Critica sociale e teoria di classe

giu 20th, 2023 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

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Critica sociale e teoria di classe

Sulla necessità di riformulare la nostra concezione di lotta sociale

di Julian Beuwirth

In questi ultimi anni, la categoria di «classe» è tornata ad assumere grande importanza nelle discussioni circa la direzione della critica sociale emancipatrice, e sull’orientamento delle lotte sociali. La rinascita della politica di classe viene vista come se fosse una grande opportunità per riuscire a dare una definizione più precisa di quelli che sono i meccanismi di dominazione sociale, e al fine di una radicalizzazione delle lotte sociali. Tuttavia, a un esame più attento, il termine sembra poco adatto a questi due aspetti. E per poter svolgere i necessari dibattiti, nel contesto del Capitalocene, si rende pertanto necessario un altro paradigma

 

La classe e la critica del capitalismo

L’importanza che il concetto di classe riveste nell’attuale fase della teoria e della prassi della sinistra ha, per gli attori, un significato socio-psicologico che non deve essere sottovalutato. Da un lato, esso indica la (presunta) subordinazione alle condizioni sociali. È chiaro che noi non siamo semplicemente degli esseri umani (come pretende l’ideologia liberale), ma piuttosto degli «esseri umani sottomessi». E lo siamo in base al principio di «classe», che ogni individuo interpreta e intende in maniera diversa. Il termine serve a cercare di rendere comprensibile la sofferenza causata dalla società; eppure allo stesso tempo non riesce a spiegare molto (dal momento che con tale termine ciascuno intende qualcos’altro). Però, allo stesso tempo, il principio di «classe» contiene simultaneamente anche un principio e un motore che guida l’azione. Infatti, dato che in realtà l’assoggettamento non ci riguarda come individui, ma piuttosto in quanto membri di un gruppo assai ampio (la «classe»), ecco che da questo ne possiamo trarre una capacità di azione collettiva.

Una simile duplice funzione della «classe», la troviamo già in Marx, il quale da un lato si avvale di un concetto analitico di classe (e lo fa soprattutto ne Il Capitale, dove egli intende le classi come se esse fossero delle categorie funzionali alla produzione di merci); mentre, dall’altro lato, usa la «classe» come concetto teorico di emancipazione (soprattutto nel Manifesto comunista). E ancora a tutt’oggi, a mio avviso, è quest’ultima accezione a rappresentare l’attrattiva centrale esercitata dal discorso sulle classi. Ci promette di definire e stabilire un legame tra dominazione e liberazione, per mezzo del quale viene spiegato chiaramente in che modo i dominati, trasformandosi in soggetti collettivi, possono essere in grado di trasformare le relazioni [*1]. Il problema, consiste nel fatto che le due accezioni del termine non si conciliano bene tra di loro, e perciò non sono in grado di cogliere in maniera pertinente (o addirittura coerente) la diversità tra le diverse forme che costituiscono la dominazione, lo sfruttamento e la resistenza. Questa incompatibilità tra loro, determina un indebolimento del concetto di classe, il quale così viene per essere applicato a dei fenomeni molto diversi, perdendo in tal modo quella chiarezza analitica che un tempo invece lo caratterizzava. Se, ad esempio, le lotte per i costi degli affitti devono essere considerate come lotte di classe, ecco che vediamo che così quello che è un conflitto all’interno della sfera della circolazione (laddove si scontrano affittuari e proprietari) finisce piuttosto per assumere un significato che Marx voleva però invece riservare solo alla sfera della produzione. Se, in fin dei conti, tutto è «classe», allora il concetto non può più servire a spiegare niente di specifico, e di conseguenza non serve più a niente analizzare il modo in cui si costituiscono i rapporti sociali. Però, d’altra parte, se lo riduciamo invece solo alla precisa definizione politico-economica che Marx gli attribuisce nel Capitale, ecco che subito il concetto di lotta di classe diventa di scarsa utilità per descrivere quelle lotte centrali che oggi si svolgono a partire da un obiettivo emancipatorio. Ed ecco che allora il problema non può essere più risolto ricorrendo al concetto di «classe». Solo quando ci rivolgiamo ai principi operativi centrali della società capitalista, il rapporto tra dominio e asservimento può essere risolto in modo emancipatorio. Questo approccio implica un importante cambiamento di prospettiva: il punto di partenza dell’analisi non è più costituito dalla determinazione dell’identità (chi fa parte della «classe»?), ma da quella del contenuto (cosa vogliamo abolire?). Dobbiamo quindi chiederci che cosa è che caratterizza fondamentalmente il capitalismo.

