Antonio Negri Un uomo che voleva assaltare il cielo in punta di piedi

gen 5th, 2024 | Di | Categoria: Recensioni

 ANTONIO NEGRI

UN UOMO CHE VOLEVA ASSALTARE IL CIELO

ALZANDOSI SULLE PUNTE DEI PIEDI

 

Nel momento in cui l’intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo  sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l’uno dall’altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due “grandi vecchi” dell’operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo “Che cosa ho imparato da Mario Tronti”, per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare “Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi”.  Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri “cattivo maestro”, che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo – per citare un azzeccato titolo del “Manifesto” – di “attivo maestro”. Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell’influenza  che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste.

 

Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine). Co-fondatore negli anni Sessanta dei cenacoli operaisti di “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia” (più affini alla sinistra socialista che al PCI); leader negli anni Settanta del gruppo extraparlamentare Potere Operaio che, al pari del “Manifesto” di Rossana Rossanda, ha fortemente contribuito alla demonizzazione del “comunismo reale”, poi di Autonomia Operaia, che radicalizzerà il distacco dalla tradizione comunista; infine, a partire dalla svolta postmoderna degli anni Ottanta/Novanta, esponente di un liberalismo radicale di sinistra, come documentato da Impero (2) e opere successive, testi che lo hanno consacrato a “star” mondiale assieme a Deleuze e Foucault, autori con i quali presenta più affinità che con i classici del marxismo. Per estrarre un nucleo unitario da questo percorso, sfrondandolo dalle contraddizioni che caratterizzano una militanza intellettuale e politica che ha attraversato più di mezzo secolo di storia, segnato da conflitti e trasformazioni radicali, metterò prima a confronto le opposte traiettorie seguite da Tronti e Negri a partire da un punto di partenza comune, dopodiché analizzerò alcune caratteristiche distintive delle attuali sinistre radicali, valutando in che misura le idee di Negri abbiano contribuito a plasmarle.

Prima di affrontare il compito, vorrei spiegare perché mi permetto di affermare che Negri non è  stato comunista. Un bel libro di Vladimiro Giacché sulla dialettica hegeliana (3) contiene una sezione antologica che raggruppa una serie di lunghe citazioni dalle opere maggiori di Hegel assieme ad estratti dai testi di autori che le hanno discusse. Fra questi ultimi ho trovato un illuminante testo di Remo Bodei (4). Ragionando sui mutamenti di paradigma, Bodei nota come il sorgere di nuove visioni del mondo si accompagni al ripudio delle forme precedenti, che vengono sottoposte a una sorta di damnatio memoriae. La nuova filosofia assume toni intolleranti e distruttivi nei confronti del sapere e del mondo tradizionali. Ma questa fase non dura a lungo, annota Bodei, perché prima o poi il passato si vendica in due modi: induce il nuovo a farsi a sua volta sistema, ri-appropriandosi nel contempo del vecchio (operazione che Hegel connota con il termine aufhebung), oppure irrigidisce il nuovo in una prassi di sterile ripetizione delle proprie “scoperte”, condannandolo a definire la propria identità esclusivamente in opposizione al vecchio (per dira ancora con Hegel: si fossilizza in una postura di negazione assoluta incapace di evolvere in negazione determinata). La rottura fra tradizione comunista e nuova sinistra che si è consumata a partire dagli anni Sessanta/Settanta è un buon esempio di questa dinamica: la critica della tradizione non si è evoluta in alternativa capace di comprendere/inglobare il nucleo vitale della storia passata ma si è irrigidita in rifiuto assoluto, per cui la sinistra emersa da quella transizione fallita è diventata di fatto anticomunista.

Forzare la complessa e variegata produzione teorica dell’operaismo italiano degli anni Sessanta in un unico, monolitico edificio teorico è operazione arbitraria. Tuttavia ritengo sia lecito enucleare una serie di elementi che caratterizzavano una visione sostanzialmente comune fra il primo Tronti – quello di “Operai e capitale” (5), per intenderci – e Negri. Entrambi sono convinti che le lotte operaie siano il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinino in misura sostanziale tempi e modalità (la si potrebbe definire una visione economicista e soggettivista al tempo stesso). Entrambi attribuiscono all’ “operaio massa”, termine con cui definiscono il proletariato industriale della fabbrica fordista, la capacità di sviluppare spontaneamente una coscienza anticapitalista che si estrinseca in obiettivi, pratiche e metodi di lotta del tutto nuovi rispetto alla tradizionale prassi sindacale. Entrambi, a partire dalla convinzione che in questa inedita fase storica il lavoro vivo sia  portatore di una politicità immediata, rinnegano le radici gramsciane cui faceva riferimento (anche se impropriamente) il più grande partito comunista occidentale: quel PCI che, ignorando le potenzialità rivoluzionarie inscritte nella propria base sociale, ha scelto la via “nazional popolare”, sterilizzando la parzialità operaia in funzione di una strategia che perseguiva il progetto togliattiano di “democrazia progressiva”. Entrambi, pur non rinnegando la necessità di una organizzazione rivoluzionaria, non la concepiscono più, leninisticamente, come luogo d’una coscienza politica esterna alla classe, bensì come strumento tattico deputato a coordinare e unificare la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.

