pianeta; a questi fattori si è via via aggiunto il diffondersi della percezione che benessere e sviluppo non bastano a soddisfare  le “domande di senso” del mondo contemporaneo.

2) L’idea della razionalità (o della “ragion pura”), del suo primato e della sua onnipotenza, oltre a subire un declassamento da parte della tecnoscienza (o scienza applicata) sulla quale si è sempre più concentrato l’interesse sociale e politico del “mondo reale”, e di concerto anche quello delle istituzioni scientifiche[10], quell’idea di razionalità cara alla tradizione illuminista[11] e positivista è oggi messa in discussione non solo dalle teorie postmoderne[12], ma anche da filosofi neo-illuministi come Gadamer o Habermas. Per un altro verso, essa è stata sconvolta anche in campo scientifico ed epistemologico, là dove hanno trovato progressiva attenzione ipotesi e teorie foriere di una “rivoluzione paradigmatica” novecentesca innescata dalla relatività e dalla quantistica[13].

3) L’idea di un individuo astratto e formale esce scossa e indebolita dalla nuova ondata di domanda o bisogno di legami sociali concreti, contestualizzati, localizzati, che consentano alla massa di persone smarrite nella (apparente ma influente) cornice di un mondo aperto e globale[14] di riallacciare tra loro identità individuali, identità sociali e identità collettive[15] (quali ne siano le origini, la natura o i contenuti: etnici, religiosi, linguistici, socio-economici o di stile di vita).

In questo quadro, «la comunità, lungi dall’essere ciò che la società avrebbe infranto o perduto, è ciò che ci arriva (domanda, attesa, avvenimento, imperativo) a partire dalla società» e dalla modernità; «La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, molto al di qua di tutti i nostri progetti, delle nostre volontà e delle nostre imprese. In fondo, per noi è impossibile perderla. Per quanto poco la società possa essere comunitaria, nel deserto sociale non può non esserci una qualche comunità, anche se infima, persino inaccessibile»[16]. La comunità sopravvive, quindi, almeno come esperienza liminale dentro la società moderna, fonte di spontaneità o riserva di gratuità relazionali che nutrono l’altra faccia della società, delle regole e dei ruoli formali[17].

 

  1. Una società post-liberale. Teoria politica liberale e teoria politica comunitaria che (talora) convergono

Con il rilancio della prospettiva comunitaria, a partire dagli anni ’80 la teoria politica attraversa un periodo di vivacità e di ricchezza intellettuale. Lo stesso liberalismo contemporaneo dominante non ne è uscito immutato. Le critiche del neocomunitarismo hanno toccato i suoi “nervi scoperti”, portando in evidenza alcuni limiti di fondo delle nostre democrazie liberali (meglio: neoliberali): a) la pretesa che la legittimità dei sistemi democratici dipenda esclusivamente da capacità di calcolo razionale, utilitaristico e dalla soddisfazione economico-materiale dei cittadini; b) l’idea che l’integrazione sociale possa procedere solo sul piano funzionale, dell’aggregazione delle domande e interessi economici individuali, senza considerazione per la dimensione collettiva “olistica”, politico-culturale e identitaria, tanto dei singoli individui quanto dei gruppi e dei loro contesti di appartenenza “densi di vissuto”; c) la convinzione che le questioni pubbliche possono essere del tutto trattate e risolte attraverso procedure formali di comunicazione e di deliberazione basate su un principio di neutralità che svuota i soggetti individuali e collettivi dei valori costitutivi delle loro identità specifiche, particolari, radicate nei “mondi vitali” (Lebenswelt).

Gli stessi pensatori liberali non sono rimasti del tutto sordi al richiamo comunitario sui limiti di fondo delle liberaldemocrazie di massa. La separatezza tra l’orientamento liberale e quello comunitario sembra essersi per più aspetti assottigliata. Anche se perdura una distanza di fondo tra l’etica e la politica comunitarie dei doveri  e dell’“impegno di vivere con gli altri”, da una parte, e l’individualismo dei diritti dell’uomo e del cittadino o l’edonismo utilitarista coltivati dal liberalismo, dall’altra.