 

Che cos’è il capitalismo?

Il capitalismo, ha dato origine a una formazione sociale che si distingue per quello che, rispetto a tutte le società precedenti, costituisce un aspetto centrale. Gli esseri umani si trovano a essere allontanati ed estromessi da quelle che erano le loro tradizionali relazioni sociali, e vengono scaraventati in un sistema che si caratterizza a partire da quella che appare come una strana autoreferenzialità. Il capitalismo è essenzialmente contraddistinto da quel meccanismo che consiste nel fare più soldi per mezzo dei soldi. E inoltre, del resto, è a questo meccanismo che esso (il capitalismo) deve il suo nome. «Il capitale» è – secondo Marx – il meccanismo e il movimento che succhia e assorbe lavoro, denaro e natura per poi dopo rigurgitare altro denaro; e che in tal modo, di passaggio, «simultaneamente esaurisce le due risorse da cui si origina ogni ricchezza: la terra e il lavoratore». Marx, il Capitale, Proletariato, Tale principio di autoriproduzione incessante, è auto-referenziale: non ha un fine esterno, non ha un punto di arrivo verso il quale si dirige. Ed è largamente indipendente da quegli individui che occupano le posizioni concrete di azione e di dominio. Se proprio vogliamo arrivare al cuore dell’asservimento e dell’alienazione di cui tutti soffriamo, non ci rimane altro da fare che eliminare tale processo autoreferenziale di accumulazione del capitale. Per poterlo fare, ci servono altre forme di riproduzione sociale, che dobbiamo creare tutti insieme. E tutti insieme dobbiamo condurre quelle lotte sociali finalizzate ad appropriarci della ricchezza della società. Le condizioni concrete, in cui si svolgono le lotte sociali, sono quindi sempre segnate in modo centrale dalle condizioni di (ri)produzione del capitale. Secondo Marx, l’analisi di queste condizioni ci fornisce la chiave per comprendere le lotte contemporanee. Al contrario, invocare oggi il concetto di classe funziona spesso come il tentativo di trovare una scorciatoia: passare direttamente alle lotte senza alcuna analisi sostanziale; lotte che poi vengono intraprese senza successo.

 