 

Da qui in avanti le strade divaricano. Per Negri, che si considera una sorta di Lenin senza leninismo (6), il fattore soggettivo resta determinante ma va organizzato senza irrigidirlo nella forma partito (questa sarà la filosofia della sua creatura politica, l’Autonomia Operaia Organizzata). Tronti, viceversa, si convince della necessità di riconoscere l’autonomia del politico e quindi l’imprescindibilità della forma partito. Questa svolta si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista metteranno in luce  quella che egli considera l’irrisolvibile aporia che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene concepita come contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alternativa alla riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, in quanto essa stessa capitale, non può divenire autonoma. Si potrebbe dire, per descrivere in poche parole il giudizio critico – e autocritico – di Tronti sull’operaismo, che il “peccato originale” di questa visione teorica è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione, una visione che non coglie come il principio di immanenza si rovesci in principio di cattura (vedi l’affermazione secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, affermazione che contiene un germe di auto dissoluzione, nel senso che se non esiste un fuori non esiste possibilità di uscirne).

 

Gli imputati al processo del 7 Aprile

Per Tronti la soluzione consiste nella riscoperta del ruolo del politico come mediazione della totalità delle relazioni e dei conflitti sociali, terreno su cui solo il partito può operare. Tronti, annota Franco Milanesi (7), concepisce il politico come visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione, tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico; è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico (8). Purtroppo la sua speranza di riattivare tale visione è naufragata con la trasformazione del PCI in partito liberale, ma ancor più con il crollo del socialismo reale, eventi che hanno contribuito a diffondere nelle sinistre occidentali non solo il ripudio delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico, ma anche il rigetto dell’intero “secolo breve”, dipinto come un museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (9). Per Tronti il Novecento è stato piuttosto un secolo “tragico” che ha imposto decisioni e scelte radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut fra socialismo o barbarie, mentre l’ideologia postmoderna l’ha liquidato con i suoi annunci di “fine delle grandi narrazioni” (10) se non di “fine della storia”(11). Ecco perché l’ultimo Tronti si è ritirato nella nostalgica commemorazione della grande politica novecentesca, contemplando con ironico distacco una realtà che ha assunto la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente.

 

Negli stessi anni in cui Tronti sprofonda nel suo pessimismo tragico, Negri imbocca viceversa un percorso che lo porta a nutrire uno sfrenato ottimismo in merito all’imminente tracollo del dominio capitalistico. Nuovo ma non nuovissimo, perché Negri non ha mai messo in discussione la tesi che attribuisce un ruolo spontaneamente rivoluzionario alle classi subalterne e alla loro capacità di determinare in ultima istanza la direzione di sviluppo delle forze produttive del capitale, ha semplicemente “modernizzato” (o meglio post modernizzato) la tesi in questione. Se è vero che in Occidente l’operaio massa è sparito sotto i colpi della crisi e della ristrutturazione capitalistiche, la sua funzione, sostiene Negri, si è trasferita in una successione di figure – dall’operaio sociale alla moltitudine – che incarnano una soggettività antagonistica a suo avviso ancora più radicale.

Il concetto di operaio sociale, emerso nel decennio successivo al riflusso delle lotte di fabbrica, è ritagliato sul proletariato giovanile che rifiuta di assoggettarsi alla disciplina del lavoro e pratica l’illegalità diffusa nelle periferie metropolitane, sfruttando i centri sociali come proprie basi, ma anche sul nascente movimento femminista, che frustra le ambizioni neo leniniste dei gruppi extraparlamentari. Tronti descrive questa operazione concettuale come il tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. La sopravvalutazione della valenza politica dei comportamenti “indisciplinati” di questi strati sociali è alle radici dell’avventurismo “insurrezionale” di Autonomia Organizzata che legittimò la dura repressione politico-giudiziaria che ne decretò la fine con il processo del 7 Aprile 1979.