Il comunitarismo contemporaneo, anche quando sembra ridestare suggestioni nostalgiche per un passato pre- o anti- liberale, in verità nei suoi esponenti di punta non manca lo sforzo di ripensare tali suggestioni all’interno del quadro della società moderna e della liberaldemocrazia di massa. È un ridisegno che procede sia sul piano dei principi normativi, sia su quello delle pratiche sociali e dell’operato concreto delle istituzioni. Lo sguardo critico neocomunitario più avveduto non punta tanto verso soluzioni antiliberali, quanto piuttosto post-liberali e comunque democratiche, sfrondate da tentazioni integraliste, organiciste o neo-totalitarie. Il fuoco neocomunitaria cade su programmi di rivalorizzazione di strutture o corpi intermedi tra individui e Stato, sull’attenzione pubblica verso responsabilità e doveri civici del “convivere, tra diversi, con gli altri”. Ciò vale tanto per il comunitarismo più spinto (Mac Intyre o Sandel), quanto per quello più moderato (Taylor, Walzer o Bellah). Ma vale anche per alcune versioni europee del neocomunitarismo, come in Francia con il pensiero di André Gorz[18], intellettuale della sinistra critica, che rilancia la comunità («comunità associative») come sfera (“calda”) delle relazioni sottratte alle logiche (verticali e orizzontali) del potere e del denaro eretto a misura di ogni valore e a fine primario di ogni mercato e di ogni scambio[19]. Pur riconoscendo che l’esistenza di una sfera di “relazioni liberate” resta limitata dentro ristretti spazi sociali non istituzionalizzati, Gorz sottolinea nondimeno come tali esperienze si annidino all’interno dei sistemi (“freddi”) di relazioni sociali istituzionalizzate e codificate, anonime e “spaesate”, e come tali esperienze rappresentino un potenziale motore di in cambiamento post-liberale, a patto che siano prese sul serio.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, anche l’orientamento liberale rivede e sfuma alcune sue posizioni. Dworkin, un filosofo marcatamente liberale, se non iper-liberale, delinea un “liberalismo politico integrazionista”, teorizza una società “community-friendly”, argomenta a favore di una “comunità liberale” tramite cui recuperare il valore dell’integrazione sociale-comunitaria senza per questo perdere di vista i valori liberali di tolleranza e autonomia, le libertà e i diritti dell’individuo, o la stessa neutralità delle istituzioni pubbliche: una sorta di “repubblicanesimo mite” con venature libertarie, così lo definirei, che non irregimenta la sfera della vita e delle scelte private degli individui. Nozick rivede esplicitamente le tesi che lo hanno identificato come esponente di spicco del turbo-liberalismo e del turbo-libertarianismo affermatisi a fine Novecento: «La posizione libertaria che ho propugnato in passato ora mi sembra seriamente inadeguata, anche perché non teneva abbastanza conto del lato umano delle cose»; infatti, continua Nozick, opporsi «all’espressione pubblica e collettiva di interesse e solidarietà… ci costringerebbe a vergognarci di una società in cui la voce pubblica dell’interesse per gli altri tace»; insomma, i valori che ci stanno a cuore e ci tengono legati insieme devono trovare espressione anche nel funzionamento delle istituzioni pubbliche liberaldemocratiche[20].

Lo stesso Rawls[21], con la sua concezione del “consenso per intersezione” (overlapping consensus) mostra un’apertura di accento comunitario verso un soggetto “pieno-e-situato” (l’encumbered self), allontanandosi con ciò dal modello di soggetto e di razionalità decontestualizzati che aveva caratterizzato la sua teoria della giustizia e il principio di neutralità sub specie “posizione originaria”. Da parte sua, Larmore arriva a sostenere che «le concezioni kantiane e milliane del liberalismo non sono soluzioni adeguate al problema politico del disaccordo ragionevole riguardo alla buona vita», essendo «Esse stesse diventate semplicemente un’altra parte del problema»; per converso, sottolinea che «l’entusiasmo romantico verso la tradizione e l’appartenenza è divenuto una componente permanente e influente della cultura occidentale», al pari degli stessi ideali di individualità e autonomia affermati dal liberalismo ottocentesco[22]. Su queste basi Larmore afferma un concetto che pare preso pari pari da un Mac Intyre o da un Taylor: un «modo di vita» diventa il «nostro modo di vita» non per scelta, ma perché eredità di un’appartenenza collettiva; in quanto tale è esso stesso a fondare le nostre scelte: nella misura in cui è espressione di un’identità comune, che, per quanto minima, di fatto tiene insieme i soggetti, le loro specificità e i loro contrasti, in una società pluralistica.