Analisi politica ed economica anziché politica identitaria

Prendiamo come esempio quello di un dibattito politico attuale, e vediamo in che modo cambia la prospettiva, prendendo in considerazione i contesti politici ed economici. Nel momento in cui i prezzi dei generi alimentari, dell’energia e degli affitti aumentano, l’enfasi sulla politica di classe si esprime attraverso la richiesta di salari più alti, di sussidi pubblici per la «classe operaia», e maggiori tasse sui ricchi [*2]. Ma chiedere salari più elevati, significa anche che l’economia nel suo complesso deve continuare a crescere, in modo da mantenere così sostenibili i salari stessi. Oggi – al più tardi con le crisi ecologiche – per una sinistra che vuole preservare un pianeta vivibile, la crescita economica non è più una soluzione. Ma se vogliamo uscire dalla crescita economica, abbiamo anche bisogno di trascenderla e superarla, andando oltre quelle che sono le nostre tradizionali richieste socio-politiche. Un altro esempio, è quello degli affitti e delle controversie in materia di locazione. Se nei grandi agglomerati urbani gli affitti stanno andando fuori controllo, ciò non avviene semplicemente perché per ragioni sconosciute i proprietari sono diventati più avidi e hanno pertanto innescato una «inflazione dovuta alla cupidigia». Si tratta piuttosto di capitali finanziari inutilizzati che, in quelli che sono tempi di bassi tassi di interesse, cercano opportunità di investimento redditizie, e le trovano nel settore immobiliare. Pertanto, se vogliamo capire e criticare l’aumento degli affitti, dobbiamo parlare della finanziarizzazione del capitalismo, dell’importanza dei mercati finanziari nel XXI secolo, e così via. Dire che questi processi devono essere portati avanti da persone reali e operose non è molto d’aiuto. Bisogna quindi parlare della situazione politica ed economica in cui si trova attualmente il capitalismo. Solo comprendendola, possiamo capire i cambiamenti degli attori sociali, e gli attuali processi di impoverimento. Questa prospettiva implica che le relazioni sociali fondamentali, che caratterizzano la vita sotto il capitalismo, non sono affatto delle relazioni di classe. Con il capitalismo, il lavoro si è imposto come il mediatore centrale tra gli individui, da una parte, e la ricchezza sociale dall’altra. Tutti noi dipendiamo dal fatto che la macchina della valorizzazione del capitale debba continuare a girare, dal momento che siamo legati a essa tramite le nostre vite e le nostre possibilità di riproduzione. Questo ci rende vulnerabili e soggetti a essere ricattati. Il collega che assembla automobili nella fabbrica di automobili può anche essere del tutto convinto dell’urgenza relativa alle crisi ecologiche, ma il suo bisogno di riproduzione individuale lo mantiene legato alla società motorizzata. In caso di dubbio, egli opterà addirittura per l’auto con motore a combustione interna piuttosto che per l’auto elettrica, e lo farà semplicemente perché la produzione di auto a combustione interna richiede più lavoro, e questo gli assicura la sua ricompensa individuale, almeno a breve termine. Il fatto per cui ci troviamo in una fase economica nella quale il lavoro vivo perde sempre più la sua importanza in quello che è il processo di produzione - mentre, allo stesso tempo, le merci del mercato finanziario e l’economia di rendita stanno guadagnando sempre più importanza ai fini dell’accumulazione di capitale - non rende certo le cose più facili per il collega della