Dal fallimento del progetto di Autonomia Operaia, e dalla dura prova del carcere, Negri e  compagni emergono con l’esigenza di tracciare un confine ancora più netto nei confronti della tradizione comunista. Se negli anni Settanta avevano mantenuto rapporti tattici con le formazioni comuniste combattenti, espressione di frange dissidenti della base del PCI, negli anni Ottanta la loro dissociazione dalla lotta armata è totale, ma soprattutto non riguarda tanto e solo i metodi e le forme dello scontro di classe: implica il ripudio totale della tradizione marxista-leninista. Viceversa il “metodo” della teoria operaista viene sostanzialmente conservato, e riversato in una visione post operaista che tenta di adattarlo alle mutate condizioni della produzione post fordista e alle radicali  trasformazioni antropologiche e culturali indotte dalla controrivoluzione neoliberista. Il nuovo paradigma matura negli ultimi due decenni del Novecento e si consolida nel primo decennio del Duemila con la pubblicazione di Impero e di una serie di testi successivi che ne articolano e approfondiscono i concetti fondamentali (12).

 

 

Antonio Negri e Mario Tronti

La categoria fondativa del discorso post operaista, che rimpiazza progressivamente quella di operaio sociale, è il concetto di moltitudine che, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica ed è concepito come somma di singolarità individuali e di gruppo che coagulano in potenza antagonista. Si cerca conferma empirica di questa reazione alchemica nel manifestarsi delle più disparate insorgenze di rabbia popolare che accompagnano il dispiegarsi della crisi capitalistica: Forconi, Occupy, Primavere Arabe, Indignados, Gilet Gialli, ecc. in generale senza approfondirne più di tanto composizione sociale e peculiarità geo-culturali, e spesso ignorandone le specificità ideologiche, anche quando di segno reazionario (vedi le manifestazioni filo americane di Hong Kong che vengono nobilitate con l’etichetta di insorgenze democratiche). Difficile ignorare una certa analogia con le teorie populiste di Ernesto Laclau (13); tuttavia l’importanza strategica che questo autore attribuisce al concetto di egemonia e al ruolo del leader carismatico è incompatibile con la visione libertaria e “orizzontalista” associata all’idea di moltitudine. Inoltre, mentre il discorso populista si fonda sulla centralità della dimensione comunicativa e sulla potenza performativa della parola, del discorso, il paradigma moltitudinario rinvia ai principi “classici” dell’operaismo: economicismo, soggettivismo, ottimismo tecnologico, rigetto di ogni struttura gerarchica e di ogni forma di potere politico, nonché demonizzazione dello stato nazione, cui si contrappone un miscuglio di globalismo e localismo.

Tutti questi ingredienti sono presenti nel calderone che partorisce quel bestseller del movimento “alter globalista” (definizione più appropriata, ancorché meno diffusa, di quella di movimento no global) che è stato Impero. Economicismo, perché il peso delle contraddizioni immanenti al modo di produzione quale fattore determinante d’una presunta crisi terminale del capitalismo viene ingigantito a dismisura; la fede negli effetti della insanabile contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione (forse una delle formulazioni più infelici e datate di Marx) viene corroborata dalle celebri pagine dei Grundrisse in cui si profetizza che, raggiunto un certo livello delle forze produttive del lavoro sociale, la legge del valore può sussistere solo come mera finzione, imposta dal dominio politico e non più giustificata dal ruolo progressivo del capitalismo.

L’altra faccia della medaglia dell’economicismo è lo sfrenato ottimismo tecnologico: la rivoluzione digitale – esaltata (14) a prescindere dal poderoso potenziamento del controllo capitalistico che essa incorpora fin dalle origini – svolge una funzione mille volte più potente di quella – già poderosa – attribuita da Marx al macchinismo industriale nell’accelerare la maturazione della transizione al socialismo; di più: essa è già di per sé socialistica, nella misura in cui genera uno strato sociale, i lavoratori cognitivi, capace di sviluppare spontaneamente un elevato divello di cooperazione autonoma e indipendente dal comando capitalistico (mentre si tace sul ruolo di tale strato nell’organizzare le nuove funzioni di dominio e sfruttamento degli strati inferiori per conto del capitalismo digitale). La cultura di questo strato di “nerd” diventa, assieme alle insorgenze populiste richiamate poco sopra, il modello che inspira una visione associativa che rigetta ogni forma di autorità e gerarchia sociali e politiche: lo stato, in particolare nella sua forma di stato nazione, assurge a nemico assoluto, a emblema di tutti i mali.

La globalizzazione economica (di cui pure si riconosce la natura parassitaria inscritta nella diade finanziarizzazione/economia del debito) accelerata dalla rivoluzione tecnologica, nella misura in cui travolge le frontiere nazionali e “unifica” le moltitudini (almeno secondo il delirio negriano che ignora la proliferazione di disuguaglianze e contraddizioni interne alle classi lavoratrici) è la prima amica della rivoluzione. Le rivoluzioni antimperialiste dei Paesi in via di sviluppo sono viceversa fattori di freno rispetto a questa tendenza intrinsecamente positiva, per cui le rivendicazioni di autonomia nazionale sono condivisibili se e finché attivano le energie sovversive dalle masse, divengono nemiche non appena si fanno stato. Non a caso Impero decreta la fine dell’imperialismo e assolve gli Stati Uniti dall’accusa di voler sfruttare il crollo del socialismo reale per instaurare un sistema mondiale di controllo e sfruttamento su tutti i popoli del mondo. Ecco perché è più corretto, come scrivevo poco sopra, parlare di alter globalismo: il “localismo” dei movimenti, sia geografico che culturale (in quanto non persegue l’obiettivo di conquistare il potere ma di limitarlo e controllarlo (15) per tutelare gli interessi specifici di donne, ambiente, minoranze etniche, ecc.),