Correnti del comunitarismo e del liberalismo contemporaneo convergono così verso un’idea di “comunità democratica” ovvero di “società post-liberale”. Arrivano a tratteggiare i contorni di un repubblicanesimo dove la dottrina politica del liberalismo e quella del comunitarismo trovano motivi di convergenza significativa e talora sorprendente[23].

La critica neocomunitaria alla concezione liberale standard e la reazione “aperta all’apprendimento” da parte di settori importanti della teoria politica liberale rappresentano un capitolo virtuoso di storia intellettuale, di filosofia e politica, di cultura politica al quale vale la pena dedicare ancora attenzione ed energia pubbliche. Almeno se siamo ancora interessati ad analizzare, diagnosticare e a cercare risposte al malessere dei cittadini nei confronti delle società di massa liberaldemocratiche[24], anche se (devo sottolinearlo) tale malessere pare essere andato non poco in sordina sotto il Regno del Covid, della paura e del clima emergenziale degli ultimi anni. Qui emerge il compito che attende la riflessione e l’opinione pubblica critica, prima che la massa dei cittadini arrivi a perdere la percezione del malessere che grava sulle nostre società e, impotente e immiserito, finisca per scivolare in una auto-colpevolizzazione collettiva dove i fallimenti individuali nulla avrebbero a che vedere con la vita che si svolge nell’incolpevole “migliore dei mondi possibili”.

Ma sono i nostri tempi, sono gli uomini, le donne e i giovani in particolare, desiderosi e in grado di lavorare per una società basata sull’idea di una strong democracy[25], che nutra di vitalità la partecipazione politica e civica, e che rigeneri i meccanismi dell’autogoverno di cittadini impegnati a convivere con gli altri e nella convivenza tra diversi?

 

  1. Oltre la funzione gregaria della democrazia-linguaggio nella neo-lingua liberale dell’iper-modernità. Tra lanternini, lanternoni, caverne e luci abbaglianti

 È bene fugare ogni equivoco. Una comunità politica centralizzata, onnipervasiva e onnicompetente, che coltiva individui atomizzati e omogenei, una tale comunità distruggerebbe ogni immunitas democratica e autonomia individuale o collettiva; farebbe terra bruciata di ogni fonte, spazio o capacità di libertà dei singoli, dei gruppi o dei territori. Quella così ritratta è l’immagine di una comunità totalitaria o totalizzante rispetto alla quale avvedutamente mette in guardia la tradizione politico-culturale più genuinamente liberale. Tuttavia, l’accoglimento di questa immagine in maniera unilaterale e acritica può facilmente portare a compiere un tipico errore: semplificando ed estremizzando le cose, essa induce a buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.

Una conseguenza importante di questa immagine in bianco e nero è che non ci fa rendere conto e ci aiuta a valutare quanto la crisi o i guasti della società contemporanea (correlati alle le odierne trasformazioni trasfiguranti la loro democraticità) siano riconducibili a una “perdita fondamentale”: la perdita di quella base di esperienza umana concreta, calata in una democrazia di prossimità che agevoli gli individui e i gruppi a non ritrovarsi isolati e disarmati di fronte alla centralizzazione, burocratizzazione e tecnicizzazione di società, di governi e di regolazioni della vita sociale: tendenze, queste, che nell’attuale epoca di neo-liberalismo turbo-tecnocratico vanno penetrando fin dentro le pieghe (private e pubbliche) delle pratiche e del pensiero.  Trasformare il grappolo di problemi legato a queste tendenze in una guerra tra progressisti e conservatori o reazionari, tra destra, sinistra e chissà cosa, in salsa ora populista o liberale, ora europeista o sovranista, è sostanzialmente sbagliato, non porta lontano e fa perdere di vista la posta in gioco: non semina nulla di buono nel con-vivere con gli altro e nel con-vivere tra diversi.