fabbrica di automobili. Ciò perché la merce che egli vuole vendere (vale a dire, il lavoro), nel processo di accumulazione del capitale sta oggettivamente perdendo sempre più importanza. E la cosa determina un effetto poco favorevole alle condizioni di vendita di tale merce. Per sottolinearlo ancora una volta: tutto ciò non costituisce una legge di natura, bensì una conseguenza del fatto che tutti noi dobbiamo garantire la nostra sussistenza comprando e vendendo merci. È per questo che Marx ha definito il capitalismo come una società produttrice di merci. Ed è da questo meccanismo che dobbiamo uscire se vogliamo liberarci dalle coercizioni che rendono la nostra vita un inferno.

 

La lotta di classe nella crisi climatica

Queste riflessioni non sono nuove ma, se viste nel contesto della crisi ecologica, stanno assumendo sempre più importanza. Ancora una volta, la crisi sta cambiando in maniera fondamentale la situazione politica nella quale attualmente ci troviamo. Essa non consente più che si possa continuare a mantenere quegli schemi che dal fordismo in poi hanno mantenuto a galla la sinistra. L’enfasi che viene posta sull’aumento dei salari, non può essere dissociata dall’enfasi sulla crescita economica. E noi non abbiamo certo bisogno di continuare a spingerci ulteriormente sempre più in profondità nella tana del coniglio; piuttosto, dobbiamo uscirne. Quello di cui abbiamo bisogno non è più una politica di classe - in quanto lotta finalizzata a rafforzare il ruolo che i lavoratori hanno nel capitalismo - ma al contrario quel che ci serve è una smobilitazione della classe. Dobbiamo organizzare, e portare avanti le lotte in maniera tale che esse siano in grado di condurci fuori dalla falsa realtà; impedendo che si rimanga sempre più profondamente coinvolti nei suoi meccanismi. In un tale contesto, le lotte sociali che si svolgono nell’ambito, e sul terreno del lavoro, possono assumere un carattere assai diverso, a seconda delle premesse a partire dalle quali esse vengono condotte. Ad esempio, la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro ha un carattere del tutto diverso rispetto a quello della lotta per l’aumento dei salari, la quale viene portata avanti al fine di mantenere la capacità di consumo della classe operaia. Per usare le parole di Leo Löwenthal: «Che il proletariato si fermi»! Anche pensando la lotta di classe in modo più radicale, non è che le cose migliorino di molto: cosa se ne ricaverebbe nel caso che le aziende dovessero appartenere ai lavoratori? Ci sarebbero dei grandi settori della produzione che per motivi di sicurezza pubblica dovrebbero essere immediatamente fermati! In ultima analisi, qui si tratta della qualità del nostro rapporto sociale con la natura, vale a dire, è questione di sapere in che modo vogliamo comportarci nei confronti del mondo che ci circonda. E la cosa continua a rimanere sempre strettamente legata al modo in cui ci relazioniamo, ossia al modo in cui stabiliamo i rapporti con i nostri simili. Attualmente, comprendiamo la natura come se fosse un oggetto esterno a noi che bisogna dominare. E stabiliamo tutte le nostre relazioni sociali attraverso le merci, il denaro e il lavoro. Oggi, la sinistra sociale ha ben poche risposte soddisfacenti alla domanda su come poter fare le cose in modo diverso. Si preferisce discutere della teoria delle classi… Il che significa che l’incontro di Francoforte, da cui è nato questo testo, non è solo parte della soluzione, ma è anche parte del problema.