Scontri a Genova 2001

è apprezzato nella nella misura in cui instaura rapporti federativi fra le diverse “tribù” in vista di mobilitazioni globali (è il modello del ciclo che va da Seattle a Genova).

 

Veniamo al soggettivismo: se Negri ritiene di poter riconoscere, come sostiene Tronti, una nuova forma di soggettività di classe nel processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica, è perché – dato per scontato che nell’era del capitalismo “immateriale” (16) il motore del conflitto sociale non può più essere la creazione e la spartizione del plusvalore – il capitale opprime e sfrutta la vita stessa più che la forza lavoro, per cui la contraddizione antagonista diviene quella fra il capitale e l’umanità intera. Le nuove dinamiche della lotta anticapitalista vanno analizzate a partire dal concetto foucaultiano di biopolitica e dalle derive desideranti teorizzate da Deleuze. Il capitale può e deve essere battuto sul suo stesso terreno, che è quello dell’accelerazione (17): non solo accelerazione economica e tecnologica, ma anche proliferazione e accelerazione dei bisogni e desideri sociali. Illusione, commenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. Ma anche e soprattutto perché, combinando i fattori sin qui descritti, Negri sogna un capitalismo che esercita ormai un domino senza egemonia, per cui basta che le moltitudini raggiungano un determinato livello di consapevolezza della propria potenza (non potere, parolaccia “sporcata” dalla politica) per dargli una spallata sufficiente a farlo crollare praticamente da solo. E’ una visione post rivoluzionaria in cui la transizione non necessita  di poderose concentrazioni di forza, di “assalti al cielo”, basta alzarsi appena sulla punta dei piedi per vedere la strada verso l’emancipazione (con il che ho spiegato il titolo di questo articolo).

Quanto di questa visione si è trasferito nella cultura e nella prassi dei movimenti radicali di sinistra? I giovani del 68, argomenta Tronti (18), erano anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva invece voler dire (ciò che in effetti ha voluto dire) liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro la gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento. Negli anni Settanta trionfa in effetti quello che Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (19):  l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei movimenti post sessantottini, sempre più disinteressati nei confronti di bisogni e interessi proletari, si converte di fatto in agente di una neo cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull’edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale dei limiti (“vietato vietare”) che la tradizione imponeva nei vari campi dell’esistenza e dell’agire umani. Nel mio ultimo libro ho descritto questa “sinistra del capitale” (20), rilanciando le argomentazioni di autori come Jean-Claude Michéa (21) e Costanzo Preve (22), ma anche ragionando sulla funzionalità del movimento femminista (nella sua versione “emancipazionista”) al consolidamento dell’egemonia liberal progressista, di cui l’ideologia politically correct incarna lo spirito autoritario (23).  Nel momento in cui davo alle stampe quelle pagine, il dibattito sulla mutazione genetica delle sinistre occidentali aveva già accumulato una bibliografia sterminata, quindi, per non ripetere quanto già scritto da molti altri, oltre che dal sottoscritto, mi limiterò qui a richiamare alcuni passaggi di un recente lavoro di Vincenzo Costa (24), che ha il merito di descrivere con chiarezza tanto la svolta liberale delle sinistre moderate, quanto il legame di affinità che le connette alle sinistre antagoniste, aggiungendovi un sommario accenno all’identità socio culturale dei soggetti che in esse si rispecchiano.