Il linguaggio dominante del nostro tempo è, più o meno, “politicamente corretto”: identifica nell’auto-determinazione dell’individuo singolo, autonomo, autosufficiente e stabile, e nel fagottino delle sue volizioni, la chiave di quel progresso umano e sociale che ha consentito l’emancipazione di individui e società dalle condizioni tiranniche, di sudditanza, oscurantiste o irrazionali del passato. Un progresso, si aggiunge, che non poteva non andare di pari passo con lo sradicamento di costumi opprimenti, dei legami collettivi (familiari, clanistici o di vicinato), ovvero con la disintegrazione di villaggi, quartieri e città, di luoghi e relazioni di lavoro, dei “legami paesani” e della socialità. Un progresso, questo, concepito e declinato all’insegna del calcolo utilitaristico-egoistico, della massimizzazione degli interessi e del piacere soggettivi, della competizione e della corsa o lotta per l’auto-affermazione.

Ma questo progresso emancipativo si è storicamente rivelato tutt’altro che rose e fiori. Anzi: è arrivato ad alimentare il suo rovesciamento, con tanto di “fuga dalla libertà” e di ripudio della “con-vivere tra diversi”: veri frutti avvelenati della “dialettica dell’illuminismo”[26], giunti a maturazione tra Otto e Novecento, ma che inesorabili hanno presa anche nel secolo in corso.

La democrazia come “il governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, secondo una fortunata formula retoricamente efficace di Abraham Lincoln[27], conserva una sua pregnanza come cifra ideale. Tuttavia, questa definizione di democrazia rivela tutta la sua irrilevanza in “società del dispotismo dolce”, governate da sistemi di potere la cui legittimità fa tesoro della “fuga della libertà”, dalla “fuga dalla connivenza tra diversi”, dalla fuga dall’autogoverno, e capitalizza l’acquiescenza diffusa tra la massa di cittadini sempre più disarticolata e conformista. Parlo delle società occidentali, convenzionalmente nominate anche democratiche, dove l’ideologia dominante neoliberale si è fatta “senso comune”[28]. Qui, grazie a un uso “scientifico”, ben oleato, di potenti mezzi di comunicazione e di tecniche di propaganda/pubblicità, variamente differenziati ma calibrati nel penetrare e “colonizzare” gli spazi della coscienza degli individui, del discorso pubblico e della partecipazione democratica.

Davvero non è il caso di interrogarsi su quali siano, nel mondo contemporaneo, i criteri tramite i quali si possano distinguere le società libere non solo da quelle non-libere, ma anche da quelle semi-libere o in “libertà vigilata”? Forse ormai ci manca persino il linguaggio per dare forma a domande del genere. Forse lo stesso vocabolario della modernità politica e democratica si è così consunto e sfilacciato per l’abuso che se ne è fatto, tanto da non svolgere altro che una funzione gregaria, decorativa e superficialmente legittimatoria dell’ordine e dei poteri costituiti tipici della politica pro-sistema[29]. Ma perché ancora ci sfugge questa funzione della neo-lingua dell’iper-modernità neoliberale e postdemocratica? La domanda è giunta a maturità[30].