 

Trasformazione storica del movimento operaio immanente

In effetti, c’è stato un periodo durante il quale il movimento operaio ha portato avanti con successo delle lotte sociali. Possiamo allora chiederci – in maniera del tutto materialista – quale è stata la base oggettiva della formazione del movimento operaio e del suo costituirsi come soggetto di azione collettiva? La cosa trova le sue origini nelle condizioni politiche ed economiche del XIX secolo. Nella neonata società della produzione industriale, i lavoratori avevano una sola merce da offrire: la loro forza lavoro. Tuttavia, si trovavano ben lontani dal venire riconosciuti come dei soggetti aventi uguali diritti. Non avevano affatto quei diritti politici che oggi noi diamo per scontati, e non esistevano nemmeno i diritti sociali, per cui non c’era alcun modo di proteggere i beni che mettevano in vendita. Allo stesso tempo, erano simultaneamente indispensabili al processo di produzione capitalistico. Le competenze necessarie per produrre merci, erano già incorporate nei loro corpi e nelle loro intelligenze. Così, avevano già una carta che si potevano giocare nel dibattito sociale. È stata questa la base oggettiva e materiale della costituzione, a livello nazionale, della classe operaia. Le lotte, portate avanti con successo dal movimento operaio a livello nazionale, erano lotte per il riconoscimento della “merce forza lavoro“, e quindi erano lotte per l’integrazione dei lavoratori nella normativa delle leggi vincolanti una società che ruotava intorno al lavoro, al denaro e al capitale. In un’epoca nella quale la forza lavoro era la merce centrale dell’universo capitalista, le lotte potevano essere condotte nella forma della lotta di classe. Ovviamente, sovente queste lotte avevano una forte dimensione emancipatoria. Ciò è stato possibile, a partire dal fatto che esse portavano ad avere migliori condizioni di vita per le persone coinvolte. E questo, del resto, anche perché la missione storica oggettiva della classe operaia (vale a dire, l’integrazione dei lavoratori in quanto soggetti borghesi a tutti gli effetti) è stata travisata e interpretata come se fosse una lotta contro le costrizioni della modernità capitalista. Ad esempio, questa prospettiva si esprime attraverso la supposizione che, in realtà, non si trattasse affatto di integrazione nelle condizioni di vita borghesi, ma piuttosto dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo genere di atteggiamento non è insolito, ma si tratta, in ultima analisi, di una posizione idealistica che ha poco a che fare con le condizioni materiali. Più l’integrazione dei lavoratori ha avuto successo, più la carica emancipatrice delle lotte è scomparsa. Si è così arrivati a una generalizzazione del modo di esistenza della merce, il quale si è ormai completamente impadronito dei lavoratori: che diventano così i venditori riconosciuti della forza lavoro e, in quanto tali, dei soggetti politici riconosciuti. In questo modo, quelli che sono i contraddittori interessi dei diversi gruppi di venditori di forza lavoro passano in primo piano. La comunità che un tempo costituiva la classe viene erosa, ed è sempre più debole. Al suo posto, le differenze tra gli individui diventano sempre più il fulcro dei conflitti. Sul piano politico ed economico, tutto ciò si esprime nel fatto che il processo di produzione capitalistico, a partire da una concorrenza generalizzata, ha portato a una sempre più crescente scientifizzazione della produzione. Da un lato, questo ha portato anche a un notevole aumento delle quantità prodotte (cosa che ha dato ai lavoratori delle metropoli, delle possibilità di consumo inimmaginabili), però, dall’altro lato, essi sono diventati sempre più un’appendice di una produzione che rispetto a loro sta diventando sempre più autonoma. In questo modo, da un lato, si assiste a una crescente differenziazione della produzione all’interno dell’impresa, e all’emergere di ufficiali e sottufficiali del capitale, come sottolineato da Marx. Ma al più tardi, è negli anni Settanta, al momento della terza rivoluzione industriale, che questo processo porta anche a un crescente declassamento di ampi settori della vita proletaria. Le discussioni sulle nuove classi medie, sulla classe professionale manageriale, o sulle nuove classi «competitive» rientrano in queste trasformazioni. Sono l’espressione del collasso di una politica di classe emancipatrice a partire dalle condizioni materiali. Rimanere focalizzati sulle classi, è solo un riflesso idealista, e non costituisce una critica materialista della società. Questi cambiamenti, fanno oggettivamente perdere alla lotta di classe la sua centralità, semplicemente perché essa è stata privata della sua base materiale. Ma allo stesso tempo, le lotte femministe e antirazziste (che sono sempre esistite, ma che prima erano meno visibili) diventano più centrali nell’economia dell’attenzione. In questo contesto, il tentativo di comprendere le lotte femministe e antirazziste come se fossero in primo luogo delle lotte di classe (nel femminismo marxista, si aggiunge «di classe»). Riformularle come lotte di classe, potrebbe essere inteso come un tentativo (inconscio) di relativizzare la loro nuova importanza, e di cancellare così la moltiplicazione delle lotte che le accompagna.