Costa liquida come anacronistica l’idea di politica che si attarda a tenere in vita l’asse oppositivo destra-sinistra. Non a caso, scrive, il guru del pensiero neoliberista von Hayek ha spiegato che la grande sfida non è più quella fra destra e sinistra, bensì quella fra liberalismo e socialismo, laddove la sinistra è ormai saldamente attestata nel cuore del campo liberale. Lo conferma il suo sistematico ripudio dell’idea secondo cui il motore del progresso è il conflitto sociale: il concetto di  lotta di classe viene superato in quanto evoca una visione “partigiana” che ostacola il perseguimento del bene comune. Lo conferma la sua opzione per un universalismo astratto che mira a dissolvere le differenze collettive e riconosce solo le differenze individuali. Lo conferma la scelta di abbracciare un’idea di uguaglianza che si riduce all’impegno di mettere tutti in grado di competere usufruendo di pari opportunità. L’inclusione liberal progressista riguarda infatti tutte le esclusioni che non derivano dal mercato, rimuovendo quelle che derivano dal mercato: mentre la critica socialista della disuguaglianza era sistemica, questa critica si fonda sul piano etico. Lo conferma il fatto che la messa inscena dell’opposizione alla destra si basa quasi esclusivamente su argomenti di natura morale (vedi il ruolo fondativo che la destra berlusconiana ha svolto per la costituzione dell’identità della sinistra progressista italiana). Lo conferma una prassi politica che penalizza sistematicamente gli interessi popolari, con governi di sinistra che garantiscono una politica di compressione salariale e di smantellamento dei diritti sociali più efficiente dei governi di destra, politiche che si auto definiscono “riformiste”, rovesciando il significato che le sinistre storiche attribuivano al termine. E dato che questa sinistra non parla più alle classi subalterne ma alla borghesia “illuminata” (25) è inevitabile che si associ alla destra per trasformare le regole della politica in senso post democratico (26): le leggi elettorali vengono cambiate in modo da riservare alle élite dominanti il diritto esclusivo di scegliere chi deve essere eletto; viene blindato un sistema bipolare che “taglia” le ali estreme, costringendo le formazioni radicali a sostenere i moderati di entrambi gli schieramenti se vogliono conservare un minimo di peso istituzionale; il sistema mediatico deve negare visibilità a tutto ciò che esula da questo schema progressista/universalista e contribuire a una martellante campagna di demonizzazione delle pulsioni “populiste” e politicamente scorrette delle masse, lasciando intendere che, se queste vanno escluse da ogni chance di partecipazione politica, è perché sono rozze, ignoranti, arretrate, razziste, sessiste, per cui votano in modo “sbagliato”.

In che misura le sinistre antagoniste si discostano dallo schema appena descritto? Meno di quanto si  creda. Intanto perché i rispettivi strati sociali di riferimento, pur se non del tutto sovrapponibili, presentano consistenti analogie. Alcuni di costoro hanno vissuto il riflusso delle lotte operaie seguito agli anni Sessanta e Settanta come una sorta di “tradimento”: se il proletariato non riusciva più a incarnare la contraddizione storica (ma sarebbe meglio dire: se non corrispondeva più all’immagine idealizzata e mitizzata che ne era stata costruita) era perché si era “imborghesito”, aveva esaurito la propria spinta propulsiva (27), quindi la cultura antagonista ha cercato di identificare nuovi soggetti del cambiamento. I concetti di dominio e emancipazione non vengono più riferiti allo sfruttamento economico bensì alle forme di esclusione che penalizzano i “diversi”; il fronte di lotta si divide in mille battaglie, ognuna delle quali ha come obiettivo il riconoscimento dei diritti particolari (28) di questo o quel gruppo di esclusi, mentre l’esclusione viene concepita come il prodotto di dispositivi culturali basati sulla forza della tradizione per cui a indicare la strada sono, più di Marx, autori come Foucault, che identifica il potere con la tradizione, e Deleuze, che disprezza una “normalità” che non è più appannaggio esclusivo delle classi medie ma appartiene a pieno titolo al proletario imborghesito.

In forza di questi discorsi, il concetto di potere si estende fino a comprendere praticamente ogni aspetto della vita sociale per cui, commenta Costa, la nozione di emancipazione entra in crisi nella misura in cui ogni progetto emancipativo viene associato al rischio che possa generare nuovi dispositivi disciplinari. La fobia del potere non investe solo stato, istituzioni e partiti, ma anche le forme di leadership che nascono spontaneamente all’interno di strutture orizzontali quali collettivi, assemblee, manifestazioni, ecc. Il potere non va conquistato ma indebolito, controllato, costretto a sviluppare forme di governance che riconoscano e integrino le spinte che arrivano dal basso (29). Infine sinistra progressista e sinistra antagonista condividono il medesimo disprezzo per le masse: l’uomo normale è naturalmente conservatore; è un prodotto passivo delle manipolazioni del potere politico e sociale; è il reazionario che vota Brexit in Inghilterra, Trump in America, Le Pen in Francia, Berlusconi in Italia.