Nelle (così anche definite dalla politologia contemporanea) democrazia consolidate, sotto la giustificazione di una crisi o di una incombente minaccia o l’altra, non passa stagione senza assistere a violazioni o al degrado dei diritti delle “minoranze di pensiero” non accreditate dalla cultura del “politicamente corretto”, a limitazioni dei diritti di associazione, di manifestazioni o di sciopero, della libertà di opinione e di parola, del diritto al lavoro e dei diritti dei lavoratori, e via discorrendo. L’incedere spedito, fluido, invisibile ai più, di queste lesioni dei valori democratico-liberali, avviene (spesso) nel nome del popolo o dei cittadini, nel nome dei diritti dell’uomo, nel nome della giustizia o dei bene comune. E così, ogni volta, si arriva a manomettere il senso di democrazia o della “convivenza tra diversi” (il che è lo stesso) al fine di salvare la democrazia, di difenderla contro la guerra, contro nemici esterni o interni, contro l’ignoranza e le fake news, contro un virus e untori oscurantisti, negazionisti o criminali. Regimi politici e società di questa fattispecie possono a poco costo auto-definirsi democratici, liberali e umanitari. Del resto, quale regime o persona non lo fa? Il fatto è che siamo impigliati nel pensiero e nel linguaggio. E diventa molto difficile trovare modo, forza o coraggio per aprire seriamente un discorso pubblico sul “totalitarismo democratico” senza perdere credito sociale e culturale presso uno o l’altro ambiente che ci circonda e in cui viviamo. E allora si preferisce, è più comodo o meno costoso, evitare di fare i conti fino in fondo con la sindrome del Grande Inquisitore di Dostoevskij[31], che citiamo solo per civetteria salottiera o come tappezzeria culturale.

Il “senso di comunità” c’entra, eccome, nell’attuale avventura sventurata della democrazia. Ma anche in questo caso, alla fine si tratta distinguere, individualmente e collettivamente, il grano dal loglio. E con questo ritorniamo alla difficilissima arte del con-vivere insieme agli altri e della convivenza tra diversi, muovendoci tra i lanternini e i lanternoni di Pirandello. Ma se cadiamo sotto la luce di un potente faro, restiamo abbagliati, e accecati fatichiamo a vedere intorno. Il mito della caverna di Platone è potentissimo e seduttivo. Ma fuorviante: ci rendiamo di essere stati chiusi nella caverna solo quando ve ne usciamo. Ma attenti: nulla ci dice che questa esperienza capiti solo una volta, né quando è che siamo (o saremo) usciti dall’ultima caverna e che ci troviamo finalmente sotto la luce del sole. E senza essere abbagliati.

NOTE

[1] Vedi S. N. Eisenstadt, Paradossi di democrazia, il Mulino, Bologna, 2002; J. Dunn, Il mito degli uguali, Università Bocconi, Milano, 2006; G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare, in “Sociologia del Diritto”, 1, 2018; Id., Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazioni, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in Movimento, Mimesis, Milano, 2022.

[2] Vedi in questo sito: Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica: Prima parte (10 novembre 2022); Seconda parte (18 novembre 2022); Terza parte (21 gennaio 2023).

[3] Per motivi che si comprenderanno, utilizzo le nozioni di “società calda” e di “società fredda” in un’accezione rovesciata rispetto a quella resa nota da Claude Lévi-Strauss.

[4] Vedi N. Elias, La società degli individui, il mulino, Bologna, 1990.

[5] Si pensi, ad esempio, alla logica affettiva, alla logica del dono, alla logica espressiva di cui trattano filoni della filosofia sociale, dell’antropologia culturale o della sociologia.

[6] A questo riguardo, le indicazioni offerte da Aldo Capitini non sono solo suggestive o utopiche, ma anche meritevoli di essere portate al centro della riflessione politica e del dibattito culturale sulle forme organizzative di una democrazia della prossimità. Vedi A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti, Il Ponte Editore, Firenze, 2016; ma anche Id., Religione aperta, Laterza, Roma-Bari, 2011. Per una lettura critica ma non liquidatoria rimando al mio Ripensare la democrazia. Con un occhio ad Aldo Capitini, pubblicato su questo sito il 18 ottobre 2019 e che riprende alcuni passaggi di una mia relazione a un convegno svoltosi a Bolzano il 5 ottobre 2019 e dedicato al tema dell’omnicrazia di Capitini.

[7] Alla concezione dominante che declina la modernità al singolare è andata via via contrapponendosi quella che la identifica al plurale. Vedi S.N. Eisenstadt, Multiple Modernity, Routledge, Londra, 2002.