 

Che fare? Le lotte sociali al di là della questione di classe

Se pensiamo le lotte dal punto di vista della classe, finiamo per pensarle in termini di politica identitaria. Vorrei invece proporre di pensarle in termini di contenuto. Come se esse fossero la negazione di ciò che rende la nostra vita un inferno, e che vogliamo superare. Tuttavia, nell’orientamento strategico delle lotte, continuano a esserci ancora (almeno) due aspetti importanti da tenere in considerazione. Innanzitutto, il processo di produzione capitalista attraversa e impregna tutti gli ambiti della società. Una pratica emancipatrice che volesse affrontare tale totalità dovrebbe superare il capitalismo globale in un sol colpo e tutt’insieme. Ma se il modo in cui le persone si relazionano, e pensano il mondo, è caratterizzato esso stesso da questa totalità capitalista, difficilmente si renderà possibile trovare e riconoscere delle maggioranze rilevanti. O quanto meno, al momento non riusciamo ancora a capire da dove queste maggioranze possano provenire. Tuttavia, allo stesso tempo, il capitalismo non è un sistema statico che semplicemente si limita a organizzare il dominio a un livello costante. Si tratta piuttosto di un sistema altamente dinamico, nel quale le condizioni di vita di molte persone si deteriorano costantemente proprio a causa delle dinamiche di crisi del capitale (quelle che le scienze sociali chiamano «crisi multiple»). Con la crisi climatica e la crisi della biodiversità, a essere in gioco sono anche le stesse basi scientifico-naturali della costruzione di una società vivibile. Dobbiamo pertanto muoverci in fretta, e non sembra affatto promettente aspettare che si creino quelle maggioranze globali necessarie a una rivoluzione globale. Di conseguenza, ciò significa che a mio avviso dobbiamo trovare il modo di relativizzare quanto meno quello che è il dominio della forma-merce, e separare, staccandoli dal dominio della merce, i domini parziali della riproduzione sociale. I punti di riferimento di interesse ci appaiono davanti nella misura in cui consideriamo le lotte emancipatorie a partire dalla prospettiva secondo cui la nostra riproduzione è organizzata intorno all’acquisto di merci. Ad attirare l’attenzione, sono state giustamente le lotte per la socializzazione degli alloggi (ad esempio, “DW-expropriation” o “Mietenwahnsinn Hessen“). Si tratta qui, essenzialmente, di far perdere all’alloggio il suo carattere di merce. E in effetti, l’esplosione dei prezzi degli affitti è dovuta essenzialmente alla natura di merce degli alloggi: allorché il capitale deve essere investito, in un periodo di bassi tassi di interesse, gli alloggi diventano oggetto di speculazione. Il risultato è quello di un aumento degli affitti. Spesso si tenta di descrivere queste lotte come se fossero «lotte di classe», cosa che generalmente significa soltanto che la nozione di classe ha perso la sua acutezza, e alla fine è diventata identica a un concetto sociologico generale, come «povero» e «ricco». In questo modo finisce per essere solo un diversivo rispetto a qualcosa che potremmo descrivere più semplicemente dicendo solo che le nostre vite sono state rese più difficili dal fatto che dobbiamo comprare un alloggio come se si trattasse di una merce. Ma la casa non dovrebbe essere una merce! Prendiamo un altro ambito di lotta sociale. Quello delle ultime lotte del movimento per la giustizia climatica che hanno sollevato la questione delle condizioni di produzione dell’energia. Anche l’energia viene prodotta e venduta in quanto merce. Questa cosa ha dato vita a delle campagne come quella di «Exproprier RWE». In una società come quella tedesca, dove la percentuale di affittuari è vicina al 60%, si aprono delle interessanti possibilità di mettere in rete le lotte sociali. Al momento, in realtà nessuno ha interesse a isolare in maniera adeguata le proprie case. I proprietari non hanno alcun interesse a farlo visto che non sono loro quelli che devono pagare i costi dell’energia, mentre gli inquilini non hanno accesso a tale opzione dal momento che non sono loro i proprietari, e le società elettriche hanno interesse solo a vendere energia, e pertanto non è nemmeno loro interesse ridurre le vendite. Ma se gli alloggi fossero gestiti dagli inquilini e la produzione di energia fosse gestita dalla società, allora gli effetti provocati da una simile sinergia sarebbero enormi. A tal punto, le persone potrebbero davvero pensare a come organizzare il proprio approvvigionamento energetico in maniera materialmente sensata. Finora questo non è stato possibile, perché ovunque esistono relazioni tra le merci e il denaro. Visto dalla prospettiva di un movimento critico nei confronti delle merci, questo apre una moltitudine di possibilità di intervento e di cooperazione all’interno dei movimenti sociali. Va da sé che tutte queste lotte particolari non costituiscono ancora un superamento dei rapporti capitalistici. Ma essi tuttavia creano uno spazio per poter respirare in un mondo in cui è sempre più difficile respirare, soprattutto a causa delle condizioni climatiche in costante cambiamento. E questo implica anche un altro aspetto: le nuove possibilità di collegare le lotte tra di loro, non sono il risultato di un arretramento dalle proprie rivendicazioni, che verrebbe messo in atto a partire da un compromesso di facciata che sarebbe insoddisfacente per tutti. Ma risulterebbe invece proprio a partire dalla loro estensione e radicalizzazione. È proprio perché facciamo, delle categorie di base della formazione sociale capitalista, il punto di partenza delle nostre lotte – ed è proprio perché radicalizziamo le nostre rivendicazioni – che davanti a noi appaiono di continuo e sempre più delle nuove possibilità di alleanze tra le lotte.


Julian Beuwirth - (gruppo tedesco Krisis) – Francoforte, 5 giugno 2023
- Questo testo si basa su un intervento dell’autore alla “Seconda Settimana di Lavoro Marxista” del 29 maggio 2023, a Francoforte sul Meno -

NOTE:
[*1] - Nel corso di una discussione, svoltasi nell’ambito della «Settimana di lavoro marxista», un oratore ha sostenuto che Marx avrebbe ridotto le condizioni sociali a una semplice frase nella quale ci sarebbe solo un soggetto, un oggetto e un predicato. Per cui ora sarebbe chiaro chi è che deve fare qualcosa, che cosa deve essere fatto, e come deve essere fatto. Nel discorso di classe, il mondo sembra essere tutto ben ordinato e assai facile da capire. Di fronte alla disperazione in cui si trovano i movimenti di emancipazione, questo può di certo essere una consolazione. Ma non ci fa andare da nessuna parte.
[*2] - Si veda, ad esempio, l’inqualificabile campagna «Quando è troppo è troppo»: https://www.wirsagengenug.de/

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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