Perché tanto disprezzo nei confronti della gente comune si chiede Costa? E ancora: a chi si rivolge questo discorso? Sfrutto questi due interrogativi per introdurne un terzo: quanto hanno pesato le idee di Negri in questa svolta? Per semplificare, potremmo dire che le idee appena elencate sono una volgarizzazione del discorso di Negri. Anche Negri segue Foucault e Deleuze nell’opera di ridefinizione del soggetto del cambiamento ma, al tempo stesso si sforza di salvare la marxiana contraddizione strutturale fra capitale e lavoro (sia pure riformulando a modo suo quest’ultimo concetto). Inoltre, nella misura in cui la moltitudine supera e conserva l’idea di operaio sociale, si sforza di tenere insieme l’aristocrazia nerd con il ribellismo delle folle, per cui non può legittimare il disprezzo per le masse. Viceversa le elucubrazioni filosofiche negriane convergono pienamente con l’ideologia e la prassi dei nuovi movimenti nel culto dell’orizzontalismo, nella fobia del potere, nel rifiuto radicale di ogni struttura gerarchica. Non a caso due delle esperienze che più hanno tratto ispirazione dalle sue tesi sono state il movimento no global e Rifondazione Comunista nella fase bertinottiana, entrambi caratterizzati dal tentativo di “sciogliere” la forma partito in una galassia di “singolarità” individuali e collettive. Quanto al secondo interrogativo di Costa (a chi si rivolgono questi discorsi) credo si possa rispondere che parlano agli stessi interlocutori: accademici, studenti, intellettuali, lavoratori “creativi”, quadri intermedi delle industrie hi tech, nuove professioni, avanguardie artistiche, ecc. L’elenco potrebbe continuare ma è più facile identificarne il tratto comune  nell’appartenenza geografica ai centri urbani, alle aree metropolitane gentrificate. Un tempo si sarebbe parlato di piccola-media borghesia, ma la frantumazione sociale è oggi tale da evocare una stratigrafia che scende fino agli atomi individuali, un universo di micro-differenze che hanno favorito modalità di appropriazione variegate (dalla condivisione teorica alla mera assunzione di slogan banalizzati) di un discorso complesso come quello di Negri. Una polisemia che ne spiega tanto il perdurante successo editoriale quanto un’influenza estesa ben al di là dei collettivi neo autonomi.

Resta da sciogliere il nodo dell’anticomunismo. Nei movimenti post sessantottini questo sentimento si è sviluppato nel corso del tempo a partire dagli anni Settanta del Novecento. All’inizio è nato come presa di distanza nei confronti del socialismo reale, seguita agli eventi di Budapest e Praga – e mai associata a una seria analisi delle contraddizioni interne al regime sovietico, sbrigativamente rimpiazzata con l’etichetta di totalitarismo (30). Nuove, potenti spinte in tale direzione sono arrivate dalla svolta berlingueriana (il noto annuncio sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre) e dal fallimento della Rivoluzione culturale in Cina che ha innescato il “pentimento” di un maoismo occidentale da operetta il quale, ignaro della storia e della realtà cinesi, ha liquidato le riforme degli anni Settanta come ritorno al capitalismo. Al momento del crollo del Muro la svolta era compiuta: le torme di giovani (perlopiù appartenenti agli strati sociali descritti poco sopra) che celebrarono questo “trionfo della democrazia”, erano del tutto ignare degli effetti di un evento destinato a schiacciare le aspirazioni delle classi subalterne in tutti i Paesi occidentali, e a spalancare la strada al progetto imperiale del capitalismo a stelle e strisce. I fermenti di ripensamento critico dell’eredità teorica marxista maturati in Asia e America Latina non sono mai giunti alle orecchie delle sinistre di casa nostra, schiacciate sui principi e i valori della cultura euro americana, né ha avuto riscontro il lascito dell’ultimo Gyorgy Lukacs (31), il più grande filosofo marxista contemporaneo. Perciò non è azzardato affermare che le attuali sinistre occidentali non sono solo unanimemente schierate nel campo liberale, ma sono dichiaratamente anticomuniste e hanno poco o nulla da spartire con il marxismo.

Eppure Negri, osannato come un guru da queste sinistre geneticamente modificate, non ha mai cessato di dichiararsi comunista e marxista. Ho spiegato perché non ritengo giustificata la prima affermazione. Contestare la seconda è un’altra faccenda. Per dire che Negri non era marxista bisognerebbe dimostrare che le sue interpretazioni del pensiero di Marx erano infondate e del tutto arbitrarie. Il che, come giustamente argomenta Costanzo Preve (32) è per definizione impossibile, nel senso che si dovrebbe ammettere che esista una “interpretazione autentica” dell’opera di Marx. Ipotesi insensata in quanto “cento anni di interpretazioni, scrive, sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx”. E aggiunge che i “fraintendimenti” del testo marxiano non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” che rispecchiano precisi vincoli storici: l’incorporazione del discorso marxiano originario in una neoformazione ideologica “è una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico sociale”. Né queste ideologie sono liquidabili come prodotti di una  “falsa coscienza”, dal momento che si tratta di strumenti ideali che gli uomini impugnano nei conflitti che nascono dalle contraddizioni del processo storico. Se ciò è vero, e io credo che lo sia, nessuno può negare a Negri il diritto di proclamarsi marxista. Il che non vieta di criticare il suo “fraintendimento” dell’opera di Marx dimostrandone il valore limitato e contingente (associato cioè agli interessi e alla cultura di strati sociali minoritari) così come gli si può contrapporre una lettura più adeguata ad affrontare le sfide dell’era presente.