[8] Vedi A. de Benoit, Identità e comunità, Guida Napoli, 2005.

[9] “Tipo ideale” nel senso analitico-metodologico, di strumento euristico, reso noto da Max Weber,

[10] Sul punto vedi ad esempio R.A, Pielke jr., Scienza e politica. Lotta per il consenso, Laterza, Roma-bari, 2005.

[11] Per una difesa di questa tradizione della razionalità vedi G. E. Rusconi, Cosa resta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2012.

[12] Per usare il linguaggio della post-modernità reso noto e accreditato negli anni ’70 del Novecento da F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 2002.

[13] Si pensi, solo per fare i nomi pioneristici e più noti, a Einstein, Heisenberg e Bohr.

[14] Vedi ad esempio, M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi, Torino, 2020; per altri aspetti: V. Grassi, La società del noi. Comunità del noi nell’era della globalizzazione, Angeli, Milano, 2018; F. Brezzi, M.T. Russo (a cura di), Oltre la società degli individui, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.

[15] Su questi concetti della teoria dell’identità rinvio a G. Nevola, Democrazia, Costituzione, Identità, De Agostini- Utet, Novara, 2007.

[16] J.L. Nancy, La communauté dèseouvrè, Bourgeois, Parigi, 1986 pp. 34 e 87.

[17] Vedi V. Turner, Simboli e momenti della comunità, Morcelliana, Brescia, 1976.

[18] Vedi A, Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma, 1998.

[19] Guidati da tali logiche, potremmo dire che «Al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto e non conosce il valore di niente», come leggiamo ne Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

[20] R. Nozick, La vita pensata, Mondadori, Milano, 1990, pp. 315-18 passim.

[21] Vedi J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1993.

[22] Ch. Larmore, Political liberalism, in “Political Theory”, 3, 1990, p. 177.

[23] Vedi ad esempio anche Ph. Selznick, Dworkin’s Unfineshed Tasc, in “California Law Review”, 3, 1989; M. Walzer, Due specie di universalismo, In “MicroMega. Almanacco di Filosofia”, 1, 1991; Id., Communitarian Critique of Liberalism, in “Political Theory”, 1, 1990; W. Kersting, Liberalismo, comunitarismo e democrazia, in “Filosofia Politica”, 2, 1995; Ph. Pettit, Repubblicanesimo, Feltrinelli, Milano, 2000.

[24] Vedi G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’“incantesimo democratico”, in “Il Politico”, 1, 2007.

[25] Vedi B. Barber, Strong DemocracyParticipatory Politics for a New Age, University of California Press, Berkeley, 1984.

[26] Su queste tre sindromi vedi E. Fromm, Fuga dalla libertà, Comunità, Milano, 1981 (ed. or. 1941); G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare, cit.; M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966 (ed. or. 1947).

[27] Usata nel celebre discorso pubblico pronunciato dal presidente degli Stati Uniti a Gettysburg nel 1863.

[28] Nel senso di cui in P. Allum, Democrazie reali, Liviana, Padova, 1991.

[29] Alla politica pro-sistema e a quella anti-sistema sono dedicati diversi interventi presenti in questo sito.

[30] Già negli anni ’50 dello scorso secolo, ad esempio, il sociologo Nisbet osservava: «Il fatto è che oggi non abbiamo alcun insieme di termini evocativi che corrisponda alle nostre realtà nella stessa misura in cui», invece, corrispondeva «alle realtà e alle aspirazioni» care al liberalismo dell’età dell’oro.  R.A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Comunità, Milano, 1957, p. 381.

[31] Vedi in questo sito Dialogo tra Potere e Libertà. Lo sguardo del vecchio russo sui nostri tempi (21 dicembre 2021); ma anche Pane e libertà. O della cugina povera rimasta vedova (27 agosto 2022).

Gaspare Nevola

http://gasparenevola.net/2023/01/27/sulla-comunita-nellepoca-liberal-democratica-quarta-e-ultima-parte/

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