 

 

Mi avvio alla conclusione, riassumendo che cosa avrei detto a Negri se avessimo avuto occasione di discutere vis a vis le sue tesi. Gli avrei detto che il modo in cui ha inteso il lascito di Marx si fonda paradossalmente (avverbio giustificato dalla sua fama di eretico) su alcuni aspetti “ortodossi” – e del tutto anacronistici come ho argomentato altrove (33) – della tradizione marxista: un mix di economicismo e storicismo (cioè l’idea che le contraddizioni immanenti al modo di produzione conducono necessariamente al superamento del capitalismo); l’esaltazione acritica del progresso scientifico e tecnologico (le forze produttive del lavoro sociale intese come general intellect); una visione cosmopolita dell’internazionalismo (che comporta il rigetto assoluto della dimensione nazionale) associata all’eurocentrismo (la negazione del ruolo strategico delle rivoluzioni del Terzo Mondo e l’attribuzione del primato culturale, sociale e politico ai popoli europeo e nordamericano); il mito dell’estinzione dello stato e del comunismo come paradiso in terra (residuo di una visione tardo ottocentesca). Gli avrei detto che è proprio questa fedeltà agli aspetti più datati della tradizione marxista che, impedendogli di analizzare le condizioni del superamento del capitalismo nell’attuale, concreta realtà storica, gli ha ugualmente impedito di ridefinire le forme di comunismo oggi possibili. Gi avrei detto infine che, per tutte queste ragioni, considero la sua rivendicazione di identità comunista come una testimonianza simbolica che ha sortito l’effetto involontario di legittimare la cultura di movimenti che tutto sono men che comunisti.

Personalmente non credo che oggi ci si possa definire comunisti senza riconoscere che il testimone della lotta anticapitalista è passato dalle mani dei Paesi occidentali a quelle dei popoli asiatici e latinoamericani (e presto, si spera, africani), i quali, con la loro prassi rivoluzionaria hanno ridefinito le condizioni della transizione al nonché l’idea stessa del socialismo (34). Per quanto riguarda le prospettive di rinascita di un movimento comunista occidentale (35) sprofondato nell’irrilevanza, credo che siano associate al cambio di paradigma cui ha alluso l’ultimo Tronti richiamandosi a Walter Benjamin (36). Sulle tracce del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti definisce le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come il compimento della rivoluzione borghese, cioè come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista, profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, si fondava sulla convinzione che lo sviluppo delle forze produttiva avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata. Criticando questa illusione, Benjamin affermò che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”, e Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni è coinciso con l’essere per lo sviluppo della società capitalista. A questa concezione continuista si è opposta quella di Lenin, cioè l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici,  imponendo le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico, il che fa sì che la rivoluzione del 17 presenti caratteristiche conservatrici più che progressiste in senso borghese.

Un riferimento alla necessità di superare la visione della sinistra progressista che esalta l’individualismo moderno e rimuove – se non demonizza in quanto reazionarie – le ragioni di comunità e tradizione, troviamo anche nel sopra citato libro di Vincenzo Costa, laddove l’autore scrive che le tradizioni sono forme di legame e le lotte del movimento operaio furono sempre lotte per resistere alla dissoluzione del legame, e aggiunge che, ignorando questo fatto storico, il marxismo tende a lasciarsi sfuggire il vissuto delle classi popolari nella misura in cui intende la classe come un dato sociologico statico, definito esclusivamente dal rapporto con i mezzi di produzione e non come articolazione di concrete relazioni umane, struttura di legami personali, famigliari e comunitari. Mi viene da aggiungere che queste considerazioni, che condivido pienamente, andrebbero associate a una critica ancora più radicale della cultura occidentale, nel senso che la rimozione messa in luce da Costa è l’esito necessario e inevitabile dell’individualismo e dell’universalismo astratti che caratterizzano la nostra visione della modernità (37). Ma questo è un altro discorso che mi riservo di  affrontare altrove.

Un’ultima annotazione: sono consapevole che questo articolo irriterà quegli estimatori di Negri che, oltre a non condividere le critiche che gli rivolgo, considereranno “irriguardosa” la metafora del titolo. Potrei replicare che la critica, per quanto dura, è una manifestazione di rispetto nei confronti di un autore del quale si riconosce l’importanza.  Quanto al titolo invito a leggerlo come un riconoscimento del fatto che Negri l’assalto al cielo voleva ancora darlo, sia pure a modo suo, mentre ritengo che i suoi fan della sinistra “antagonista” non ne abbiano alcuna intenzione.

Note

(1) A. Negri (G. De Michele a cura di), Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015.

(2) M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001.

(3) V. Giacché, Hegel. La dialettica. Introduzione al pensiero hegeliano, Diarkos, Reggio Emilia 2023.

(4) R. Bodei, “La dialettica nella storia della filosofia” in V. Giacché, op. cit.

(5) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

(6) A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, manifestolibri, Roma 2008.

(7) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica  nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Tronti riprende la definizione della politica come facoltà di tracciare del confine amico-nemico da un grande filosofo conservatore come Carl Schmitt, opzione che gli è stata rimproverata da una cultura di sinistra abituata a guardare il dito invece della luna (luna che nel caso in questione è la convergenza fra le concezioni schmittiana e leniniana del politico).

(9) Cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

(10) Cfr. J-F Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(11) Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(12) Vedi, fra gli altri, Cinque lezioni su Impero e dintorni, Raffaello Cortina, Milano 2003; Movimenti nell’Impero,Raffaello Cortina, Milano 2006; Inventare il comune, DeriveApprodi, Roma 2012.

(13) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008;  vedi anche Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(14) Ho criticato l’ottimismo tecnologico, con particolare riferimento alla rivoluzione digitale, di Negri e altri autori post operaisti nelle seguenti opere: Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaka Book, Milano 2013 e Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(15) Pierre Rosanvallon descrive così la filosofia politica dei nuovi movimenti in Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012.

(16) Sul concetto di capitalismo immateriale cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

(17) Una versione radicale del concetto di accelerazione in quanto fattore determinante della transizione a una società post capitalista si trova nel manifesto accelerazionista di N. Snricek e A. Williams: cfr. Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Editions, Roma 2018.

(18) Vedi in proposito Dell’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011 e Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015.

(19) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(20) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, vol. I (Le macerie dell’impero), Cap.V (“I volti del nemico. Le sinistre del capitale”).

(21) Cfr. J-C Michéa, I misteri della sinistra, Neri Pozza, Vicenza 2013; vedi anche Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano 2020.

(22) Ho analizzato il pensiero di Costanzo Preve in un recente articolo apparso su questa pagina:   https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/11/preve-dieci-anni-dalla-morte-luci-e.html

(23) Per una critica dell’autoritarismo dell’ideologia del politicamente corretto, cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018.

(24) Cfr. V. Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas, Roma 2023.

(25) L’identità socioculturale fra le attuali ideologie sinistra e classi medio alte è attestata dall’analisi dei flussi elettorali, che vedono il voto progressista concentrarsi nei centri gentrificati delle grandi città.

(26) Sul concetto di postdemocrazia cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

(27) Il concetto di imborghesimento delle classi lavoratrici nasce nel mondo accademico americano negli anni del secondo dopoguerra e trova un autorevole sostenitore, fra gli altri, in Herbert Marcuse.

(28) Sulla proliferazione dei diritti individuali rivendicati dai gruppi sociali più disparati vedi S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

(29) E’ l’approccio politico descritto da Pierre Rosanvallon nel già citato Controdemocrazia (vedi nota 15). Non a caso, Rosanvallon associa questa lettura del concetto di governance al pensiero di Antonio Negri.

(30) Nel mio ultimo libro (vedi nota 20) critico questa semplificazione, ispirata al concetto formulato da quella mediocre pensatrice politica che fu Hannah Arendt, citando fra gli altri gli scritti di Rita di Leo sull’Unione Sovietica (vedi in particolare L’esperimento profano, Futura, Roma 2011).

(31). Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.

(32) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(33) Cfr.Felici e sfruttati, cit., Utopie letali, cit. e Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.

(34) In due capitoli del secondo volume (il primo e il terzo) di Guerra e rivoluzione, cit. propongo una riformulazione radicale delle teorie della transizione alla luce, rispettivamente, dell’esperienza della rivoluzione cinese e delle rivoluzioni bolivariane.

(35) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Carocci, Roma 2021.

(36) Cfr. W. Benjamin,Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

(37) La critica dell’universalismo occidentale è impresa ardua che implica fare i conti con una nutrita serie di ismi: progressismo, illuminismo, individualismo, eurocentrismo, ecc. Anche molti degli autori citati in questo articolo (come Michéa, Preve e lo stesso Losurdo), che pure hanno  affrontato questa difficile impresa partendo dalla critica delle sinistre liberal progressiste, sono riusciti solo parzialmente a ridefinire la cassetta degli attrezzi di un pensiero coerentemente anticapitalista e antiborghese. Il che vale anche per il pluricitato Vincenzo Costa che, come argomenta Alessandro Visalli ( https://tempofertile.blogspot.com/2023/12/vincenzo-costa-lassoluto-e-la-storia.html ), resta impigliato nell’alternativa secca fra universalismo “critico” (ma pur sempre radicato nella tradizione europea) e relativismo.

CARLO FORMENTI

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